Cap 13: Mother's ignorance

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  Le ultime settimane di scuola erano decisamente le più frenetiche; non c'era un attimo di libertà, non potevi permetterti un pomeriggio al parco, una serata tra amiche o una pizza in famiglia, perché qualsiasi giorno della settimana fosse il tuo compito era studiare fino a tardi, prepararti per le ultime verifiche ed interrogazioni.
Uno strazio.
Dopo la serata liceale io e Mya c'eravamo praticamente viste pochissimo, se non per un pomeriggio a casa mia dove mi aveva comunque aiutata a studiare e una serata a casa sua, dove i protagonisti assoluti erano stati di nuovo i libri.
Non si era dimostrata restia ad aiutarmi, ma glielo avevo letto negli occhi che avrebbe preferito sdraiarsi a letto con me sotto un lenzuolo fresco di cotone a guardare un film romantico e a bere tea fresco alla pesca.
Non che io non lo preferissi di gran lunga, che sia chiaro, ma se non volevo che la mia media scendesse pericolosamente dovevo continuare a studiare.
Oltretutto, dopo ciò che era successo una settimana prima nell'auto di John per me era sempre più difficile - ma dal suo sguardo deducevo che fosse lo stesso anche per lei - starmene al mio posto e non saltarle addosso. Ogni volta che ce l'avevo vicina, ogni volta che mi sfiorava, mi baciava o mi toccava per sbaglio, mille brividi si diramavano in tutti gli epicentri nervosi del mio corpo e quasi mi mancava il respiro.
Lei era bella da morire ed io mi sentivo attratta da lei sempre di più, ogni giorno che passava.
In quella settimana compresi anche il valore della gelosia; capii cosa voleva dire essere infastidita dalla presenza di qualcuno che ronza intorno a qualcosa che ritieni solo tuo, difatti ciò che avevo avvertito quando avevo ricevuto quel messaggio da parte di Scarlett, nel quale diceva di essere andata a letto con Mya, tornò a farmi compagnia torcendomi lo stomaco.
La discoteca aveva cominciato ad ingranare, ma per coprire i costi aggiuntivi della luce e dell'affitto John era stato costretto ad organizzare altre tre nuove serate: la "Summer Dance", la "Serata Costume", e la "Giovani in sfilata".
La prima era stata una specie di debutto della nuova estate, visto che ormai anche maggio stava terminando e la nuova stagione si approssimava ad arrivare; la seconda fu una sorta di sequel, dove ognuno a mezzanotte si tolse i vestiti, restò in costume, afferrò una bombola di schiuma e cominciò a spruzzare l'altro; la terza si rivelò la più tranquilla delle tre, poiché fu dedicata più ai liceali che agli universitari, e si elesse la ragazza e il ragazzo più carino della serata.
Ad ogni modo, Mya fu costretta a lavorare per tutte e tre le notti, senza alcun cambio di turno. Tornò a casa solo alle quattro del mattino ed io... mi sentii così gelosa e impaurita all'idea che potessero esserci state altre ragazze mille volte più belle, attraenti, formose di me, che avrebbero potuto provarci con lei o verso le quali avrebbe potuto provare dell'attrazione fisica, che spesso restai sveglia a rigirarmi nel letto finché non ricevetti il suo messaggio della buonanotte e solo allora riuscii a prender sonno.
Furono dei giorni turbolenti, fatti di timore, ansia e rabbia: perché doveva lavorare per forza lì? Non poteva fare la cassiera o la cameriera in un bar? Non poteva lavorare in un cinema o al botteghino di un teatro? Perché per forza la barista in un androne di alcolici?
Ma poi mi ero presa metaforicamente a ceffoni e mi ero detta che era inutile pensare a tutte quelle cose sciocche e comportarsi da stupida. Dovevo essere grata del fatto che avesse un lavoro e dovevo tenere a bada la mia gelosia.
Era giusto che ci fosse, perché altrimenti la sua assenza sarebbe stata sintomo di disinteresse, ma dovevo chiuderla in un recinto, segnare gli argini, e impedire che fuoriuscisse dal cerchio.
E poi, inconsciamente sapevo che qualsiasi lavoro avrebbe fatto sarei stata gelosa di lei comunque.
Ad ogni modo, finalmente era sabato.
Il sole era caldo, la cucina risplendeva di una luce luminosa che mi mise subito di buonumore. Fuori le foglie degli alberi frusciavano solo se gli uccelli portavano del cibo ai loro piccoli, altrimenti tutto restava immobile e si udiva solo il loro cinguettare o il suono di un vecchio disco in vinile che girava su un grammofono.
Mi versai del latte freddo in una tazza e misi a riscaldare un cornetto ai cinque cereali, sedendomi sul lavello della cucina.
«Buongiorno», sbadigliò mia madre, stiracchiandosi in fondo alle scale ed entrando in cucina con i capelli scompigliati.
La salutai con un cenno della testa e mossi i piedi, penzoloni, avanti e indietro, bevendo dalla mia tazza.
«Potresti mettere un altro cornetto a riscaldare? Ho un po' di fame anche io», borbottò, mentre prendeva posto a tavola e si teneva la testa con una mano.
Mi allungai sul lavello ed infilai un altro cornetto nel microonde.
«Dov'è papà?».
«In ufficio, come al solito. Stamattina è dovuto uscire un'ora prima. Gli agenti delle banche hanno fatto un casino coi conti correnti on-line di alcuni clienti e tocca a lui risolvere tutto. Che gran pasticcio...», scosse il capo, esasperata.
Non avevo idea di che cosa stesse blaterando, per me tutto ciò che diceva riguardo al lavoro di mio padre era aramaico o burgundo antico. Una lingua morta o tuttal'più sconosciuta.
Mi finsi dispiaciuta ed annuii, come se ci avessi capito qualcosa.
Tirai fuori i cornetti dal microonde e gliene passai uno, poi addentai il mio.
«Tu e Mya non uscite oggi?», mi chiese, imitando la mia precedente azione.
Bella domanda.
Mi sarebbe tanto piaciuto vederla senza che libri, fogli e penne si intromettessero tra i nostri momenti intimi, ma non ero sicura di poterlo fare...
La guardai sovrappensiero.
«Non so, devo prima controllare il diario...».
«Ultimamente passate molto tempo insieme, ti vedo felice», m'incalzò. Andò verso il frigo e si versò un po' di succo d'arancia dentro una tazza di ceramica, poi tornò a sedersi al tavolo di fronte a me.
Ingoiai il mio boccone amaro ai cinque cereali e il mio sguardo vagò dai suoi occhi al divano del salotto ben visibile oltre la porta alle sue spalle.
Feci spallucce, nonostante sentissi dentro lo stomaco un nodo che, come un ascensore, si divertiva a fare su e giù lungo lo sterno e le viscere.
Senso di colpa per il fatto che le stessi tenendo nascosta una cosa così grande? Molto probabile... Negli ultimi anni non avevo potuto avere segreti, poiché aveva sempre voluto essere onnipresente nella mia vita, sapere tutto, seguire i miei passi, inseguire la mia ombra come se ne andasse della sua sanità mentale. In realtà, credevo che la sua sanità mentale fosse già realmente compromessa se l'unico modo in cui riusciva ad impegnare le sue giornate era impicciarsi negli affari di una figlia adolescente e cercare di manipolarne sempre le scelte a seconda di quello che lei avrebbe fatto. Era difficile quindi, per me, perdere un abitudine che automaticamente mi aveva inculcato affiché potesse vivere tranquilla: raccontarle la verità su tutto ciò che facevo - tanto, anche nel caso avessi deciso di mentirle, in un modo o nell'altro avrebbe sempre trovato il modo di stanarmi.
«Lo sono», conclusi i miei pensieri, optando per la verità. Addentai il mio cornetto e mi guardai i piedi, mentre sentivo i suoi occhi incenerirmi la testa e le spalle.
Sorseggiò il suo succo d'arancia in silenzio, annuendo solenne.
«Sono contenta. Insomma Mya sembra proprio una brava ragazza. E' solo che... ogni volta che la guardo penso che lei non rispecchi affatto l'immagine convenzionale di donna che la nostra cultura prende come punto di riferimento», parve rifletterci ad alta voce. Il suo sguardo puntò un angolo della finestra alla sua sinistra e i suoi capelli ramati s'illuminarono di arancio chiaro.
Chissà perché, avevo la nauseante sensazione che quella conversazione stesse prendendo una piega alquanto sconveniente.
Un'istinto che non riuscii a reprimere mi portò a ridere; avrei tanto voluto che suonasse come una risata divertita o confusa, ma alla fine suonò come isterica e nervosa.
«Che vuoi dire?», trangugiai il mio cornetto di fretta, tradendo un nervosismo che avrei dovuto celare per non darle ulteriore conferma del fatto che mi sentissi come un circense su un letto di chiodi.
Roteò gli occhi e sorrise, facendo spallucce, poi mi indicò:
«Beh, basta guardarti, con quegli occhioni castani, quei capelli lunghi e mossi... Ti ho cresciuta come una principessa, tutta camicette color pastello, collant ricamati e gonne, ed oggi sei ancora la principessa che eri allora. Invece lei è... diversa», si guardò intorno, come alla ricerca della parola adatta.
Numero uno, lei non mi aveva cresciuta come una principessa. Se per tutti quegli anni avevo indossato solo camicette colorate e imbarazzati collant in tinta era solo colpa sua, poiché aveva sempre scelto al posto mio, dai capi più semplici agli accessori, come se fossi una bambola che poteva vestire e spogliare a suo piacimento e riposare sulla mensola quando era stanca di giocarci. Secondariamente, perché Mya era tanto diversa ai suoi occhi? E perché il suo essere donna era tanto differente dagli standard culturali di tutto il resto del mondo o, comunque, diverso dagli standard che la nostra società imponeva? Dove voleva arrivare con quelle frasi senza conclusione? Mya non era uno stereotipo ed ero fiera di questo. Non era la solita ragazza etero con gambe lunghe, un gran sorriso e chilometrici capelli biondi, e con questo? Ciò faceva di lei una donna... meno donna delle altre? Non era la solita ragazza lesbica con felpe extralarge e jeans maschili, e con questo? Una ragazza come Shane non poteva essere considerata donna solo perché amava vestirsi, comportarsi e fare l'amore in modo diverso rispetto al resto della civiltà moderna? Solo perché rappresentava una categoria di donne che amavano altre donne?
Chi era lei per giudicare chi era l'immagine giusta di cosa?
«Beh, è una cosa positiva che lo sia. Immagina un mondo dove ogni donna è uguale all'altra... sarebbe un mondo privo di colori e pieno di gelosia!», cercai di recuperare il danno fatto con la risata nervosa di prima scuotendo la testa e sorseggiando il mio latte freddo, puntando lo sguardo di nuovo oltre le sue spalle.
Sorrise.
«Sì, è così. Volevo soltanto dire che lei non è come te...».
Le lanciai un'occhiataccia e riposi la mia tazza dentro il lavello, seria.
«E' come sarebbe?».
Fece spallucce.
«Oh, avanti, Ally! Tu sei molto più femminile e delicata! A guardarti si direbbe che tu sia fatta di porcellana, mentre lei... lei sembra più una bambola di pezza!», bevve il resto del suo succo e depositò la tazza accanto alla mia, venendomi più vicina.
«A me sta simpatica. E poi, molti bambini preferiscono le bambole di pezza a quelle di porcellana», feci spallucce e saltai giù dalla cucina, poggiando i piedi per terra.
«Non c'è dubbio! Volevo solo metterti in guardia, Ally. Lei sembra molto simpatica e affidabile, ma la sua apparenza non mi sembra delle migliori. Certo, è sempre meglio non giudicare dalla copertina, ma nel caso in cui ti confidasse di appartenere ad un mondo a cui invece tu non appartieni, chiarisci subito che vuoi tirartene fuori e allontanati, okay?», mi baciò la fronte, un bacio che mi fece pensare a Giuda, come se si stesse scusando anticipatamente per qualcosa che avrebbe scatenato in futuro se solo non avessi ascoltato i suoi avvertimenti.
Mi passai una mano sulla fronte, schifata, e la vidi andare via verso la camera da letto.
Non volevo riflettere ancora sulle sue parole, o il latte mi sarebbe tornato su.
Tornai in camera mia giusto in tempo per sentire il mio telefono squillare; lo afferrai ed accettai la chiamata.
«Pronto?».
«Buongiorno», sussurrò Mya, la voce chiara di chi è già sveglia da un po'.
«Ehi, ciao... Sei a casa?», l'interrogai, avvertendo dall'altra parte della cornetta il suono assordante di una sirena.
O era fuori casa mia?
«No, in realtà sono sotto la tua finestra», ammise ridendo.
Spalancai gli occhi, per poco il telefono non mi rotolò via dalle mani; lo lanciai sul materasso prima che potesse patire una misera sorte e spalancai la finestra, accostando le tende lilla.
Bella come il sole, se ne stava sotto la mia finestra con gli occhiali da sole tra i capelli, una canotta larga sul seno e un paio di pantaloncini azzurri a livello coscia.
«Che diavolo ci fai qui?!», risi, cercando di fare il più piano possibile.
Fece spallucce, si allontanò un attimo sotto il davanzale in un punto in cui mi era impossibile riuscire a vederla, e tirò fuori un vassoio dorato coperto da un tovagliolo che mi mostrò, rigirandoselo tra le dita.
La guardai confusa.
«Vengo ad aprirti», dichiarai, sentendomi immediatamente meglio e dimenticando quasi la stupida conversazione avuta con mia madre.
Richiusi la finestra in fretta e corsi giù per le scale, accogliendola in casa.
Non appena entrò, una scia di profumo da bagnoschiuma m'invase la cucina, costringendomi a chiudere gli occhi.
Possibile che fosse diventata così indispensabile per me da bramarne pefino l'odore?
«Ti ho portato una cosa», esclamò, superandomi senza baciarmi.
Le regole erano chiare: quando eravamo a casa sua potevamo fare ciò che voleva, guardare un film abbracciate, coccolarci, baciarci, prenderci in giro e fare perfino la lotta coi cuscini, ma a casa mia dovevamo sembrare assolutamente due amiche normali che si raccontano i segreti sui ragazzi e parlano di come sarà la loro prima volta.
Avevo paura di quello che poteva scatenarsi se solo mia madre avesse scoperto il rapporto che intercorreva tra me e Mya. Non ero sicura di come avrebbe potuto reagire, ma di certo la sua non sarebbe stata una reazione positiva. Non avrebbe indetto un party in onore della nuova scoperta sessuale di sua figlia, questo era certo. Come ero anche sicura del fatto che avrebbe cacciato via Mya a calci nel sedere fuori da casa nostra... e dalla mia vita.
Quindi, per evitare qualsiasi spiacevole inconveniente, era meglio tenere mani, bocche e corpi a debita distanza.
«Fammi vedere», la inseguii, mentre lei spacchettava il suo vassoio sul tavolo della mia cucina.
Scartò una torta rotonda ricoperta di glassa al cioccolato fondente, abbellita da quadrati di croccante agli arachidi.
Ingrassai di trenta chilogrammi solo guardandola.
Allungai una mano inconsciamente, come se volessi divorarla a mani nude, ma uno schiaffo sul braccio da parte di Mya mi riportò alla realtà.
«Ah-ah. No. Questa torta si chiama "compromesso"», mimò le virgolette nell'aria.
Aggrottai le sopracciglia e battei le palpebre.
«Che vuoi dire?».
«Voglio dire, signorina, che sono stanca di vederti studiare tutto il giorno senza un attimo di pausa. In quest'ultima settimana non ti sei alzata neanche per cenare e se non fosse stato per tua madre o per me non avresti mangiato nulla neanche a pranzo! Direi che è un po' troppo, no?», si sedette al centro del mio tavolo ed incrociò le braccia, allontanando la torta da sè e guardandomi severa.
Mi morsi il labbro inferiore e mi guardai i piedi.
Seguì il mio sguardo: «Carina questa maglietta», commentò, un sopracciglio alzato.
Tirai la stoffa verso il basso, cercando di coprirmi di più le cosce: quella maglietta extralarge mi copriva a stento il sedere, ma di certo non potevo sapere che sarebbe passata a casa mia a quell'ora del mattino con una sorpresa tanto bizzarra, per giunta! Altrimenti mi sarei fatta trovare sicuramente in uno stato più decoroso!
Arrossii e lei si passò l'indice sulle labbra, sovrappensiero.
«Ringrazia che siamo a casa tua», mimò con la bocca, nemmeno un piccolo suono fuoriuscì.
Sentii le orecchie pungermi e capii di essere diventata realmente viola, ragion per cui cercai di tornare all'argomento principale della nostra conversazione.
«Comunque, non posso permettermi nessuna distrazione. Devo assolutamente studiare matematica perché...»
«L'hai fatta ieri».
Boccheggiai.
«Devo ripassarla comunque. E poi c'è scienze ed arte, che...»
«... che hai studiato con me tre giorni fa».
«La ricerca di storia!», m'illuminai, trovando una speranza. «Quella devo assolutamente finirla!».  

Give me your hands and save meDove le storie prendono vita. Scoprilo ora