Mi svegliai che era già mattina, dalla serranda semiaperta della mia finestra penetrava un uno spiraglio di luce. Era domenica, poteva voler dire soltanto una cosa: niente scuola, niente sveglia, poteva essere qualsiasi momento della giornata.
Le sette e ventitré. Era ancora molto presto ma almeno ero riuscita a svegliarmi con il sole e dormire tutta la notte. Non ricordavo nemmeno di aver fatto alcun incubo, mi sentivo meglio, forse avevo solo bisogno di un po' di riposo. Mi guardai un intorno, mi stiracchiai per bene e mi voltai dal lato opposto alla finestra, cercando di riaddormentarmi. Purtroppo però non vi fu verso e decisi di andare in casa dei miei - ormai casa mia - per sbarazzarmi di tutte quelle cose che ormai non mi servivano più, chissà, in vista di un affittuario, magari. Ormai avevo diciotto anni, avrei a breve preso il diploma e dovevo veramente cominciare a considerarmi un'adulta.
Mi diressi verso la cucina per fare colazione, presi la ciotola bianca dal cassetto, i cereali dallo stipetto e il latte dal frigo. Amavo la colazione della domenica, perché era una di quelle che si fanno seduti al tavolo, con calma e senza. Afferrai il cucchiaio, cercando di non fare rumore.
Una nella casa di sopra, mi guardai intorno: tutto sembrava un ammasso di cose inutili che non servivano ma nel momento in cui decidevo di riordinare e buttare via le cianfrusaglie, sembrava tutto così maledettamente utile, come se non potessi vivere senza. Così cominciai a perdere tempo ripescando vecchi ricordi che i miei mi avevano portato da qualche parte strana del mondo o prendendo vecchie foto di me bambina per qualche compleanno.
Mi fermai di fronte a quella che io chiamavo "la parete delle lettere", una parete dove avevo appeso tutte le lettere e le cartoline che i miei genitori erano soliti spedirmi per ogni ricorrenza. All'inizio me ne spedivano una a settimana, poi cominciarono diventare una al mese, per poi essere cinque o sei l'anno, fino a ridursi completamente alle uniche due lettere che mi spedivano: quella del mio compleanno e quella di Natale. Con l'avvento delle videochiamate e della messaggistica istantanea online smisero quasi di mandarmi fotografie e, di conseguenza, il numero di lettere ricevute da me si era quasi azzerato.
Presi una scatola di scarpe e staccai la prima cartolina, per metterla dentro. Vedevo i loro volti sorridenti guardare dritto verso l'obbiettivo. Mia madre aveva dei corti capelli neri e ricci e due occhi verdi da far paura, mio padre aveva dei capelli castano chiaro e molto lisci e due occhi dello stesso e identico colore dei suoi capelli. Dovevo aver preso il colore dei capelli di mia madre e il liscio di mio padre. Mi chiesi come fossero adesso e se i capelli di mio padre fossero di quel colore intenso o già brizzolati.
Per quanto cercassi di fregarmene e autoconvincermi che fossero due stronzi che mi avevano abbandonata, mi mancavano e continuavo a chiedermi perché scegliessero ogni giorno il loro lavoro a me, perché avevano scelto di non crescere la propria figlia e andarsene dalla sua vita. Lo sai il perché, mi dissi. La verità mi faceva troppo male ma non riuscivo a darmi altra spiegazione: erano arrabbiati con me perché Leo era scomparso e io no, anche se avevo solo cinque anni. Come se non avessi sofferto abbastanza anche io. Possibile che mi odiassero?
In quel momento sentii un rumore provenire dalla porta di ingresso. «Nonna?» nessuna risposta. Il rumore però continuava, sembrava quasi un fruscio, poi una serie di passi. Mi diedi un'occhiata intorno, per assicurarmi che nessun animale si fosse intrufolato dentro casa mia. «Nonna?» provai di nuovo ma niente.
Mi calai per riprendere la scatola che avevo poggiato a terra, quando sentii un brivido congelato lungo la schiena e, con la coda dell'occhio, vidi una di quelle figure evanescenti. Questa volta era tanto densa da sembrare quasi una nuvola nera. Mi pietrificai all'istante, sentivo le gambe molli come due spaghetti cotti e tutto il resto del corpo pareva fatto di marmo. Non potevo muovermi, mi veniva pesante persino respirare. Avevo quella cosa davanti a me e questa volta non potevo dire di averla vista con la coda dell'occhio o di essermi sbagliata, perché la stavo fissando da qualche secondo e non era sparita. I secondi parvero ore ma, quando finalmente sparì, lasciai cadere scatola e fotografia e scappai via, richiudendomi la porta alle spalle.
Scesi di corsa tutte le scale, e mi ritrovai di colpo fuori dal portone di casa, col fiatone, le gambe ancora molli e le mani che mi tremavano. Rovistai nella mia tracolla alla ricerca del mio iPod, sperando di trovarlo lì. Non avevo paura di quelle cose in sé, avevo paura di vederle, del fatto stesso che le vedessi: ero pazza?
Avrei camminato finché non mi fossi calmata, sarei andata lontano abbastanza da sentirmi in una zona di sanità mentale, dove la mia follia non poteva seguirmi.
Camminai a vuoto per parecchio, con le cuffie alle orecchie: io, me e nessun altro, solo la musica a farmi compagnia, senza una meta, e continuai finché non arrivai al supermercato, chiuso, così mi fermai a guardare la vetrata per alcuni istanti. Dallo specchio della vetrata vidi il riflesso di un volto, il volto più bello e inquietante che avessi mai visto in tutta la mia vita. Mi voltai di scatto ed era lì, fermo, che mi sorrideva. Era Tore, chissà come mai da quelle parti a quell'ora. Tolsi via una cuffia dall'orecchio.
«Ciao.» Cominciò «Posso farti compagnia?» La sua presenza perenne cominciava ad inquietarmi, non era normale che, dovunque andassi, spuntasse come un fungo. Tolsi anche l'altra cuffia. In un primo momento, poggiai entrambe le cuffie attorno al collo, poi le avvolsi al lettore che riposi dentro la mia tracolla.
«Che ci fai qui?.» Dissi diffidente, col cuore che ancora mi martellava nel petto dallo spavento.
«Stavo passando e, quando ti ho vista ferma, mi sono detto "ma è Giulia?" e così ho pensato di venirti a salutare, spero di non averti disturbata, vuoi che ti lasci sola?» Disse come se fosse certo del contrario. Aveva un non so che di strano, troppo calmo, troppo "non da lui" e non mi convinceva il suo atteggiamento.
«Tore, che cazzo vuoi?» Decisi di tagliare corto, perché non ero in vena delle sue stronzate e dei suoi giochetti. Avevo già abbastanza a cui pensare e non lo volevo tra i piedi. Be', forse.
«Perché sei sempre così scontrosa?» Il suo tono era esageratamente calmo e comprensivo, mi sembrava di parlare con una di quelle persone super educate con cui mi sentivo sempre a disagio, perché non mi sentivo mai abbastanza beneducata o gentile, in loro presenza. Non risposi, non sapevo che dire.
«Ti vanno quattro passi?» Mi stava prendendo in giro? Con quel tono di gentilezza sembrava quasi impossibile che fosse serio, che fosse lui. «Che cosa ci fai qui, di domenica a quest'ora e tutta sola?» Non solo il suo tono ma anche i suoi modi di parlare erano diversi, mi sembrava di parlare con uno sconosciuto.
«Ehm... be' in realtà è quello che mi chiedevo anch'io.» Dissi guardandolo curiosa, confusa. Mi aveva disarmata: come poteva cambiare così tanto atteggiamento? Credevo mi stesse prendendo in giro, però sembrava drammaticamente serio.
«Ti riferisci a me? Niente, cammino dove mi porta il vento, passeggio, ed ero alla ricerca di un posto tranquillo.»
«Già, ti capisco.» Commentai.
«Dove i pensieri non mi raggiungano.» Pronunciammo quelle parole all'unisono, io le sussurrai appena, mentre lui le pronunciò decise, a continuazione del suo discorso. Ci guardammo negli occhi, lui scoppiò a ridere, io invece trovavo ancora la sua presenza altamente inquietante. Smettila, cretina, mi dissi e mi sforzai di sorridere e provare ad essere quantomeno normale.
«Trovato niente, finora?» Chiesi col un sorriso forzato.
«Be', in realtà ci sarebbe un posto. Vuoi vederlo?» Propose.
Annuii.
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Il Pezzo Mancante
ParanormalGiulia è una normale diciottenne al suo ultimo anno di liceo quando il suo cammino incrocia quello di Salvatore Esposito (Tore), un ragazzo con un fascino da "bad-boy" sexy ma talmente misterioso ed enigmatico da metterle i brividi. Lei lo aveva già...
5. Un'altra persona pt.1
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