Uscito così🌝accettatela per com'è venuta.
Da quando i figli di Cleopatra e Marco Antonio sono capitati a Roma la vita sul Palatino s'è fatta più movimentata che mai.
In senso buono, ovviamente, Giulia adora i gemelli e il piccolo Tolomeo Filadelfo, e riconosce con compiacimento di non essere la sola. Tranne Tiberio, capace di inimicarsi persino un pezzo di roccia inanimata, il branco dei suoi cugini, amici e il suo fratellastro Druso accolgono felici i nuovi compagni di giochi.
Provengono dall'Egitto, da Alessandria umida di umori e mare e divinità ferine, sede dei resti mortali del grande fondatore da cui prende il nome. Insieme a un aspetto esotico e fascinoso portano storie.
Di Dei, condottieri e principesse.
«Arsinoe era nostra zia.» racconta una mattina Selene alla roboante marmaglia assiepata ai basamenti imponenti di due pilastri. «Una principessa come me.»
Sono venuti a palazzo. Lei, i fratelli, Antonia Minore, Marcello e Iullo. Iullo... per Giulia è dura mantenere l'ascolto sulla storia dell'amica quando Iullo l'affianca sui cuscini gettati a terra. Iullo vicino. Le sue ciglia scure, le spalle possenti.
Giulia si torce la tunica rosa, obbligandosi a seguire il filo.
L'altro figlio di Marco Antonio varcherà tra poco il portale dell'adolescenza e le morbidezze infantili si vanno piallando in un'armonia di lineamenti. Mascolinità nella mascella, nei riccioli sporgenti con sprezzante ribellione dalla fronte. Nello stomaco le si attorcigliano le viscere. Suo padre sfoggiava un... un fascino simile? Si stupisce di dedicare pensieri al traditore della patria. Poi Iullo è... è suo amico, un parente acquisito... insomma, più o meno... non può innamorarsi di lui!
Iullo, non ignaro delle occhiate di cui è oggetto, le lancia un sorriso radioso. Giunone Furente le ha sorriso! Le h-ha s-sorriso.
Giulia gira il viso altrove, supplicando le alte sfere che lui non abbia colto le sue guance imporporate. Amico, è un tuo amico. Bello da schiantarsi, ma rimane soltanto un tuo amico e pupillo di zia Ottavia!
«Ma un giorno Arsinoe tradì la fiducia di nostra madre.» Selene va a fondo nel ricostruire le scabrose vicissitudini della sventurata principessa. Arcua le dita a uncino, gli artigli di un mostro. «E allora subì una punizione orribile!»
Antonia Minore storce il visetto paffuto in una smorfia di repulsione. «L'hanno costretta a mangiare le verdure?»
«No!» Alessandro Elio scatta in piedi, fendendo l'aria davanti al nasino di Antonia con una spada immaginaria. «L'hanno imprigionata!» Si acquatta a carponi, incendendo sul ruvido pavimento ammorbidito di stuoie e cuscini. Antonia indietreggia, rapita dalla narrazione coinvolgente e spaventosa. «In un tempio, sorvegliata a ogni ora del giorno e della notte. Su un'isola sperduta.»
Il colore s'è drenato dal viso di Antonia, in una paralisi di terrore.
Selene incrocia le braccia, corrucciata. «Non era sperduta!»
«Licenze di trama, inquieta di più.»
Inquetato Antonia, Alessandro ha ottenuto il risultato sospirato. La cugina più piccola di Giulia scoppia a piangere come una fontana, lacrimoni rotolanti e piedini pestati.
«Io non vojo.» Moccio al naso e solchi di sale riganti il suo visetto lentigginoso. Vojo come quando era una lattante smozzicante insensatezze e frasi dimezzate. «Non vojo finire prigioniera su un'isola sperduta!»
Selene incendia Alessandro con lo sguardo, tacita accusa di essersi lasciato trasportare un po' troppo dalla narrazione.
A soccorso della disperata pulcina della covata di Ottavia giungono due aitanti cavalieri. Druso l'abbraccia, confortandola in carezze. «Non temere Antonia, ti proteggerò io!»
Inconsueta questa rinuncia a condire l'atmosfera di battutine, punzecchiature e scherzi. Il Druso pimpante, una trottola di ragazzino, familiare a Giulia si defila, occupato da un accorto, sensibile consolatore per Antonia.
Non il solo.
Marcello circonda i due, un secondo strato di abbracci. «Potrai contare anche su di me sorellina!»
Generoso e caritatevole come il futuro reggitore del mondo che il papà lo sta educando ad essere. Giulia torna a chiedersi perché non possa divenirlo lei. Chiunque sa che, annientati Antonio e Cleopatra, il potere totale di Roma si concentra nelle mani di un unico uomo. E quell'uomo è il suo papà.
Manca solo la conferma ufficiale ad attestarlo.
Premuta tra i due, Antonia smette di piangere, il muco disseccato, e pare studiarli. Druso e Marcello. Cugino acquisito e fratellastro.
«Grazie Marcello.» mormora poi con altezzosità, avvinghiandosi al braccio del figlio di Livia. «Ma mi va bene Druso.»
Non lo intende con cattive intenzioni, sebbene già alla sua età Antonia sbalordisca con un caratterino alquanto tenace e risoluto e peperino. Marcello ingoia la sconfitta e retrocede d'un passo, concedendo alla sorellina il legito spazio d'intimità.
Venire esiliati su un cocuzzolo d'isola! A Giulia suona insensato e ridicolo. Chi rinchiuderebbe mai una principessa in un recinto di terra di poche leghe?
Povera Arsinoe. Che fine ingiusta, ingloriosa per una del suo raffinato lignaggio.
Picchia al limite della sopportazione, i pugni s'avventano sul legno. Ha le nocche scorticate, vesciche sui polpastrelli. Ma non cede. Non cederà mai.
Quella porta dovrà aprirsi. La lasceranno uscire!
Libera. Sta lentamente scordando il sapore della libertà. Poter gironzolare a piacimento, il calore avvolgente del sole sulla pelle. Un prato d'erba madido di rugiada. Il mare ringhiante di spuma e il tessuto della stola intinto a bagnarsi, con sommo scorno della sua matrigna.
Amici. Figli. Suo padre.
Le hanno detto che è morto. Papà non c'è più. Si è rivolto a lui come papà, Marte Ultore benedetto. Papà. D-Da quando non lo ricorda nelle vesti del proprio papà? Negli anni amari dell'esilio l'aveva ripudiato, innalzato al suo trascendentale, autorevole alone di imperatore.
Imperatore Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, dal cuore di marmo e senza figlie. No, una la possiede, il suo orgoglio.
Roma.
Giulia è un cancro consumante, un ascesso infetto. Non affermava forse così alle masse imploranti il suo perdono a Roma? E nel privato... nel privato cosa pensava il papà? Rimpiangeva quelle affermazioni ributtanti? I rimorsi di averla relegata a una gabbia dorata nella crisalide lugubre e vuota di Pandataria?
Ah, cos'ha da recriminargli ora? Papà l'ha reintrodotta nell'entroterra, bandita sempre, ma la durezza stemperata a Reggio Calabria.
Papà non l'avrebbe mai imprigionata in una stanza, negandole nutrimento. Giulia si scaglia, picchia, strepita, urla, graffia. Papà non l'avrebbe mai fatto.
Tiberio non è suo padre.
Tiberio la detesta con ogni fibra della sua spregevole persona.
Ma Tiberio è imperatore adesso e la legge si allinea al suo volere meschino e il gorgo squarciante il suo stomaco la fa scivolare sul legno. Muore di fame, le arde il palato dalla sete. Vuole il papà. Il suo abbraccio, le sue coccole. Vuole tornare bambina e correre da lui e perdersi nelle sue premure...
Livia ha vinto, è riuscita a insedire il suo sangue sul trono. Un piano ordito nei decenni, dipanato tra le tombe degli eredi caduti prima del loro tempo.
Che il membro di Tiberio avvizzisca! Che la sua carne si guasti, corrotta e putrescente, un brulichio di mosche e vermi. Che gli avvoltoi banchettino sul carcame inverecondo del suo corpo. Che la sua stirpe si prosciughi e appassisca!
Non se lo merita Vipsania, buona e dolce. Non se merita il giovane Druso Minore
Ma il papà non l'avrebbe mai messa a morire di stenti, mai...
Si ridesta in un bagno di sudore, il cuore follemente martellante nella cassa toracica. È nel suo letto, nella sua cubicula, a palazzo. A Roma.
La porta chiusa, serrata nel buio fitto, le stimola un senso d'angoscia.
Giulia salva la sua pupa e sfreccia alla porta, sbloccando la serratura. La ventata d'aria dallo spiraglio placa i suoi timori.
I brividi si affievoliscono, prende ampi respiri, ripone la fronte contro lo spigolo. È libera e protetta. A casa. Non l'hanno segregata da nessuna parte. La storia macabra di Selene deve averla suggestionata. Ma parliamo di una storia vecchia e lontana e la miserabile Arsinoe è spirata da tanto tempo.
Lei non finirà come Arsinoe. È una brava bambina.
Le brave bambine non vengono confinate su isole dimenticate...
Ciononostante l'incubo si è radicato e i suoi orrori sono lungi dal diradarsi e lasciarla in pace. Guarda il letto e sa che non riuscirebbe a riprendere a dormire tranquilla.
C'è solo una persona che può darle sollievo
Traendo forza dalla sua pupa, Giulia si spinge oltre il varco, appiattendosi alla parete vivificata da cortei affrescati, percorsa da tralci e vimini, un intrico di pampini. Trattiene il fiato quando scorge lo scintillio delle armature dei pretoriani, la loro marcia composta e cadenzata, rigorosa. Non devono scoprirla.
Il duo di guardia alla cubicula del papà. Come li può aggirare?
Aggirare... o persuadere.
Quatta quatta Giulia si approssima ai due erculei corazzati, gli occhi di zaffiro spalancati, il labbro increspato da un broncio mesto.
«P-Posso vedere mio padre?» pigola flebile, poco più che un sussurro.
I due si scambiano un'occhiata. Fattore imprevisto. Adesso come si regolano con la figlia del loro signore?
«Vostro padre sta dormendo domina Giulia. È molto tardi.» si eleva a portavoce quello alla sua sinistra, fattezze rincagnate da veterano. Un tono delicato che contraddice la sua torva apparenza. «Dovreste stare dormendo anche voi.»
Giulia sfrutta tutte le sue doti d'attrice. «Non ci riesco! Ho bisogno di vederlo!» Manine giunte, l'azzurro si sgrana, lucido e tenero. «Per favore...»
Sospirando, l'energumeno di sinistra viene smosso, convincendo il compare ad aprire all'esigente bambina. Giulia li ringrazia profondendosi in una riverenza. Chiusa la porta e ripiombato il buio il letto del papà le riesce facile da individuare.
Ottaviano è riverso su un fianco, seppellito nel cuscino, rannicchiato tra le coperte come un bambino. La zazzera bionda scapigliata dalla dormita, sbava poco aristocraticamente. Giulia sopprime un risolino. Il padrone di Roma addormentato come un comune mortale, dismesse le austerità e spogliato dei poteri.
Il mio papà.
Le dispiace svegliarlo, tirandogli la tunica notturna. «Papà! Papà!»
Lui sprizza seduto, sull'attenti, in preda del disorientamento. «Chi? Cosa? Dove? Cesare?» Guardandosi attorno e ravvisando la figlia, Ottaviano si stira con fare indolente. «Giulia? Cosa ci fai qui?»
La favella la tradisce, le parole le muoiono in gola. Giulia trema, il pianto furente. Ma non deve piangere, umiliarsi davanti al papà. È-È una brava bambina...
Ottaviano scopre il velo, indovinando il tarlo che l'assilla.
«Un incubo?»
Azzannandosi le labbra pur di non lasciar trapelare l'emozione Giulia annuisce, un lento su e giù di collo.
«Ho capito.» Il papà si scosta, offrendole spazio libero al suo fianco. Un sorriso comprensivo si dipinge sul suo viso. «Vieni.»
Sta veramente... Giulia non si fa pregare e accorre all'invito, impadronendosi del vuoto. Comoda comoda, schiacciata vicino al papà, inebriata del suo odore. Alloro. Ottaviano è pervaso dall'aroma regale e intenso dell'alloro. E d'inchiostro. E pergamena. E calce dei cantieri dello zio Agrippa.
«Sei in vena di volerlo condividere mia Piccola Roma?» le pone, angolando bene i loro corpi in una combinazione di tuniche, coperte e arti.
Condividerlo. Giulia si fida di lui. Il papà non lo spiffererà mai in giro a nessuno.
«Ero prigioniera.»
«Prigioniera?» Già stona alle orecchie di Ottaviano.
«Sì...» Una morsa le avvince lo stomaco ripensando alla camera, alla porta alla quale inveiva. «Ero isolata in una stanza angusta, io bussavo e urlavo, ma nessuno veniva a liberarmi. Sentivo che c'era lo zampino di Tiberio.»
Suo padre non gradisce le loro discordie trasportate persino a letto. «Giulia...»
«Te lo giuro papà! E t-tu...»
«Io cosa Piccola Roma?»
Un turbinio di paura e tristezza, emozioni anonime, a cui non riesce ancora ad aggiudicare un nome, le accellera il respiro. «Eri morto papà. Morto e mi avevi scacciato. Parlavi male di me!»
Ottaviano la stringe forte. Giulia soggiace al suo calore, lacrime pungolanti, impigliate nelle ciglia. «Io non ti scaccerei mai Giulia, men che meno diffonderei in giro calunnie sul tuo conto.»
«D-Davvero?»
«Davvero.»
Tira su con il naso, raggomitolandosi nella stretta del papà. «Ti voglio tanto bene papà. Tanto, tanto. Infinito come... come il firmamento!»
I rari, sporadici sorrisi del glaciale Ottaviano sono riservati a lei e a una ristretta cerchia di eletti. Le stampa un bacio in fronte, labbra sfregate.
«Anch'io te ne voglio mia Piccola Roma, anch'io.»
Livia Drusilla è allibita.
Veramente allibita. Il che, per una donna del suo carattere, è un evento insolito.
Suo marito non si è mai annoverato tra i mattinieri. Ottaviano si alza malvolentieri la mattina presto, quando gli tocca. Venuta a svegliarlo personalmente si è detta di avere scatenato l'ira di una qualche sconosciuta divinità.
Giulia. Quella viziata, privilegiata, saccente cocca. Se l'è ritrovata pure ficcata tra le coltri, avvoltolata assieme al genitore. La spiazzante somiglianza fisica la innervosisce, accentuata nelle posizioni sgangherate, i capelli biondi aggrovigliati, i fili di bava pendenti, volti pressati al materasso.
Giulia è più simile ad Ottaviano di quanto qualunque figlio che non è riuscita a dargli - ufficialmente per lo meno - mai lo sarà.
«Sciocca, frivola bambina...» sibila livorosa.
Calda luce mattutina attraversa i porticati e i passi di Livia sono scanditi da una collera malcelata.
L'imperatore di Roma è tormentato dagli incubi.
«Giulia? Giulia! Giulia!»
Gli schiavi procedono spediti, testa deferente e china, quando devono transitare davanti all'entrata dei sommi appartamenti. Augusto è un uomo anziano, pontificano i più spigliati e accorti, alla sua veneranda età la testa gioca brutti scherzi.
O no?
C'è una ragione se alla decaduta Giulia non è permesso bere vino o dilettarsi in lussi sulla smorta, deserta Pandataria. C'è un motivo per l'intransigenza rasentante il controllo autoritario di suo padre, che deve venire informato preventivamente di eventuali visitatori. Loro segni particolari, statura, carnagione, cicatrici o altre peculiarità naturali. Vietati gli uomini. C'è un perché se il grido dell'imperatore lacera la notte e sconvolge la quiete sospesa del palazzo.
Giulia ponente fine ai suoi giorni, volante giù dalle ripide scogliere. Giulia rompente le catene della reclusione con una fiala di veleno ottenuta di contrabbando, evadente i controlli. Giulia dalle vene recise. I suoi incubi variano, la protagonista permane.
L'ha sottratta al patibolo e al giudizio di morte una volta, non l'ha mandata a Pandataria perché li incontrasse sulla sue coste frastagliate.
«Giulia! Giulia d-dove...»
L'imperatore vagabonda anchilosante nei corridoi, sotto i portici screziati d'argento. Livia e l'erede gonfio di rammarico, l'erede che altro non è stato se non l'ultima spiaggia, Tiberio, si mantengono defilati, astratti.
«Sono i suoi demoni.» rimarca Livia al figlio quando questi vorrebbe intervenire. «I suoi rimorsi. Figlia sua, non mia.»
«Era mia moglie!» si lamenta acido Tiberio.
«Era. L'hai detto tu stesso.»
Ma Giulia, nella mente del suo affranto padre, nel fiume luminoso dei suoi ricordi, non è mai scomparsa.
Rimane, agrodolce, amatissimo fantasma.