La lenta guarigione degli occhi

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Era il gennaio del 2006. 

Mi ero appena lasciata alle spalle un anno che, alla luce dei parametri adolescenziali, oggi non esito a definire 'piuttosto di merda': avevo inspiegabilmente perso la testa per un soggetto che di speciale non aveva nulla, se non la capacità di illudermi e di farmi smettere di mangiare (e per togliere l'appetito a me, già a quei tempi, ce ne voleva).

Mi trascinavo a scuola senza voglia: le lezioni un tempo amate mi sfioravano appena e assistevo alla vita di classe come a un vecchio film muto, con la voglia di andarmene, ma senza la forza per farlo.

Avevo perso peso, avevo perso interesse, avevo gli occhi grandi come sempre, ma del tutto spenti.

Era gennaio, ma sentivo che non sarebbe bastato il nuovo calendario a farmi voltare pagina. Mi sarei aggrappata all'inverno, che ormai mi rappresentava bene, e sarei andata avanti così, tra una versione di greco e un compito di chimica.

Poi, un giorno, è arrivata lei.

A casa nostra i gatti non avevano mai avuto cittadinanza. La grande casa della nonna, nel paese vicino, ospitava quello che nei temi delle elementari presentavo come 'il  mio gatto', un certosino cacciatore, bello e selvatico. Ma era solo un'adozione a distanza, ben altra cosa rispetto alla vera e propria convivenza con un animale.

Avendo come modello quella piccola tigre da giardino, mia madre era sempre stata scettica in tema di animali domestici: la mia missiva a Babbo Natale era un modello standard in cui il desiderio 'gatto' si confermava, ogni anno, in cima alla top ten delle richieste,  ma rimaneva puntualmente lettera morta.

Giunta all'età di sedici anni, avrei avuto ben altre cose da chiedere al vecchio Santa Klaus, non fosse stato che il mio spirito del Natale, in quel periodo, eguagliava ormai quello di Mercoledì Addams.

Come dicevo, mia madre era sempre stata scettica, ma in quei giorni di gennaio il dubbio aveva lasciato il posto alla disperazione: non ne poteva più di vedermi così malridotta.

Una sera, mentre stavamo rincasando, la macchina accosta ad un piccolo negozio per animali a due passi dalla nostra via. Deve prendere le scatolette per i randagi, ho pensato.

Dentro il negozio era caldo, un po' umido, l'odore acre del mangime per pesci incontrava il profumo metallico delle scatolette nuove fiammanti.

Inizio ad aggirarmi per gli scaffali: ho sempre amato l'assortimento delle lattine, i nomi assurdi che i pubblicitari danno alle pappe. Giunta alla cassa trovo mia madre accovacciata di fronte a una grossa gabbia. Tra le sbarre, adagiata su una vecchia coperta, si intravede una minuscola palletta di pelo color panna, con due orecchie marroni decisamente sproporzionate.

Gli occhi sono chiusi, ma in realtà non sta dormendo: ha una grave forma di congiuntivite che le impedisce di aprirli. 'Come mia figlia!' esclama entusiasta mia madre (sì, per alcuni anni, ho dovuto rinunciare alle lenti a contatto, aggirandomi in modalità nerd prima che fosse in voga).

La minuscola palla di pelo ha l'aria davvero malridotta, è una trovatella. La mamma si gira a guardarmi: la prendiamo?

Tempo due secondi e il piccolo Furby non vedente è in macchina con noi, alla volta di casa.

E' così che è cominciata: la nostra vita con Dafne, ma anche la mia nuova vita.

Il richiamo ad uno dei miti più affascinanti di sempre ha presto lasciato il posto a innumerevoli soprannomi, primo fra tutti Daffy.

Grazie alle nostre cure, gli occhi della palletta sono presto guariti, e proprio grazie a quello sguardo azzurro e stupito, è iniziata anche la mia, di guarigione.

Vederla nascondersi sotto i mobili, schizzare come una biglia impazzita per farsi rincorrere, sentirla arrivare di notte sulle mie coperte, tremare ad ogni suo esercizio da funambolo in balcone...all'improvviso, mi sono resa conto di aver ricominciato a sorridere.

I fan dei cani di solito ostentano una certa superiorità, ritenendo che il gatto sia una creatura impermeabile ad ogni sentimento, incapace e non desiderosa di rapportarsi con l'uomo.

Ebbene, non tutti i gatti sono uguali, e anche tra quelli domestici, ognuno ha il suo temperamento.

La peculiarità di Dafne era la presenza. Lei voleva esserci, sempre. Il più grande affronto, una porta chiusa a separarla dagli altri, non poteva durare che pochi secondi.

La sera, a cena, prendeva posto su una sedia spaiata, in un angolo della cucina: seduta sulle zampe posteriori, assisteva al momento conviviale, finché qualcuno non se la prendeva in braccio.

Non mi avrebbe stupito sentirla dire la sua sulla crisi economica, oppure offrirsi di asciugare i piatti.

Aveva preso l'abitudine di ritirarsi per la notte ai piedi del letto padronale: ogni mattina, tra le 5.30 e le 6.00, si accostava al lato occupato dalla mia mamma -dalla sua mamma- e reclamava a gran voce la colazione. Le sue ciotole erano piene, come sempre, ma non c'erano storie: cercava la compagnia.

La cercava, la compagnia, e la offriva, con la sua silenziosa apparizione: mi mettevo alla scrivania e tempo qualche minuto mi accorgevo che dietro di me, o al mio fianco, era comparso un autentico gatto di marmo, seduto compostamente sulle zampe posteriori.

Con Dafne che vegliava sul mio rendimento, i lunghi pomeriggi a sfogliar manuali diventavano un momento di piacevole raccoglimento, fatto di biscotti, tazze di the in cui cercava di cacciar la testa, di zampate alla matita e code che battono sulle pagine del libro, a coprire l'esatta riga che cercavo di leggere.

Rincasando dalle serate, fossero le undici o le due del mattino, aprivo la porta e la trovavo lì, ritta all'ingresso, con gli occhi socchiusi, gonfi di sonno: assicuratasi del mio regolare rientro, faceva ritorno ad uno dei suoi mille giacigli.

Chi di voi ha un animale avrà sentito parlare del 'Ponte sull'arcobaleno'.

Io non conoscevo quest'espressione, ma ho dovuto inserirla nel mio vocabolario quest'oggi.

Perché è lì che, questa notte, la nostra palletta di pelo se ne è andata, improvvisamente, dopo qualche giorno di insospettabile malessere ed un trattamento veterinario piuttosto discutibile.

Mi hanno spiegato che è il luogo dove vanno gli animali quando ci lasciano.

Ora, non mi aspetto che siano tutti così sensibili da comprendere, so bene che il cinismo nei confronti degli animali è una tendenza piuttosto diffusa.

Per me, per noi, per tutti coloro che hanno mai avuto un animale che non fosse un mero status symbol, lo stesso animale diventa ed è a suo modo un componente della famiglia.

Nel mio caso, Dafne ha rappresentato tante cose: la mia rinascita, l'incontro con la persona che mi ha cambiato la vita, gli anni più belli da quando sono al mondo.

Lei ha assistito a tutto, ha scandito le nostre giornate con le sue esigenze, mi ha visto piangere, imprecare, gioire, mi ha visto prendere il diploma, andare in erasmus, consegnare la tesi.

Doverla salutare, mi mette di fronte al tempo, alla sorte e alla mia fortuna, e tra le lacrime mi trovo a sorridere e a ringraziare per tutta la bellezza che ho vissuto.

Nove anni fa la mia felicità ha preso il colore di quei morbidi peli bianchi, e per la prima volta mi dispiacerà avere gli abiti precisi e puliti, senza una traccia di lei.

Ma durante la notte, all'udire rumori in salotto, non crederò, in ogni caso, che siano  fantomatici ladri: penserò, amica mia, che lungo il ponte dell'arcobaleno hai trotterellato fino a qui, che la tua pallina preferita è ancora in cucina, e sai che in questa casa, proprio per te, le porte non si possono chiudere, mai.


La lenta guarigione degli occhiWhere stories live. Discover now