"Mamma, guarda!"

Esclamò una voce infantile verso una figura femminile, seduta sugli scalini di un tempio. Essa si voltò, interrotta in una fitta conversazione con una delle sue ancelle, e posò lo sguardo nel figlio; sorrise, e sospirò. Quel bambino non le avrebbe mai riservato neppure un istante di pace.

Come a seguire i suoi pensieri, il piccolo calciò un pallone di cuoio con scarsa precisione, facendolo terminare in un laghetto poco distante. Si voltò, rivolgenodole uno sguardo di scuse, e ridacchiando corse verso l'acqua. La donna scosse la testa, rallegrata da quel tentativo sebbene l'esito disastroso, e ritornò a discutere con la serva, perdendolo dalla sua vista.

"Credo che questa sia tua, principe."

Biascicò un ragazzino, che non doveva avere oltre un anno o due rispetto all'altro, chinando goffamente il capo. Nel farlo, abbandonò la barchetta di legno con cui stava giocando nella piccola pozza d'acqua; essa, lentamente, si allontanò dalla riva, ma non ci fece caso. Si preoccupò solo di mostrargli la sua devozione, reggendo nell'altra mano una palla, zuppa d'acqua. Il suo pallone.

"Lo è. Grazie!"

Rispose il piccoletto dai capelli biondi, osservandolo curiosamente. Non lo aveva mai visto prima di allora. Notando che l'altro manteneva lo sguardo rivolto verso l'erba ai loro piedi, lo sollevò lui, con il suo braccio; gli sorrise allegramente, con la spensieratezza di quell'età.

"Grazie a te, principe."

Mormorò l'altro, un po' timoroso da quel gesto. Gli avevano insegnato a mostrare la massima riverenza di fronte ai reali, e non capiva perché l'altro avesse alzato il suo sguardo.

"Mi chiamo Alessandro. Puoi chiamarmi così, va bene?"

Aggiunse il bambino, porgendogli una mano. Sembrava quasi felice di aver incontrato qualcun'altro con cui poter giocare; colpire palloni in quella piazza, mentre sapeva che sua madre non poneva la minima attenzione, stava diventando un po' triste. E poi, non voleva il suo rispetto, ma la sua amicizia.

L'altro spalancò gli occhi, evidentemente non abituato a quella confidenza, e esitò a rispondere. Tentennante afferrò la sua manina, e la strinse; gli rivolse un sorriso incerto, ma sincero.

"Io sono Nearco. Ma posso... davvero chiamarti Alessandro? Ne sei sicuro?"

Domandò, a bassa voce, mantenendo le sue dita a contatto con quelle dell'altro bambino. Esso ridacchiò, abituato a quella continua e eccessiva formalità, che tanto non sopportava. Voleva un amico, non un servitore; di quelli, ne aveva il palazzo già pieno.

"Ma certo! Anzi, voglio ripagarti per la palla. Recupererò io la tua barchetta, laggiù!"

Lasciando la presa che li univa, si avventurò nel laghetto; a nulla servirono le proteste di Nearco, perché l'altro sembrava irremovibile. L'acqua era bassa, e potevano toccare. Anche l'altro bambino entrò in acqua, e iniziarono una rincorsa infinita; la barca seguiva la corrente da loro provocata, Alessandro seguiva la barchetta, Nearco rincorreva Alessandro.

"Presa!"

Esultò poi il principe, sorridendo trionfante, mostrandogliela. Nearco, grato per quel gesto, ricambiò il sorriso, e la afferrò.

"Grazie mille, Alessandro."

Mormorò, sentendo tutta quell'esitazione precedente svanire. Si sentiva sereno con lui, e per un istante, gli sembrò di scordarsi del suo status sociale. Le labbra di Alessandro si distesero ancora di più in un sorriso, e ignorando le loro tuniche fradicie, gli porse il pallone.

Il tramonto di un dioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora