Dove credi di andare con quella scatola?
Da Rebecca, porto da lei un po' di cose.
Perché?
Perché non vivo più qui, me ne sto andando.
Come gli era venuto di rispondergli così? Era stupido o cosa? Avrebbe potuto inventare qualsiasi scusa, come una finta donazione a qualche ente benefico o associazione. Invece, davanti alla faccia più severa che avesse mai visto addosso a suo padre, Luca aveva detto la verità. E quella scatola, quella contenente la prima edizione di Slam Dunk, che Gabriele gli aveva regalato quando erano alle medie, era rimasta nella sua stanza.
Non gli aveva fatto prendere nulla, nemmeno dei vestiti o i libri di scuola. Tutto ciò che aveva era nello zainetto che prontamente Rebecca aveva preso e si era infilata sulle spalle come se fosse suo e che l'uomo non aveva notato. Dentro c'erano: il regalo per Elia, telefono, portafogli, libretto scolastico (ma nemmeno un quaderno), spazzolino (come se stesse andando a dormire da un amico e non potesse comprarsi uno spazzolino nuovo), il Kindle, il portafogli e il tablet (ma non il PC), una busta con delle foto che aveva fatto stampare l'anno prima, lo scaldacollo che gli aveva fatto Elia, la maglietta con cui giocava in Sisport, gli occhiali nella loro custodia, un paio di boxer di ricambio e dei calzini puliti. Aveva fantasticato su quel giorno per mesi, e aveva anche una lista da qualche parte, ma tutto ciò che era riuscito a prendere, le sole cose a cui aveva pensato, erano lì, in quello zainetto confuso.
Poco prima delle scale suo padre aveva persino provato a trattenerlo con la forza, l'aveva afferrato da un braccio e strattonato, ma Rebecca si era intromessa, assicurandogli che lo avrebbe fatto ragionare, così erano riusciti ad allontanarsi. Quando era quasi fatta si era frapposta tra loro e l'ingresso di casa anche sua madre e a quel punto la discussione era diventata collettiva, con la donna che lo pregava di fermarsi e di capire che lo faceva per il suo bene, il padre che le chiedeva di cosa stesse parlando e lei che, davanti a tutti (intanto era sceso anche Matteo) raccontava tutto quello che Luca le aveva confessato quella mattina. Non avrebbe potuto essere più mortificante di così. Tranne la parte in cui suo padre aveva chiesto a Matteo se ne fosse al corrente e lui aveva negato. E tranne gli insulti che erano arrivati da parte del padre e le lacrime di dispiacere della madre. Per fortuna era Rebecca era intervenuta di nuovo, parlando con calma, cercando l'attenzione di sua madre, soprattutto; aveva detto che lo avrebbe portato solo a fare un giro, per schiarirsi le idee, e che sarebbero tornati in tempo per cena e che, anzi, avrebbe partecipato volentieri per sentire cosa avesse da dire questa persona che avevano invitato. Così, erano riusciti a convincerli e ad andarsene, ma senza ottenere niente del piano originale.
«Alla faccia che non se ne dovevano accorgere!» Rebecca gli aveva passato lo zaino prima di entrare in macchina.
«Non sarebbe dovuto rientrare così presto. Di solito il sabato lavora almeno fino alle sei, come se fosse un giorno normale.»
«Si vede che i suoi sensi di ragno pizzicavano, voleva tornare a casa e vedere cosa stesse combinando suo figlio.»
«Non abbiamo preso Martin Eden.»
«Lo so.»
«Non ho preso quasi niente, Rebe. Ho lasciato tutto lì, non ho niente.» Si stava lasciando andare allo sconforto, mentre uscivano dal vialetto di casa.
«Credono che tornerai. Magari non stasera, di quello penso se ne accorgeranno presto, però sono convinti che tornerai. Non daranno via le tue cose e sicuramente non lasceranno morire Martin Eden di stenti. Parlerò personalmente con tuo fratello e gli darò indicazioni precise, va bene? Stai tranquillo.» Gli aveva messo una mano sulla gamba, come se volesse trasmettergli forza e coraggio.
«Devo chiamare Elia. Mi puoi portare da lui?»
«Dimmi dove abita.»
«Segui per Corso Casale, poi ti dico.»
«Odio quando fai così, dimmi direttamente l'indirizzo. Che ne sai che Corso Casale è la strada che farei io per arrivarci? Magari ne farei un'altra, magari una più lunga ma che mi piace di più, o una più corta che tu non conosci. In fondo non guidi, quindi non sai...»
«Rebe!» L'aveva interrotta bruscamente. «Scusa, ma non sono in vena al momento.»
«Scusami tu. So che è stato brutto, prima, mi dispiace.»
«Già. Sapevo che non sarebbe stato facile, ma sentire tuo padre che ti dà del malato invertito fa comunque male. Mi sarebbe bastato sentire uno solo di loro, uno solo, dalla mia parte. E invece mi hanno lasciato andare.»
«Beh, proprio "lasciato andare" non direi. A momenti mi toccava spostare tua madre di forza per farci passare.»
Lui le aveva sorriso, con gli occhi lucidi. «Però non mi hanno detto nemmeno di restare, che avrebbero annullato quella stupida cena, e che avremmo potuto sederci e parlarne con calma.»
«Non è detto che non ci rifletteranno, adesso. Stai lontano dai loro radar per un po', loro sono un po' tardi, come i miei; magari ci pensano su, no? Non puoi mai dire.» Luca aveva annuito, conscio del fatto che quella fosse una bugia consapevole: sapevano entrambi che i suoi genitori non ci avrebbero ripensato e che non sarebbero cambiati, era lui a dover cambiare, secondo loro. «Comunque non puoi stare da Elia.»
«Perché?»
«Prima di tutto tua madre sa come si chiama, l'ha conosciuto e anche Yuri farà il suo nome, se interpellato.»
«No, non credo che arriverebbe a tanto.»
«Ancora lo difendi, incredibile! Comunque, non è solo quello. Immagino che non andrai a scuola per qualche giorno, giusto? Te li ritroveresti fuori dal cancello per prenderti e caricarti di peso per portarti a casa con la forza.»
«Sì. Voglio restare nascosto per un po'.»
«E credi che i tuoi non coinvolgeranno il corpo docenti? Non lo diranno al preside? E secondo te una mamma, che guarda caso esce con il preside, sentendo una storia del genere, di genitori disperati che stanno cercando il figlio scappato di casa per un malinteso, così diranno loro, ti terrà nascosto in casa sua? Non la conosci, non puoi sapere che tipa è. Ma credo che rispedirti da tuoi non la renderebbe nemmeno una cattiva persona, solo una mamma che crede di aiutare un'altra mamma.»
Luca non aveva considerato nulla di tutto ciò. Ecco che almeno si risolveva da solo il problema di chiedere a Elia di ospitarlo e la posizione scomoda in cui lo avrebbe potuto mettere nel farlo.
«Mi porti comunque lì? Glielo voglio dire di persona e devo lasciargli una cosa.»
Una volta andati via da casa di Elia, anche Rebecca aveva spento il telefono come Luca. Ancora non sapeva nemmeno dove Luca avrebbe dormito. Non che gli importasse più, ormai. Aveva così sonno che si sarebbe accontentato di quel sedile, nella macchina di Rebecca, per tutta la notte. Ma al mattino, poi, cosa avrebbe fatto? Si era davvero appisolato, quando sentì Rebecca scuoterlo appena, da un braccio.
Casa di Thomas era diversa da come se l'era immaginata, sembrava più l'appartamento di due vecchi signori che di un ragazzo ventiquattrenne. Luca si lasciò accompagnare in una stanza che puzzava un po' di chiuso e una volta tolto la giacca e le scarpe si infilò a letto. Le lenzuola, almeno, avevano un buon odore di pulito. Uscì dal fagotto di coperte che si era creato solo per recuperare lo scaldacollo di Elia e usarlo come pupazzo per la notte. Aveva dimenticato anche Dudù, il pupazzo che aveva conservato per quasi vent'anni. Vent'anni ad aspettare su quella mensola di essere portato via, verso una nuova vita e poi lui se ne dimenticava. Era come se in quella casa avesse lasciato tutte le sue radici e ora fosse un albero sradicato in balìa del vento.
Il sonno arrivò prima ancora di mettere a fuoco le frasi di Rebecca e Thomas che parlavano oltre la porta. Lei gli stava spiegando la situazione, era agitata, lo sentiva. Lui era più calmo, accomodante, le stava forse dicendo che non c'erano problemi, Luca poteva stare tutto il tempo necessario. Ancora una volta qualcun altro prendeva accordi sulla sua vita. Era troppo stanco persino per decidere per sé, per ringraziare Thomas di averlo accolto. Pensò ad Elia. Che ora era? Il concerto era già finito? Avrebbe riacceso il telefono e lo avrebbe chiamato prima che andasse a letto. Voleva raccontargli tutto. Sarebbe stato fiero di lui o lo avrebbe sgridato per essersi giocato male la sua uscita di scena da casa? Avrebbe provato pena per lui o lo avrebbe consolato? Aveva voglia di sentirlo imprecare contro tutta la sua famiglia, e poi dirgli che lui era forte, che ce l'avrebbe fatta. Voleva da morire abbracciarlo, addormentarsi tra le sue braccia con il suo respiro addosso. "Forse," pensò, "per Tommy non sarà un problema averlo come ospite, ogni tanto. Potrebbe venirmi a trovare." Pensò anche alla settimana della gita, ai loro programmi, all'idea di andare due giorni al mare, in Liguria, in treno. E poi il Salone del libro e quel concerto, a giugno. Avrebbero comunque fatto le stesse cose, adesso? A scuola, forse, non ci sarebbe nemmeno più tornato. Avrebbero saputo tutti della sua fuga, sicuro. Luca Bianchi, gay, scappato di casa, non diplomato, povero in canna, ospite da un tizio più grande. Ken massaggiatore, lo aveva chiamato così, Elia. Sarebbe stato geloso? Si sarebbe arrabbiato di saperlo lì? Era troppo stanco anche per avere paura di litigare con lui per quello. Nel buio in cui già si trovava, chiuse gli occhi. Erano gonfi, consumati dalle lacrime e dalla stanchezza. Come sempre ci fu quell'attimo di pura pace in cui non sapeva nemmeno dove e chi fosse, quel momento in cui pensò: "Non svegliarti più. Dormi e basta." E poi ci fu il buio, il silenzio. Finalmente.