Lui la oltrepassò, facendole capire di doverlo seguire.
Si girò per un secondo dietro di sé, e la squadrò. Sulla spalla sinistra portava un grosso borsone nero, "povera sciocca" pensò.
Non riuscì a trattenere un sorriso beffardo. Era davvero sciocca quella ragazzina.«Hai intenzione di portarti dietro tutta quella roba?» la schernì, indicando con l'indice il grosso borsone.
«Perché? È un problema?» Arthur stava iniziando a scocciarla, da lì a tre minuti lo avrebbe sicuramente mandato a quel paese se avesse proseguito, non aveva mai avuto troppa pazienza, ma quell'uomo riusciva ad esaurirla già con una frase. Odiava essere presa in giro, e le infastidiva il suo modo di porsi. Ma sapeva che lui lo stava facendo di proposito, e lei di certo non avrebbe mollato. Era anche una sorta di sfida personale.Lui rise, sembrava quasi sincero «No, no. Chiedo. Ma non credo tornerai a casa con tutto ciò, ti ho avvertita» asserì, prima di incamminarsi.
Aveva il passo veloce, e la ragazza non riusciva a stargli dietro. Doveva quasi correre, e con la pesantezza del borsone non era per nulla facile.
Sperava vivamente che lui si sbagliasse, non voleva perdere quelle poche cose che ci aveva messo, che cosa avrebbero dovuto fare? Venderle sul mercato nero? Era così strano! E lei, così... inesperta. Sì, forse era quello l'attributo più adatto. Si sentiva piccola, e stupida, di fronte a lui. Ma non doveva darlo a vedere, quella non era una competizione.Cercò di distrarsi guardando le strade della sua Boston, chissà quando sarebbe tornata. La sua casa, i suoi momenti felici, i suoi momenti no, li aveva vissuti lì. E solo quel giorno se ne rese conto: non era mai uscita dalla sua città, se non per andare da Connor quell'anno. Era sempre stata chiusa nella sua tana, il suo rifugio. La sua città le aveva sempre dato sicurezza, famigliarità. Era davvero pronta ad andarsene? Non tardò a rispondere: sì. Sì perché, doveva, doveva farlo, per se stessa e...
«Okay, eccoci arrivati» la voce dell'uomo s'insidiò nei suoi pensieri. Ma come già arrivati? Si concesse qualche secondo per guardarsi attorno. Non si era accorta, talmente immersa nei suoi pensieri, che avevano attraversato uno dei quartieri poveri e mal ridotti della città, e ora si trovavano proprio in un vicolo di uno di questi. Ma allora, era proprio in questo angolo della città che lui passava le sue giornate? Era così terribilmente orrendo.
Questo vicolo era il regno dei cassonetti, dei sacchi della spazzatura, dei topi e della confusione più totale. C'era una piccola tenda di fortuna costruita nell'angolo del vicoletto, probabilmente la usava quando pioveva. Al suo esterno una sottospecie di fornelletto di fortuna, una padella, la padella. Quella disgraziata che li aveva fatti rincontrare. E poi, varie cianfrusaglie: vestiti, uno zaino, legnetti vari, uno scatolone...
Ad un tratto rabbrividì. Quel posto le sembrava familiare, ed effettivamente era proprio così. Lo aveva visto, una di quelle notti, in sogno... il vicolo della spazzatura. C'era sempre stato qualcosa che voleva comunicarglielo, i sogni lo avevano collegato a lui. L'idea di ripensarci di nuovo, la faceva quasi svenire. Era tutto talmente assurdo che ormai non si era quasi più soffermata a pensarci.«E tu... vivi qui?» era talmente stupita dalla situazione che il fiato le mancava quasi. Come poteva un uomo vivere in tale condizioni? E nessuno se ne era accorto! Oh, giusto... loro, nessuno lo considerava sul serio...
«Vivere è un parolone, diciamo che ho soggiornato per un paio di mesi, fino ad oggi... è tempo di disfare tutto e ripartire» era totalmente tranquillo, a differenza dell'interlocutrice.
Per lui era totalmente normale, e tutto sommato, gli andava bene così. Nessuno lo disturbava, e se ne stava dove voleva. Certo, aveva trovato dei posti migliori, ma anche di peggiori. Quando era fortunato riusciva a trovare anche qualche hotel abbandonato, o delle vecchie auto...
In ogni caso, quello era il presente, e doveva rivolgere il suo sguardo al futuro. Innanzitutto, prendere la carta geografica e indicare alla mocciosa la loro meta. Entrò nella tenda verde di fortuna e prese la cartina sgualcita. Si sedette. La aprì e la pose sullo scatolone, che faceva parte dell' "arredamento", il quale aveva la funzione di tavolo di fortuna.
Leah si avvicinò, sedendosi a gambe incrociate.«Allora, riguardo alla tua domanda di prima... ecco vedi, i... noi ci troviamo qui, e dobbiamo arrivare in Michigan, più precisamente qui» segnò tutti i punti sulla cartina.
«E una volta giunti lì, che faremo?» anziché chiarirle le idee, aveva gettato ancora più confusione nella sua mente.
«Ho saputo che in mezzo al bosco c'è una grotta, utilizzata dagli indigeni prima che gli europei giungessero qui. Loro la usavano per compiere i loro riti sciamanici, e forse, potremmo trovare qualcosa che fa al caso mio.»
«E cosa staresti cercando di preciso?...» cosa voleva cercare in una grotta indiana? Avrebbero fatto chilometri e chilometri a vuoto! Ancora non capiva.
«Iscrizioni o qualcosa del genere. Erano soliti scrivere da delle iscrizioni visibili e comprensibili da tutti con tutte le procedure per farsi perdonare dagli dèi se avevano commesso un torto nei loro confronti» Arthur ne era davvero convinto, forse avrebbe finalmente trovato la chiave per il perdono divino. Secoli passati a girare quasi tutto il mondo, e la risposta probabilmente ce la aveva sempre avuta sotto il naso.
«Ma gli dèi nei quali credevano gli indigeni non erano esattamente gli stessi, quindi non credo valgano le stesse regole...» quasi gli faceva ridere l'ingenuità con la quale la povera Leah poneva quella domanda. Era così confusa, ma la capiva, era tutto nuovo per lei. Sì, gli aveva raccontato parte della sua storia, ma non tutti i trecento anni dopo, e quello che aveva scoperto in quel lasso di tempo. Per lui era talmente scontato che gli sembrò strano doverle raccontare tutto. Era talmente abituato a fare tutto da sé, e ancora si chiedeva perché non se ne fosse già andata.
«Neanche in ciò in cui credevi tu, era quello che poi si è rivelato essere, presumo. Non ti preoccupare, basta solamente farci l'abitudine, ancora mi dimentico che sei una novellina. Ti spiego brevemente: ogni popolazione ha i propri miti, no? Ecco, beh, inconsciamente noi stavamo credendo sempre e solo in loro. Tutti gli dèi nei quali abbiamo creduto o crediamo, in realtà sono loro, per esempio c'è chi chiama il re degli dèi Zeus, chi lo chiama Watacame, oppure Odino... e così via. Ecco, è sempre lo stesso, anche se le storie cambiano, loro sono sempre gli stessi, solo che ci è impossibile saperne il nome. Di conseguenza nei secoli della storia dell'uomo ogni popolazione ne ha dato la propria interpretazione. Loro parlano tante lingue e nessuna, sono tutto e niente...» aveva cercato di essere il più chiaro e conciso possibile, ma forse Leah doveva solamente assimilare.
«Oh...» in realtà, la giovane era solo molto confusa. Aveva visto la sua vita mutare in soli due giorni, e ogni volta era una batosta enorme ricevere una di queste notizie. Le sembrava quasi di essere in un film, ma non era così.
«Beh, scoprirai tutto meglio quando saremo giunti. Ora dobbiamo sbrigarci ed essere lì entro dieci giorni. La promessa o il desiderio o il rito che farò, qualunque cosa sarà, dovrà essere fatta durante l'eclissi totale di luna, che avverrà appunto tra dieci giorni. Già sono in ritardo di qualche giorno, quindi dobbiamo accelerare il passo» detto questo, iniziò a sistemare tutte le cose dentro lo zaino, solamente il sacco a pelo rimaneva leggermente fuori da esso, che già doveva essere molto capiente per contenere quelle cose che si portava dietro.
«Dai, guarda che io vado, hai forse cambiato idea e vuoi rimanere qui? Paura?» vedendo Leah imbambolata a fissare il vuoto aveva deciso di stuzzicarla un po'. Forse i suoi racconti la avevano turbata e aveva cambiato idea? Sarebbe stata la sua ultima chance di togliersela di torno.
«Paura non sta bene con il mio nome, mi dispiace per te» lei si svegliò improvvisamente dal torpore apparente, e rispose in maniera assai sveglia. Non si faceva di certo mettere i piedi in testa da tale uomo. E no, non aveva paura. Non ci aveva mai pensato. Anzi, era pronta per vivere quella avventura.
Il viaggio si spettava lungo e faticoso, presero un mezzo pubblico, che li portò fuori città, e da lì ne presero un secondo, e una volta smontati da questo, erano arrivati solamente nei pressi di Albany.
STAI LEGGENDO
Quegli Ultimi Cent'anni
General FictionBoston, 2005. La stazione dei treni è piena di gente, Leah e suo padre fanno fatica a farsi spazio tra la folla, ma devono sbrigarsi, il treno diretto a Worcester è in partenza tra cinque minuti. All'improvviso il caos, le persone iniziano a spostar...
Capitolo dodici || non si torna più indietro
Comincia dall'inizio