Il suono del Silenzio

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Ancora un bicchierino, mi sono detta. Ancora uno e dimenticherò tutto. Ancora uno e mi solleverò dallo sgabello, fluttuando, senza dover subire il peso dei ricordi.

Pensavo di essere abbastanza ubriaca a questo punto e non mi importava di come o quando sarei tornata a casa. Non che io abbia una vera casa. Un piccolo appartamento, pochi mobili. Un grande armadio per i vestiti e un grande letto per i sogni. O meglio dire incubi. Di sogni ne ho raramente. Gli unici sogni che ho avuto erano quando ero piccola e sognavo di diventare qualcuno, ma non un qualcuno qualsiasi. Volevo che la gente sapesse chi sono mentre passo per la strada, volevo che si girasse per guardarmi e poi sussurrare alla persona vicino «È lei, è proprio lei!». Volevo essere qualcuno, una persona sicura di se stessa. Da piccola avevo tante paure e pochi amici. Quasi nessuno. Ero sempre stata troppo timida, ma anche orgogliosa. Non volevo essere io quella che chiede se può aggiungersi al gioco; volevo che gli altri bambini mi chiedessero di farlo, di andare a giocare con loro, perché senza di me il gioco non sarebbe stato divertente. Mi ricordo, è successo solo una volta. Ero in seconda elementare e stavo seduta nel mio angolino a disegnare tanti fiori. Mi piaceva disegnare fiori perché mentre lo facevo, cercavo di immaginare il loro profumo. Immersa nella mia immaginaria degustazione olfattiva, quel giorno non mi accorsi neanche della bambina che stava di fronte a me e aspettava solo che alzassi lo sguardo. La bambina si chiamava Michelle. I suoi capelli biondi che di solito erano raccolti in due trecce, erano invece sciolti e venivano scompigliati dal vento tiepido primaverile, che soffiava via l'inverno e inalava aria pura, nuova, nei polmoni della terra. Con i suoi occhietti vispi e la voce acuta mi chiese se volevo giocare a nascondino con lei e gli altri bambini. Entusiasta, mi alzai subito e la seguì. Ma la mia eccitazione svanì quando capì che me l'aveva chiesto solo perché nessuno voleva contare. Sono sempre stata una ruota di scorta, una su cui si poteva ripiegare all'ultimo momento. Per quando l'accaduto potesse rendermi felice e triste allo stesso tempo, capì che era stato solo un piccolo assaggio della vita reale, da adulta. Nel lavoro bisogna accettare anche sotto umiliazione perché i soldi ormai sono più importanti dell'orgoglio. Talvolta bisogna fingere che non importi niente, tanto per evitare un po' di discussioni e problemi. E io di problemi ne avevo ormai troppi. Ora come ora il mio problema più grande è come all'indomani avrei spiegato al mio capo il motivo per cui mi ritrovo due enormi occhiaie. Nel mio lavoro è richiesto un aspetto perfetto ogni giorno. Ma adesso che ci ripenso, non è poi così grave. Anche se mi licenziasse, riuscirei a trovare un nuovo lavoro. Le modelle hanno sempre un lavoro finché sono giovani e belle.

La sveglia mi infastidisce più del solito. Con la mano la cerco sul comodino e la butto giù, sperando che si spenga. Gli assordanti bip bip mi rimbombano ancora nella testa, facendomi ricadere nel letto mentre cerco di alzarmi. Altri cinque minuti. Quando riapro gli occhi invece di cinque ne sono passati trenta. Merda, sono di nuovo in ritardo! Scivolo in fretta dal letto con la testa ancora dolorante per l'alcol e il mio sguardo ricade sulla foto che ho accidentalmente buttato per terra con la sveglia. Nella foto siamo ritratte io e la mia migliore amica. La prendo in mano e i ricordi di lei scacciano il mal di testa. È morta l'estate scorsa. Il suo ragazzo ha avuto un incidente in macchina e lei era con lui. Lui morto sul colpo e lei dopo due settimane in coma. Sono andata a farle visita solo una volta mentre era in ospedale e le portai un bouquet di margherite; erano i suoi fiori preferiti.

Non ho mai pianto realmente. Al suo funerale ho cercato di piangere con tutte le forze ma non sono riuscita a far scivolare sulla guancia neanche una piccola, misera lacrima. Mi sentivo in colpa per non riuscire a commuovermi. Non sono mai stata brava con i sentimenti. Ero come mio padre. Fredda e assente. Lui non c'era quasi mai e quando raramente ci ritrovavamo nella stessa stanza non sapevamo mai di cosa parlare. Mi sembrava di non conoscerlo affatto. Non mi meravigliai quando mia madre lo lasciò dopo che mi trasferii. Adesso non fa altro che lavorare quindici ore al giorno per poi tornare a casa e dormire. Un po' quello che faceva quando eravamo ancora una famiglia. Mentre questi pensieri mi riportano al passato, esco dal mio appartamento. Ho avuto abbastanza tempo per mettermi un paio di jeans e una camicia bianca, legarmi i capelli in una coda e mettere un filo di trucco che però non aiuta a coprire le mie enormi occhiaie. Essendo che non ho fatto colazione, mi fermo in un bar. Entro in fretta, non guardando dove metto i piedi e mi imbatto in qualcuno. Ho solo il tempo di capire che è un ragazzo snello e non troppo alto. Farfuglio un "scusa" e proseguo fino al bancone, pensando a quanto fosse stupido il ragazzo a indossare gli occhiali da sole in un locale chiuso. Non so come mai ma la sua persona mi suscita curiosità. È come se al nostro contatto una scossa mi avesse trapassato il corpo, scuotendomi l'anima. Mentre cerco di ricompormi, ordino un doppio espresso da portare via. La cosa più veloce da preparare e l'unica che riesce a risvegliarmi all'istante. Durante tutta la giornata la mia mente continua a ritornare al ragazzo di cui ho a mala pena visto la faccia. Sento come un'attrazione disumana e l'idea di lui mi fa dimenticare di tutto il resto.

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