Julia, dispiaciuta, era scappata via per chiudersi in camera sua, fra le quattro mura che rappresentavano gran parte del suo mondo, la protezione dal giudizio degli altri sulla sua essenza spesso incompresa. Si era lanciata sul letto, con la testa sotto il cuscino per soffocare un pianto disperato. Aveva creduto di fare la gradassa, all'inizio, con l'agente Barton ed era finita a tormentarsi per ciò che gli aveva letto nel cuore e nei ricordi: esperienze orribili, sofferenze familiari, abusi fisici. Non troppo diverse dai propri dolori; questo l'aveva sconvolta aggiungendo ansia alla tristezza oggettiva delle immagini che scorrevano nella mente dell'Avenger, fotogrammi a colori, dall'infanzia al terzo millennio.
Sapeva che sfogliare i pensieri del prossimo non era mai stato un dono, ma una maledizione abbattutasi su di lei. Ne aveva avuto la controprova, casomai gli ammonimenti di Charles nel corso degli anni non fossero stati sufficienti. Nella sola volta in cui si era allontanata dalla via maestra del rispetto della privacy altrui, si ritrovava turbata come non mai.
Sospirò, cercando di calmarsi, e di isolarsi dagli avvenimenti di pochi minuti prima, senza riuscire a placare la tachicardia che sembrava farle uscire il cuore fuori dal torace. Le voci in cortile la richiamarono alla finestra, cui si accostò, preso dalla tasca dei jeans un fazzolettino per soffiare il naso. Non le servì la telepatia per comprendere l'esito negativo dell'incontro.
Rimase nascosta dietro la tenda, il tempo di vedere Clint che discuteva animatamente con Natasha Romanoff.
Vedova Nera lo aveva invitato a rientrare e a terminare la riunione, interrotta a causa del litigio con la mutante e di ciò che ne era seguito.
L'arciere si era rifiutato categoricamente; aveva aperto lo sportello di una jeep grigio pastello, dipinto di nero e fregiato di uno stemma a forma di aquila, e si era seduto, con piglio risoluto.
Tuttavia, il Falco non era ripartito immediatamente; aveva aspettato che anche Fury, Steve e Thor salissero sul veicolo. In caso contrario questi ultimi non sarebbero potuti tornare a New York sull'auto poco confortevole di Tony Stark e avrebbero dovuto prendere un taxi.
Charles li aveva accompagnati fino al parcheggio con Raven e Ororo, salutandoli con cortesia e con un generico e poco promettente a presto.
Nei minuti di attesa, Fenice aveva scrutato Clint, che aveva tenuto aperto lo sportello del fuoristrada. Si era passato più volte le mani sul volto e nei capelli castani, per poi allungare la schiena e la testa sul sedile, probabilmente in cerca di un po' di distensione. Nessun sorriso era comparso sul suo volto: in effetti non aveva mai sorriso in nessuna circostanza.
Green ritornò verso il letto, stendendosi sugli innumerevoli cuscini bianchi a fiori azzurri, un leggero malessere all'altezza dei reni, sbattuti sulla credenza per la spinta ricevuta.
Ogni studente aveva avuto la possibilità di arredare o almeno personalizzare la propria camera, e lei, che da allieva era diventata insegnante di letteratura, materia che amava alla follia, viveva da anni in una stanza che era la sua casa personale.
Il poster di un panorama dei Tropici appeso sopra al letto e un mappamondo posato su uno sgabello rotondo denotavano la passione per i viaggi che non aveva mai potuto fare. Attraverso la lettura di romanzi e saggi che riempivano le mensole e gli scaffali della libreria, di numero superiore ai vestiti posseduti, aveva fatto più di un giro del mondo, almeno con la fantasia, alimentando il sogno di stabilirsi in un altro continente.
Un piccolo armadio di legno dipinto di bianco, colore prescelto per tinteggiare le pareti, per il tappeto, e ogni mobilio, conteneva il minimo abbigliamento indispensabile per la sopravvivenza in una scuola di adolescenti; uno scrittoio e una toeletta che creava un mini angolo beauty completavano la camera, il cui lusso era il bagno annesso, privilegio degli insegnanti.
Accese il boiler elettrico già pieno d'acqua, collocato sul comodino, per prepararsi l'ennesima tisana digestiva. Il bruciore allo stomaco era peggiorato.
Udì il rumore inconfondibile della seggiola a rotelle di Charles che marciava sul parquet del corridoio, pronta a una ramanzina coi fiocchi, che non ci fu.
«Julia, ti passo una cosa sotto la porta, fanne buon uso!» Xavier strusciò un biglietto da visita sotto lo spessore dell'uscio e Fenice si alzò per raccoglierlo, incuriosita.
Era il biglietto da visita del direttore dello S.H.I.E.L.D. con relativo recapito telefonico e l'indirizzo della base degli Avengers.
Lo ripose all'interno di una copia molto usurata di Romeo e Giulietta di Shakespeare, testo di cui stava spiegando alla sua classe in quel periodo. Ricordando di avere un arretrato di compiti da correggere, si mise all'opera, direttamente sul letto, una tazza con la tisana fumante sul comodino, i fogli protocollo sulle ginocchia, un lapis blu e rosso fra le labbra, il cuore in tempesta.
La stessa strana tempesta che l'avrebbe turbata fino al giorno seguente, il pensiero fisso e costante dell'arciere a cui aveva fatto del male, in maniera non del tutto involontaria.
Impegnatasi nell'attività professionale, aveva chiacchierato con Ororo del più e del meno fino a tardi e poi fissato il soffitto bianco con la luce dell'abat-jour accesa.
Si era, infine, ritrovata nella tuta grigia della scuola pronta per lo jogging del sabato mattina, che di solito praticava con Erik. Era un'abitudine sana mantenuta dall'inizio dell'amicizia con Magneto, trasformatasi qualche anno prima in una relazione informale, caratterizzata dalla differenza di età e dal desiderio del mutante di un'egemonia sull'essere più forte e potente della loro stirpe.
Lehnsherr non era certamente il principe azzurro che Julia sognava e lo aveva imparato a proprie spese. Manipolatore, astuto, intelligente e ferito dalla vita come e più di lei, era attratto dalla sua fisicità e dai suoi poteri, piuttosto che dal desiderio di conoscerla e amarla. La breve liaison era terminata nel modo indolore con cui era nata, quando, dopo poche settimane, si erano resi conto dell'errore di non essere rimasti dei semplici amici, in una zona di confort più gradita a entrambi.
«Ci muoviamo, bellezza?» Erik aveva evitato di sollecitare spiegazioni sull'episodio della lettura della mente a Clint Barton. Julia non era mai stata tipo da aprirsi a comando, ne avrebbero parlato quando avesse voluto. Lui stesso detestava le forzature, non le avrebbe imposte agli altri, figuriamoci alla sua amica.
«Non lo so, ho un po' di mal di pancia» era scesa dabbasso in una scuola quasi vuota degli studenti, allontanatisi per una gita culturale organizzata in occasione di una mostra di pittura nella Grande Mela.
«Se vuoi sai dove raggiungermi, a dopo» certo che non l'avrebbe fatto, Erik iniziò il suo footing, inserendo gli auricolari del lettore mp3 nelle orecchie e facendo partire la musica.
Julia osservò il viale d'entrata della magione dal portone rimasto aperto. A piccoli passi, d'istinto, si avviò verso la strada principale in direzione della fermata del bus. Nella tasca della felpa aveva il cellulare con la custodia di plastica trasparente e, sotto quest'ultimo, l'abbonamento per i mezzi pubblici rinnovato annualmente, giacché non aveva mai imparato a guidare e, conseguentemente, preso la patente.
Usò uno dei propri poteri per localizzare l'arciere, che era giusto nel posto dove aveva immaginato, presso un indirizzo già memorizzato.
Seduta sull'autobus, chiamò il numero di Nick Fury, per annunciarsi; il direttore dello S.H.I.E.L.D., leggermente sorpreso, la informò che le avrebbe fatto trovare un lasciapassare al desk dell'accettazione della base, non potendo accoglierla di persona per precedenti impegni.
Nel tragitto e nei due cambi di linea, Green cercò le frasi per comporre un valido discorso di scuse, quello che non aveva potuto pronunciare il giorno precedente.
Tra la distanza e l'attesa dei mezzi ci impiegò quasi due ore a raggiungere il quartier generale ufficiale degli Avengers.
Era ubicato a New York fra le zone di Manhattan e Brooklyn; il palazzo vero e proprio, un agglomerato di acciaio e vetro scuro antiproiettile si stagliava in altezza, alla stregua dei grattacieli famosi, come il Chrysler Building, in stile Art déco, e il vicino Empire State Building, che caratterizzano lo skyline dell'affollato quartiere di Midtown East.
Rimaneva sempre un edificio simile a una struttura amministrativa di colletti bianchi, almeno in apparenza, eccezion fatta per l'aquila nera di gesso, in bella vista, accanto al metal detector che lei passò senza problemi.
L'attendeva una guardia giurata in divisa, a fianco di Steve Rogers, precettato da Nick per sorvegliare l'incontro tra Clint e la mutante.
«Ciao, sono Steve, ieri non ci siamo presentati» un Capitan America dalla scintillante dentatura d'avorio le tese la mano, amichevolmente.
Julia la strinse con una delicatezza infinita e con gli occhi bassi, in cui Rogers riconobbe un'innata timidezza che condividevano; la mutante non era più spavalda o aggressiva verbalmente, ma gentile ed educata «Piacere, Capitano Rogers. Come accennavo al direttore Fury, avrei bisogno di vedere l'agente Barton, se non disturbo e se lui è d'accordo».
«Julia, Clint non è mai d'accordo su nulla, è nato bastian contrario e ce lo facciamo andare bene così» accostandola per il gomito sopra la tuta grigia, in un gesto di garbato incentivo a seguirlo, Steve tenne a spiegare, indirizzandola verso un ascensore metallico a cabina chiusa «Di solito il sabato non ci alleniamo, è la nostra giornata di libertà. Ma il Falco era scosso dalla lettura della mente e mi ha avvisato che stamattina sarebbe venuto qui, per cui ho preferito controllare come stesse. Immagino che tu abbia visto il suo passato, giusto?».
L'ascensore discese a uno dei piani inferiori, Rogers infilò le mani nelle tasche dei jeans e le lasciò sprofondare. Non si era cambiato dalla t-shirt blu e dai pantaloni, non essendo sua intenzione esercitarsi.
«Sì, purtroppo. Non avevo la più pallida idea dei suoi trascorsi» sistemando una ciocca di capelli scuri dietro l'orecchio, la giovane incedette con il suo anfitrione fino a una vetrata di grandi dimensioni.
Al di là di essa Occhio di Falco tirava con il suo arco a una miriade di sagome colorate in movimento in ogni direzione possibile, su uno sfondo tridimensionale che cambiava aspetto continuamente.
Julia non aveva mai visto nessuno esibirsi nella specialità ma le fu subito chiaro che si trovava davanti a un'eccellenza.
L'arciere centrava i piccoli cerchi luminescenti da una distanza di almeno settanta metri, in maniera magistrale. Il fisico scolpito da una muscolatura guizzante ed elastica nella tuta nera con inserti viola senza maniche lo agevolava nei movimenti plastici indispensabili per andare a bersaglio. Forse Barton non aveva una mutazione, ma era una macchina da guerra instancabile, le sue frecce al livello di molti poteri che Fenice conosceva, le mani guantate di pelle nera un prodigio della natura.
Sul bicipite sinistro scoperto era tatuato un rapace, che volava impavido e mostrava l'occhio in segno di vigilanza e attenzione.
In una simile disciplina individuale, arco e frecce erano stati un ottimo modo per far crescere velocemente la fiducia in se stesso e l'autostima di Clint: l'essere in competizione con se stessi prima che con gli altri faceva sì che si potessero canalizzare le forze sui propri obbiettivi senza pressioni esterne e trarre il massimo delle soddisfazioni dal raggiungimento delle proprie mete. L'arciere aveva larga e meritata consapevolezza dei propri mezzi e capacità, doti legate alla tecnica e alla fisicità e pure alla pazienza e alla concentrazione.
Un concetto che Capitan America riprese. «Entra pure, Clint è talmente concentrato che nemmeno se ne accorgerà. A più tardi» Rogers aprì la porta sulla sala e Julia si accomodò di lato, appoggiandosi alla parete di una piattaforma quadrata, dedicata all'osservazione, dove non avrebbe intralciato.
Steve aveva sbagliato la previsione, però. Uno spostamento quasi impercettibile dell'arciere e lei ebbe la consapevolezza che l'avesse notata, nonostante non avesse interrotto la sequenza di tiro e la sfilza di centri.
Col cuore in gola e il battito accelerato, rimise in fila le parole del discorsetto di scuse, smarrendone più d'una, persa nel seguire i bersagli abbattuti dalle traiettorie delle frecce del Falco.
Percepì che il meccanismo del macchinario di allenamento si fosse fermato, dalla sospensione del ritorno di bersagli successivi.
Clint, di spalle, incoccò ugualmente un dardo e si girò verso di lei, puntandoglielo contro «Che sei venuta a fare?».
Il tono di voce, gelida folata di vento del circolo polare artico, la bloccò. I palmi delle mani umidi appoggiati contro il muro, si sentì una condannata a morte.
La fronte aggrottata e sudata dell'arciere e gli occhi inferociti non promettevano nulla di buono. La lingua le restò incollata al palato.
«Ieri hai dato spettacolo e adesso tentenni? Mi hai umiliato e nemmeno mi conoscevi, pensi che sia qui, ad accoglierti a braccia aperte?» la rimproverò con la voce grossa, pentendosene all'istante perché alla mutante tremava il labbro superiore ed era pallida come il muro su cui si era appoggiata. Forse sarebbe stato meglio non minacciarla con una freccia. Barton abbassò l'arco, camminando verso la rastrelliera della stanza accanto, dove riponeva gli strumenti di lavoro, per ricollocare l'arco stesso e i dardi rimasti nella faretra.
«Senza contare che ho sempre il pensiero di te nella testa, da ieri. E' per quello che mi hai fatto?» lui era scorbutico di natura e non troppo favorevole alle lunghe conversazioni, ma si rese conto di essere da solo in un monologo. I ricordi non avevano smesso davvero di vorticargli nella mente, la sensazione straniera di essere scrutato da dentro in ogni piega dell'anima da un'estranea era rimasta viva e palpabile. Non aveva riposato e la mattina era corso ad allenarsi, con l'augurio di scaricare l'adrenalina e la tensione.
Julia sospirò, staccandosi dal muro e andandogli vicino; lo scrutò in viso, giacché all'udire i suoi passi, riposta anche la faretra, si era voltato in un atteggiamento di difesa, a braccia incrociate al petto.
Gli parlò scandendo le parole, consapevole della sua sordità e che da quel momento esatto in poi lo avrebbe sempre fatto «E' la prima volta che leggo una mente in modo tanto profondo. Sono venuta per scusarmi. Ho imparato a gestire il mio potere, a tenere lontana la tentazione di esplorare la mente altrui; ieri, però, non ci sono riuscita, complice la tua provocazione e la mia poca voglia di conoscere te e gli Avengers. Non so nemmeno io cosa volessi fare, con esattezza. Ti prego di perdonarmi, prometto che non accadrà mai più e... anche tu mi sei rimasto dentro. I ricordi altrui, i loro pensieri non sono semplici da eliminare, diventano parte di me, sempre, e quando sono come i tuoi, mi straziano» tenne lo sguardo fermo su di lui. Più sincera di così non avrebbe potuto essere e sperò che le credesse.
L'uomo sbuffò verso l'alto, spostando il ciuffo di capelli castani, umidi per i gesti atletici, che gli ricadde sulla fronte. Era sincera, diamine. Lui vedeva meglio da una certa distanza e osservare le situazioni dall'esterno con un briciolo di cinismo e freddezza più degli altri lo agevolava anche nella comprensione delle persone «Le scuse non bastano, professoressa di letteratura, mi aspettavo un invito a pranzo, minimo, in un ristorante costoso dove avresti offerto tu; invece ti sei presentata a mani vuote, senza neanche un regalo» doveva essere una battuta; nell'esatto istante in cui la pronunciò seppe di non essere spiritoso un quarto di Stark, perché la mutante aveva sgranato gli occhi verdi e lo fissava, incerta: e no, lei non aveva riso, ma lo aveva preso sul serio.
In imbarazzo, gli aveva mostrato timorosamente il cellulare, estraendolo dalla tasca della tuta «Sono uscita d'impulso dalla scuola per venire qui, non ho la borsa e soldi con me, solo l'abbonamento dell'autobus, perché non ho nemmeno la patente. E poi» fece una confidenza più personale «non sono amante dei ristoranti, soffro di gastrite ed evito il cibo mangiato fuori casa».
«Fenice, mutante malata e senza risorse. So come risolvere: conosco un locale specializzato in cucina sana dove ti permettono di lavare i piatti se non puoi pagare il conto. Vado a fare la doccia, aspettami nella sala relax, la seconda porta a destra del corridoio appena uscita dall'ascensore, al piano superiore» l'asciugamano di spugna bianca sul collo preso dalla rastrelliera e una bottiglietta d'acqua da terra, Clint indicò la porta e si diresse verso lo spogliatoio attiguo per lavarsi, udendola annuire.
Aveva avuto un'idea improvvisa che aveva cavalcato, inconsciamente, spinto dall'incredibile connessione che si era creata fra lui e la giovane dal giorno precedente. Si trattava di una curiosità logica, motivata dalla dolcezza dello sguardo da cerbiattina perduta contenuto nel corpo di un essere dalle abilità indiscutibili, che avrebbe dovuto mostrare spavalderia su tutta la linea di comportamento. Ma la spavalderia non rappresentava esattamente la vera indole di Fenice, forse era il finto cappotto di un primo approccio a sconosciuti.
La doccia calda, prolungata, sciolse le contratture dell'allenamento, il docciaschiuma rivitalizzante al tè verde e bergamotto, dono natalizio di Natasha, ebbe l'effetto promesso sull'arciere.
«Julia Green è in fibrillazione nella nostra sala relax, che le hai detto? Giusto per sapere ed essere preparato» Steve, entrato in punta di piedi, gli tese l'accappatoio, appeso accanto al box doccia «Se distruggesse il palazzo per il nervosismo, non avremmo scampo, moriremmo sotto le macerie. Da buon baby sitter, le ho offerto un bicchier d'acqua e un caffè: ha rifiutato. Non vi siete uccisi, dunque?».
«Pare di no. Non ho accettato le sue scuse, per adesso, sia messo agli atti» Barton tenne a precisarlo «Il suo invito a pranzo sì». Mentì a Rogers, scioccamente, con le guance rosse di disagio, proprio lui che detestava le bugie e le omissioni.
L'amico ne intercettò l'impaccio, ma non disse nulla sulla questione «Potreste chiarirvi ulteriormente, e tu perorare con lei la causa degli Avengers, sai, al pari della causa mutante a cui alcuni della sua specie – lei e Lehnsherr, soprattutto – condividono, almeno in apparenza» non si trattava di politica, ma di ragionamento. E Clint restava un uomo razionale e pragmatico.
«Sei diventato peggio di me che aborro gli omini dalla pelle blu e dalla coda sopra il sedere? Da come pronunci specie sembra di sentirti parlare di un'altra razza; lei è una ragazza, anzi una ragazzina, in fondo, no? Con un gene in più!» Rogers era esagerato di carattere, melodrammatico; l'arciere si infastidì, nonostante le novità lo contrariassero più della norma.
«Non proprio; nell'aspetto esteriore non ha mutazioni». Non le mancava nulla: era fin troppo bella, di una bellezza naturale e ingenua che colpiva al primo sguardo e a cui era difficile restare indifferenti. E non era una ragazzina, Julia, all'anagrafe aveva ventotto anni «Ieri, quando ti sei allontanato, Charles Xavier ci ha fornito ulteriori informazioni sulla classificazione dei mutanti, che non comparivano nei fascicoli di Fury. Sono distinti in cinque classi, a seconda del loro potere. Da uno, ovvero coloro che hanno abilità minime, a cinque, il massimo della scala».
«Il professore e Magneto sono di classe cinque?» il Falco domandò, asciugando i capelli col phon e spegnendolo a tratti durante la conversazione, per ascoltare. Indossava l'apparecchio acustico, progettato da Banner per essere utilizzato anche sotto la doccia, ma il rumore dell'aria calda superava la voce baritonale di Steve.
«No, lo credevo anch'io; sono di classe quattro. I mutanti di classe cinque sono estremamente potenti e i loro poteri, sia fisici che mentali, sono praticamente illimitati. Sono rarissimi e, per ora, solo uno ne è stato esplicitamente indicato come membro, ossia...» Steve non poté terminare, era piuttosto chiaro a chi si riferisse.
«Fenice... Julia» Clint concluse per lui, rimuginando fra sé «Non ne avevo idea». Non era esattamente così. Gli era sembrata una creatura speciale, anche nella manifestazione della sua abilità, e, quando, steso a terra, aveva visto l'uccello colorato materializzarsi sul dorso e la testa femminile, era rimasto in parte incantato dalla spirale dipinta magicamente alle sue spalle.
Guardandolo sistemarsi i capelli con il gel, meticolosamente, il Capitano formulò un'ipotesi «Il Falco e la Fenice, solo il tempo ci dirà quale dei due volatili la spunterà, alla lunga. Buon pranzo, o cena, dato l'orario. Stabilito che stai bene e ti godrai una compagnia interessante, mi dileguo» dall'orologio di plastica grigia GPS multifunzione rilevò che fossero passate le due del pomeriggio, e approfittò per dissolversi nella nube formatasi col vapore acqueo della doccia.
Il giubbotto di cuoio marrone avvitato da biker, la camicia a quadretti gialli e marroni e un paio di jeans grigio scuro, Clint si avviò verso la sala relax.
Julia era sola, voltata verso la finestra esposta nella parte interna della struttura, da cui era possibile vedere il Quinjet, l'aereo degli Avengers.
«Aveva ragione Fury, forse abbiamo delle cose in comune. Anche noi X-Men ci spostiamo con un velivolo, lo chiamiamo Blackbird» nei pochi minuti di attesa, la fibrillazione era aumentata. Non era riuscita a stare seduta sul divano marrone, nonostante fosse molto comodo, e si era alzata innumerevoli volte, camminando per la stanza, fino a fermarsi a osservare il limitato panorama esterno. Aveva svolto alcuni esercizi di respirazione diaframmatica tipici dello yoga, imparati da Raven, per esercitare un maggiore controllo sulla propria mente e sulla propria emotività.
«L'ennesimo uccello, santo cielo. Piccione al forno, per pranzo?» il Falco sfoderò una spiritosaggine, incitandola a uscire dalla sala, per seguirlo.
«Non è il mio genere» stringendo nervosamente il cellulare fra le mani, Green si rammaricò di essersi presentata in tuta e scarpe da ginnastica. Non poteva sapere che sarebbe incappata in una sorta di appuntamento o evento sociale e non gliene capitavano molti. L'agente Barton, seppur in abiti sportivi, risultava più curato di lei; l'odore del suo dopobarba dalla fragranza legnosa e agrumata al ginepro nero e sesamo restava piuttosto persistente, in modo assai piacevole. Svicolò dal pranzo, o almeno tentò «Non sono abbastanza elegante per accompagnarti in un ristorante, non mi farebbero entrare, pure se il locale di cui mi accennavi fosse un posto alla buona». Poteva trattarsi solo di una location semplice, se accettava il lavaggio dei piatti al posto del saldo del conto.
Clint provò a rassicurarla «Dove andremo ci saranno pochissimi avventori, non sarai al centro dell'attenzione. Julia, non prenderla a male perché la mia è una considerazione oggettiva:
sei così bella che ogni locale della città farebbe a gara per offrirti un tavolo da occupare anche in tuta» il complimento schietto risuonò nel corridoio verso il garage, dov'era posteggiata la jeep di servizio che l'arciere utilizzava anche nella vita privata.
Fenice gradì l'apprezzamento inatteso, inconsapevole della propria avvenenza, nascosta abitualmente in abiti da maschiaccio o inadatti alla propria età, cosciente, tuttavia, che l'uomo al suo fianco non la temesse, nonostante il trattamento che gli aveva riservato il giorno precedente.