Aprii gli occhi e come mi avessero catapultata a forza in uno dei miei peggiori incubi, mi risvegliai stordita in una casa che non mi apparteneva più da troppo tempo.
Riuscivo a riconoscerne lo sfondo surreale, i mobili consumati dal tempo e il pavimento ai miei piedi sommerso di una quantità ingente di bottiglie di alcol, mozziconi di sigaretta e vestiti logori.
Camminai scalza per quei corridoi che tanto cercavo di dimenticare. Avanzai a passo lento fra le pareti deturpate di quella casa e con l'indice accarezzai la parete che raffigurava il disegno di mia madre, che feci da bambina.
La ritirai quasi subito, assalita da brividi di angoscia quando, come in un'eco, urla laceranti di pura agonia sigillate nelle pareti di queste mura, graffiarono l'aria, demolendo il silenzio glaciale che tanto avevo imparato ad amare.
Mi ci volle un battito di ciglia per capire dove mi trovassi. Avrei riconosciuto quell'abitazione ad occhi chiusi, fra mille. Ero in grado di percepire l'essenza malefica di chi ci aveva vissuto, la sofferenza di chi ci aveva perso la vita e lo strazio di chi in quella casa, aveva perso la madre e riscoperto la vera natura del padre.
Fuoriuscii nel soggiorno, attirata da una melodia semplice, soave e che conoscevo molto bene.
Incontrai quella figura esile, sciupata dall'infinità di problemi che una bambina non doveva neanche essere in grado di immaginare, eppure il malessere mi si riusciva a leggere in viso, come il più semplice dei libri d'illustrazione per bambini.
Sedevo sulla panca del pianoforte, concentrata sui tasti. Ne accarezzavo la superficie liscia con la passione di chi a quell'età dovette aggrapparsi ad uno strumento per non finire risucchiata da un buco nero, di chi aveva bisogno solo di quello per isolarsi dal mondo che la circondava e avvicinarsi a l'unica persona che di quelle melodie riusciva ad interpretarne a pieno il significato.
Nell'orfanotrofio ero motivo di sguardi continui, gli altri bambini avevano paura di me.
Gli educatori, gli psicologi e perfino gli assistenti sociali, riuscivano ad afferrare il messaggio nascosto di un suono che solo chi aveva sofferto davvero, sarebbe riuscito a cogliere ed apprezzare.
Le mie melodie, spesso tristi, riuscivano a raggiungere ed accarezzare le ferite più profonde di chiunque ne avesse mai avuta una e come una coperta, avvolgerli nel loro dolore e accompagnarli verso quella luce soffusa in fondo al tunnel che, altro non era, che un po' di sollievo.
Strinsi gli occhi, presi da un leggero pizzicore e quando uno sparo rimbalzò fra le pareti del soggiorno, mi appiattì al muro, con il terrore a rovesciarmi lo stomaco e un violento tremore assalirmi il corpo.
M'impanicai, esattamente come la prima volta mentre cercai con lo sguardo la bambina di undici anni che dalla paura si nascose sotto al pianoforte, assalita da un terrore ceco, con le mani sulle orecchie e le lacrime a rigarle il viso.
Feci per avvicinarmi quando dei passi spediti e pesanti mi sorpassarono, come una violenta folata di vento in autunno. Inghiottì la saliva diventata veleno portandomi una mano alla bocca, lui era lì.
Inspirai ed espirai tentando, disperatamente, di regolare il mio battito cardiaco ma quando la sua voce cavernosa giunse alle mie orecchie rischiai di gridare così forte che perfino mia madre lassù mi avrebbe potuto sentire.
Strinsi il palmo sulle labbra. Mi strozzai con la mia stessa saliva, mentre scivolando contro la parete mi accasciai a terra, sicura che le mie gambe non avrebbero resistito a niente di più.
«Tesoro vieni qui, vieni da papà»
La bambina allontanò le mani dalle orecchie e non appena alzò lo sguardo, corse fra le braccia di colui che di padre portava solo il titolo.
«Va tutto bene. Non piangere, la mamma.. se n'è andata. Voleva farti del male tesoro mio, voleva tenerti nascosta al mondo, rinchiuderti in queste quattro mura. Era sicura fossi troppo piccola per capire ma sei intelligente Alia, tu sei una bambina intelligente, non c'è nulla che tu non possa fare»
Si strinse a lui come fosse l'unica cosa di cui aveva bisogno in quel momento, ma la verità era un'altra. Ricordavo esattamente cosa provai in quel momento dove le bugie di mio padre sembravano essere l'unica cosa chiara in una serie di avvenimenti, che di sfocato avevano il tema principale.
Non era consolazione quella che cercavo nelle sue braccia, non era protezione, non era amore paterno. Era altro.
La consapevolezza di non aver mai avuto un padre e di aver appena perso con mia madre, tutta la famiglia che avevo.
Dei passi s'intrufolarono nei pensieri come il più lesto dei ghepardi e quando lo vidi voltarsi con in viso un sorriso che per anni avevo cercato di dimenticare il mio cuore cessò di battere. I suoi occhi scuri mi trovarono e io morii circondata da quell'aura scura che solo mio padre poteva emanare e intrappolarmici dentro.
Paura, terrore, panico, un mix letale che esplose in un urlo non appena agguantò la pistola e me la rivolse contro.
Mi agitai sul letto, l'urlo si liberò aggressivo mentre perfino i mobili della mia camera parvero tramare contro di me, attentando alla mia vita.
Mi sembrò di essere circondata da persone incappucciate, con il viso buio, gli occhi che si illuminavano nel buio pesto della notte, giunti nel mio mondo con il solo obiettivo di porre fine alla mia triste vita.
Scalciai le coperte come mi stessero risucchiando nelle tenebre infernali e proprio in quel momento la luce della camera si accese.
Scattai in quella direzione e quando vidi mio padre corrermi incontro, senza pensarci, afferrai la sveglia al mio fianco e feci per scagliargliela contro ma una mano mi circondò il polso, allontanando l'arma.
Urlai ancora senza voce, scalciai, mi dimenai assalita da un singhiozzo insistente mentre la presa aumentò.
Due braccia calde mi circondarono il petto mentre allo stremo delle forze, sentii i sensi fibrillare.
«Ehi, ehi.. va tutto bene, piccola. Era solo un incubo, ci sono io.. ci sono io»
La voce di Sean, mi solleticò i sensi, giungendo alle mie orecchie come la più dolce delle melodie e presa da un immenso pentimento, ricambiai l'abbraccio stringendolo come fosse la mia unica fonte di ossigeno.
«Mi dispiace tanto» mormorai in preda ad un pianto straziante.
Era la seconda volta che rischiavo di fargli del male, erano incubi così vividi da sembrarmi spaventosamente reali. Un mix letale fra ricordi e paure, che finiva per farmi impazzire ogni volta.
Non ero in grado di controllarlo, la paura aveva sempre la meglio su di me e per quanto cercassi di aggrapparmi a tutto ciò che di bello invece la mia vita mi aveva donato, le cose brutte vincevano sulla bilancia.
«Non devi, Alia. Non è successo niente» soffiò fra i miei capelli e strinse il mio viso contro al suo petto, largo e possente. Mi lasciai cullare del battito del suo cuore leggermente irregolare mentre in una carezza, colmava ogni angolo della mia anima fredda e buia, col suo calore.
«Ti va di parlarne?»
Scossi il capo.
«Ho bisogno di prendere un po' d'aria» bisbigliai allontanandomi da quell'abbraccio di cui sentii la mancanza subito dopo.
«È tardi. Vengo con te, potrebbe essere pericoloso» Inspirai pesantemente e scossi ancora una volta il capo mettendomi a sedere.
«No, c'è la faccio. Ho bisogno di stare un po' da sola. Farò presto» lo rassicurai incastrando i miei occhi stanchi nei suoi, profondi ed estremamente teneri.
Annuì titubante. Non gli piaceva affatto quell'idea ma sapeva che era quello che volevo. Apprezzavo tanto il suo cercare di essere sempre presente senza, però risultare pesante. S'impegnava tanto a ricoprire il ruolo di genitore paterno che non avevo mai avuto e ne apprezzavo ogni singola sfumatura.
«Fai attenzione e non scordarti il cellulare. Se dovessi aver bisogno di me, chiama»
Il cielo scuro della notte si aprì sopra di me vasto ed irrequieto mentre il vento fresco mi accarezzava il viso e scompigliava i capelli.
Le strade erano illuminate dal riflesso tenue della luna, in quel cielo lontano che splendeva di stelle.
Attraversai vari negozi accorgendomi che le strade erano completamente deserte, d'altra parte era tardissimo e speravo davvero di non incontrare nessuno.
Svoltai angoli, percorsi strade che cercavo di memorizzare e solleticata da una musica appena percettibile mi ritrovai a seguirla.
Man mano che proseguivo, quest'ultima si insinuava nella mia testa sempre più in profondità.
La musica era di genere phonk misto rock, doveva trattarsi di un pub.
Dettata da una curiosità imprudente una volta svoltato l'ennesimo incrocio, dall'altra parte della strada incrociai il locale in questione.
La musica era altissima, assordante e chiassosa, un gruppo di ragazze ballava energicamente giusto fuori dal locale e ciascuna sorreggeva un bicchiere. Indossavano vestiti sgargianti e super appariscenti.
Il loro corpo magro ondeggiava in quella stoffa così provocante e mi chiesi come facessero a ballare su quei tacchi vertiginosi.
Erano ubriache, una di loro barcollò andando a finire contro l'amica e quando il bicchierino di alcol si rovesciò sul vestito a fascia, rosa shocking di quest'ultima le ragazze scoppiarono a ridere evidentemente divertite.
Sorpassai il pub quando qualcosa mi si piazzò davanti, bloccandomi la strada. Caddi a terra in un tonfo, scontrando il cemento freddo del marciapiede.
«Ti sei fatta male, bambolina?»
Il mio sguardo scattò verso l'alto, dove una figura enorme stendeva un'ombra sul mio corpo, coprendomi al lampione. Strinsi gli occhi per cercare di capire chi fosse ma dalla voce sconosciuta capii che non si trattava di un conoscente. Riuscii solo a vedere la sagoma del suo corpo, delle spalle larghe e una massa corporea decisamente tre volte la mia.
Feci pressione sul gomito per cercare di rialzarmi ma non appena mossi un muscolo l'uomo si abbassò, portando il suo viso allo stesso livello del mio, immobilizzandomi in quella posizione.
Capelli cortissimi e neri, viso dai lineamenti marcati e due occhi grigi mi stavano scrutando. Mi studiarono famelici e curiosi mentre un ghigno si allargò mettendomi in allerta.
«Parli anche?» chiese.
«Sto bene» mormorai stringendo a me la mia borsa con all'interno il mio cellulare. «Non l'avevo vista» continuai indietreggiando leggermente prima di rialzarmi.
Il suo sguardo seguì quel movimento e una volta in piedi, si fermò di fronte a se, sulle mie cosce fasciate dai jeans neri. Una smorfia si liberò sul mio viso mentre una strana sensazione di pericolo mi riempii i sensi, spaventandomi.
«Sei proprio bella, lo sai?»
Distolse lo sguardo concentrandosi sui sassolini che giacevano sull'asfalto, fece pressione sulle gambe e si rialzò lentamente. Il cuore cominciò a battere nelle orecchie. Era altissimo, era grosso, era muscoloso.
Sentii l'aria improvvisamente mancare.
«Davvero molto bella» continuò, avvicinandosi.
Feci per schivarlo e scappare via quando allungò il braccio, bloccandomi il passaggio.
«Molto male, è così che ringrazi per il bel complimento?»
«Il mio ragazzo sarà qui a momenti, la prego di spostarsi» mentii spudoratamente in preda al panico, sperando che bastasse per intimorirlo e invitarlo a levarsi di torno.
Avevo guardato molti film d'azione, convinta che prima o poi qualcuno di quei trucchetti mi sarebbero stati utili un giorno, ma viverlo era tutt'altra cosa.
Le emozioni avevano sempre la meglio anche se in questi casi bisognava solo mantenere la calma ed il sangue freddo.
«Dammi pure del tu, io e te diventeremo grandi amici» bisbigliò fremente ad un palmo dal mio viso. Mi irrigidii scansandomi subito, schifata da quel fare lascivo.
Lanciai lo sguardo verso il pub dall'altra parte della strada, sperando che con un locale a pochi metri da noi non si sarebbe mai azzardato a far nulla di stupido.
Per un secondo pensai di correrci dentro, attraversare la strada e infilarmi in quel locale per sfuggire da questo pazzo ma quando quest'ultimo camminò piazzandosi proprio di fronte alla strada, mi ritrovai a dover scartare quel piano.
«Sono sicuro diventerai una perfetta modificata. Con te questa volta funzionerà, me lo sento»
Mi afferrò una ciocca di capelli fra le dita e di scatto serrai gli occhi costringendomi a mantenere la calma mentre il mio corpo venne sopraffatto da brividi tremolanti di pura repulsione.
«Avrei dovuto aspettare l'uscita di qualche ragazza ubriaca dal locale, ma sequestrare una sobria è dieci volte più divertente, non trovi?»
Rigirò la ciocca scura fra le dita e fu li che la mia mano si alzò di scatto e lo schiaffo risuonò alle mie orecchie come la più incantevole delle melodie. Gli schiaffeggiai la mano, sperando fosse chiaro che doveva allontanarsi e smetterla di toccarmi come ne avesse il diritto.
«Non ho idea di che cosa tu stia dicendo, ma tieni le mani lontane da me» sibilai seria in volto nascondendo l'evidente terrore che mi riempiva lo sguardo.
Era un uomo che incuteva timore, ogni dettaglio del suo aspetto faceva tremare ogni singola molecola del mio corpo, faceva venir voglia di scappare a gambe levate ma per quanto cercassi di trovare una via di scampo ancora non ero riuscita a trovarne una da promuovere a pieni voti.
«Hai le palle, te lo concedo. Questo tuo comportamento non fa altro che aumentare la mia voglia, dovrei forse fare un eccezione? Perché no? Il Sig. Miller può aspettare»
Spalancai gli occhi inorridita. Che diavolo stava dicendo?
Mi afferrò il polso e quando mi sentii attirare contro al suo petto per poco non inciampai nei suoi enormi piedi. Sgranai gli occhi sconvolta mentre la mia testa si smarrì nel terrore, offuscando le ultime possibilità di non farmi prendere dal panico più totale.
«Non mi toccare..» borbottai a pochi centimetri dal suo petto, con le mani a mezz'aria, la schiena inarcata all'indietro nel patetico tentativo di evitare il più possibile il contatto fisico con questo viscido.
«Sh, sh, sh» mi alzò il viso con l'indice e io volli morire piuttosto che sentirlo ancora così vicino.
«Non ti preoccupare, non ho intenzione di farti male»
La sua mano mi accarezzò la spina dorsale e come assalita da una sconosciuta dose di coraggio, alzai il piede e gli calciai la caviglia, non appena allentò la presa, lo spintonai e cominciai a correre verso il locale per cercare di infilarmici dentro.
Mi trovavo al centro della strada quando in un battito di ciglia me lo ritrovai davanti, alzò una mano e il colpo che mi assestò mi disorientò facendomi finire contro al cemento.
La testa girava e quando sentii due mani sollevarmi non riuscii neanche ad aprire gli occhi che quest'ultimo mi posizionò a testa in giù sulla sua spalla. Mi ritrovai con il sedere all'aria e lo stomaco sottosopra impaurita dalla semplicità di cui aveva avuto bisogno per alzarmi.
Il mal di testa aumentò con il flusso di sangue che raggiungeva il cervello, mentre la pelle della guancia bruciava.
Cercai di aprire bocca per dire qualcosa ma le parole mi morirono in gola quando sentii una mano grande accarezzarmi il polpaccio. Mi trattenni dal vomitargli sulla maglia e quando lo vidi incamminarsi verso la direzione opposta il panico mi contorse la pancia.
«Perché hai permesso che succedesse?» domandò «Non avrei mai voluto alzarti le mani. Perché hai dovuto farmelo fare?»
La sua voce rimbombava nella mia testa ma non capivo una sola parola di ciò che stava dicendo. Ero scossa, ero addolorata e in quella posizione non ero in grado di formulare una sola frase di senso compiuto.
Dopo qualche secondo, l'uomo si fermò di colpo in mezzo alla strada posizionandomi meglio sulle sue spalle, gesto che mi scosse e destabilizzò allo stesso tempo. Non c'è la facevo più, sentivo la nausea rimbalzare in gola e una voglia innata di darmi libero sfogo sulla maglia di questo psicopatico.
«Se è così che pensi di conquistarla, sei completamente fuori strada»