Homo de mala natura

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La notte era tenera e profumava di primavera. Il venticello dolce che spirava dalla costa portava con sé l'aroma pieno e conturbante del mare, che andava a mescolarsi con quello più terreno e concreto del bosco che stava a non molta distanza dalla casa di Elisabetta Aldovrandini.

Dal palazzo si sentivano ancora arrivare le voci di quelli che facevano festa e, di quando in quando, se il vento era a favore, si potevano riconoscere ancora le ultime note strimpellate dai musici.

Pandolfo restava nell'ombra, lontano dalle carrozze e dalle torce appese al muro della casa di sua madre, ma teneva con attenzione d'occhio il portone.

Sapeva che Raimondo sarebbe uscito da lì.

Il giovane, che avrebbe compiuto diciassette anni solo a luglio, annusava l'odore di quella notte di marzo con sospetto. Gli abiti da penitente che sua madre gli aveva fatto indossare gli stavano anche troppo larghi. Quegli stracci servivano solo per mascherare meglio la sua identità e per permettergli di tenere il pugnale celato agli occhi del mondo.

Si trattava quasi di uno stiletto, di un tagliacarte, per quanto era lungo e sottile, ma Pandolfo immaginava che sarebbe bastato.

Quando sua madre gli aveva chiesto se avesse già ucciso qualcuno, il ragazzo si era sentito in forte disagio, non sapendo cosa rispondere. Visto lo sguardo assente con cui la donna lo aveva fissato, però, Pandolfo aveva intuito cosa si aspettasse da lui.

"Certo, madre." aveva risposto, sentendo qualche goccia di sudore scendergli lungo la nuca, tra i lunghi capelli neri e lisci.

"I mendicanti, gli schiavi, i vecchi e le donne del bordello non contano." aveva precisato allora Elisabetta, mentre i suoi occhi piccoli e tondi tradivano un barlume di speranza.

"Mi sono scontrato con uomini cresciuti – aveva mentito spudoratamente Pandolfo, terrorizzato all'idea di poter deludere sua madre – e li ho uccisi."

Che Elisabetta gli avesse creduto davvero o meno, non lo si era capito, ma comunque quel discorso doveva averla convinta, perché subito dopo aveva porto lo stiletto al figlio e gli aveva spiegato che cosa avrebbe dovuto fare la sera del ballo.

Mentre ripassava nella mente quella scena, il giovane Malatesta cominciò ad avvertire un tremendo vuoto allo stomaco.

Fissava ancora il portone del palazzo, intento a scorgere subito suo cugino Raimondo, e intanto si rimproverava da solo per non aver toccato cibo per tutto il banchetto.

L'agitazione per quello che l'aspettava era stata tale che, anche davanti alle sue portate preferite, Pandolfo non era stato in grado di mettere in bocca altro se non qualche pezzetto di pane. Non aveva nemmeno toccato il vino, ad accezione del sorso bevuto all'apertura delle danze, e adesso il suo corpo protestava per quella negligenza.

Il battere ritmico di quattro zoccoli sulla terra battuta gli fece perdere un colpo al cuore, ma per fortuna si trattava solo di uno dei servi che aveva portato un cavallo a fare due passi, forse perché troppo agitato.

Quando tornò il silenzio, Pandolfo strinse con più forza il manico del pugnale in mano e respirò lentamente. Doveva farsi forza. Non poteva deludere sua madre.

Raimondo aveva l'abitudine di lasciare le feste abbastanza presto. Forse per qualche sua forma di prudenza, o forse solo perché tra balli e brindisi si annoiava a morte.

Quella sera, però, sembrava ritardare.

La testa di Pandolfo venne attraversata con orrore da una serie di terribili immagini. Mentre si incassava nelle spalle e spostava il piede da una delle lunghe e secche gambe all'altra, il giovane figlio del compianto Roberto Malatesta si immaginò che suo cugino avesse notato la sua sparizione improvvisa dalla sala, che avesse accusato sua madre Elisabetta di essere in odore di congiura e che avesse cominciato a uccidere tutti i presenti.

Homo de mala naturaWhere stories live. Discover now