The Night We Met

By tiggsmon

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Manuel ha perso il fratello da poco e cerca continuamente una connessione con lui, andando lentamente a distr... More

Personaggi e Playlist.
-ੈ✩‧₊˚Preludio
-⋆.ೃ࿔*:・ Capitolo 1
-ੈ✩‧₊˚Capitolo 2
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 3
-ੈ✩‧₊˚Capitolo 4
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 5
-ੈ✩‧₊˚Capitolo 6
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 7
-⋆.ೃ࿔*:・ Capitolo 9
-ੈ✩‧₊˚Capitolo 10
🫧
-⋆.ೃ࿔*:・ Capitolo 11
ִ -࣪𖤐◞ ꙳Capitolo 12
-ੈ✩‧₊˚Capitolo 13 (I)
-⋆.ೃ࿔*:・ Capitolo 14 (II)
-ੈ✩‧₊˚Capitolo 15
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 16
ੈ✩‧₊˚Capitolo 17
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 18
ੈ✩‧₊˚Capitolo 19
-⋆.ೃ࿔*:・ Capitolo 20
🫧
ੈ✩‧₊˚Capitolo 21
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 22
°❀⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 23
ੈ✩‧₊˚Capitolo 24
ִ -࣪𖤐◞ ꙳Capitolo 24.5
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 25
ੈ✩‧₊˚Capitolo 26
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 27
ੈ✩‧₊˚ Capitolo 28
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 29
ੈ✩‧₊˚Capitolo 30
🫧 La lista di Manuel
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 31
ੈ✩‧₊˚Capitolo 32
-⋆.ೃ࿔*:・ Capitolo 33
ੈ✩‧₊˚Capitolo 34
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 35
ੈ✩‧₊˚ Capitolo 36
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 37
ִ -࣪𖤐◞ ꙳Capitolo 38
-⋆.ೃ࿔*:・Capitolo 39
ੈ✩‧₊˚Capitolo 40
🫧
-⋆.ೃ࿔*:・ Capitolo 41
ੈ✩‧₊˚ Capitolo 42

-ੈ✩‧₊˚Capitolo 8

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By tiggsmon


ANDRÈJ.
"Le cose si rompono, a volte si aggiustano, e ci rendiamo conto che, per quanti danni possiamo subire, la vita ci ricompensa quasi sempre, spesso in modo meraviglioso."
Hanya Yanagihara, Una vita come tante.



Lo psicoanalista Sigmund Freud dichiara che lo svolgersi dei nostri sogni ha come obbiettivo quello di comunicarci i nostri desideri inconsci, fungendo da ponte di collegamento fra due mondi paralleli.
Realisticamente parlando, mi è difficile credere che i miei sentimenti si manifestano attraverso una sequenza di sogni ridicoli, specialmente se la conseguenza di essi è una confusione mentale intensificata.

Da bambino, ad esempio, sognavo spesso le fiamme che avvolgevano il mio corpo e guizzavano ferocemente per le stanze della mia dimora, incendiando i libri e le mantovane. Era una ripetizione di quello che accadde veramente, il giorno in cui le fiamme strapparono mio papà da questa Terra.
Sicuramente non covavo alcun desiderio che l'incendio avvenisse nuovamente, e la consequenzialità di questo incubo mi portava a starmene silenzioso tutto il giorno seguente, ripensando alla brutta notte trascorsa.

Mio papà possedeva due libri relativi a Freud: uno ne narrava le vicende storiche e biografiche, l'altro era un manuale di interpretazione dei sogni che raramente veniva spostato dalla sua pozione sugli scaffali lucidi della sua libreria. Mia mamma odiava Freud, per cui mio papà si rifiutava di leggere il contenuto dei suoi scritti—sembrerà patetico, questo gesto condizionato unicamente dell'opinione di una persona amata, ma papà si fidava ciecamente delle ideologie di sua moglie e la ascoltava volentieri polemizzare su un caleidoscopio preciso di autori.

A me non fa alcuna differenza, tutto ciò. Gli unici libri relativi alla psicoanalisi che ho mai letto in vita mia sono entrambi due volumi di Italo Svevo, e mi sono bastati per capire che quel sotto genere non mi appartiene o entusiasma parecchio.
Preferisco sognare senza dover intercettare nessun trauma psicologico all'interno del mio inconscio, soprattutto perché sono consapevole che avrei paura di scoprire a pieno questi dilemmi irrisolti.

Un sogno che mi è particolarmente rimasto impresso nel corpo come una ferita da arma da fuoco ripulita solo marginalmente è quello di un'avventura tra i mondi. Le scene si susseguivano rapidamente in una climax sensazionale di bellicosità e forti emozioni, per la quale mi ritrovavo a ripararmi dai gelidi venti artici in un istante e a scavare presso il territorio marziano in quello dopo. Ho serie difficoltà a concepire come questo sogno fantascientifico in particolare debba rappresentare un enigma interiore.
Forse serve unicamente allo scopo di farmi sperimentare la visione eroica dei classici, a compararmi con il pius Enea o la strabiliante maga Circe costretta all'ostracismo totale sulla rocciosa isola di Eea.

Eppure il concetto di eroismo non è mai stato un tema presso cui mi dimesticavo caparbiamente.
Non comprendo la maggior parte degli sport nonostante spesso provi a captare le informazioni necessarie attraverso documentazioni visive e scritte; la boxe mi è oramai penetrata nel midollo ed è l'unica eccezione alla regola. In classe preferisco non proferire parola—avrei una sfilza di cose da dire, ma le mie discussioni volerebbero al vento come rondini infastidite dagli schiamazzi umani. Ho pochi amici, la schiettezza non è il mio campo di riferimento e troppo spesso mi mordo la lingua per evitare che qualcuno possa essere sensibile alle mie parole.

Un'esperienza che accomuna la maggior parte dei ragazzi della mia età è la traumatica, precoce esposizione a un film particolarmente nostalgico, tratto dall'omonimo romanzo che sfrutta la stessa nomenclatura, solo modificata nel film in La gabbianella e Il gatto.
Tornato a casa dopo aver visto quella diapositiva ricordo di aver espulso tutte le lacrime che trattenevo in corpo, sfogandomi ferocemente avvolto nelle solide braccia di mio zio Bojan. La sera stessa ho avuto un incubo dove venivo rincorso da una masnada di topi dai baffi pungenti.

Se avessi tempo da impiegare nella ricerca del mio Io interiore ricercherei il significato intrinseco di ogni mio sogno—non lo faccio, preferisco annotare su un quaderno tutti gli avvenimenti memorabili e aspettare che la storia avvolga i miei deliri in un drappo fulmineo. 

Mio padre era un sognatore, io sono leggermente più realista quando mi conviene.

Mi risveglio con una luce frastornante che filtra attraverso le mie palpebre chiuse, e un rumore constante di argenteria che ticchettia contro ciò che sembra essere ceramica.
Un lieve brusio gradualmente si intensifica, distinguendo voci stabili e secche che raccontano una moltitudine di avvenimenti meccanicamente; devono essere giornalisti.

Rischio un abbaglio non appena raccolgo il coraggio necessario per aprire gli occhi, riscontrando immediatamente il fastidio procurato dalla luce che mi illumina direttamente in volto. Dalla posizione del Sole, ipotizzo che sia tarda mattinata.
Non ricordo neanche di essermi addormentato.

Portandomi le dita alle tempie mugolo una serie di lamentele alla pressione che mi stringe in un mal di testa sprezzante, paragonabile alle improvvise fitte che ti colpiscono tra le costole sporadicamente facendoti diventare paonazzo dal terrore di star rischiando un infarto. Anche i realisti possono tramutarsi in ipocondriaci—niente scalfisce la roccia meglio dell'erosione.

Faccio scivolare il cuscino sotto la mia testa tra le mie mani, stringendolo contro il mio viso nella speranza di alleviare il disturbo provocato dalla combinazione vincente luce e mal di testa, ma tutto ciò che ottengo è uno sforzo maggiore nel controllare il respiro. Della condensa si deposita sulle lenti dei miei occhiali da vista, la montatura che preme contro il cuscino violentemente da farmi male all'arca nasale.

Un ricordo si insedia tra le mie sinapsi frastornate con la facilità che hanno le onde di cambiare direzione in base al vento, accompagnate da una sensazione fugace di gradevole tepore.
«Stai bene con gli occhiali. Stai molto meglio così, in realtà.»

Manuel?

«Cazzo,» biascico intelligibilmente mentre i ricordi della notte precedente prendono il sopravvento in seguito allo sblocco della mia memoria flebile. Ho una tolleranza per l'alcol veramente straordinaria nel senso più negativo del concetto.

Spostando il cuscino per garantire un raggio visivo più completo trovo la ragione del mio precedente stato di incoscienza a pochi passi dal mio corpo. Intrappolato in un angolo del divano con le braccia in posizione di preghiera sotto la guancia, c'è la sagoma di Manuel che si scaglia contro i cuscini monocromatici in tutta la sua semplicità. Una delle sue gambe è stesa sopra la mia a causa di qualche spostamento avvenuto durante la notte, agendo da trasmettitore di calore che mi irradia il corpo più efficacemente di quanto non farebbe una borsa d'acqua calda.

Il suo volto è impasticciato di trucco, e una delle stelle bianche che si era disegnato sotto gli occhi è quasi completamente sbiadita. Ha ancora l'aureola di piume posizionata sul capo, con la leggera differenza che i suoi ricci castani sono completamente scompigliati ed essa è sbilanciata notevolmente. Il battito regolare scandito dal movimento del suo petto mi da la garanzia che sta bene; rilascio un respiro di sollievo.
Almeno ubriacarmi al posto suo sembra essere servito.

Il mal di testa continua a tuonarmi contro le tempie, con la ferocia di un martello impegnato a incastrare dei chiodi in un muro di mattoni.

Manuel dorme così pacificamente che svegliarlo potrebbe essere paragonabile a un reato commesso intenzionalmente, per cui giuria è irremovibile sull'andamento del processo finale. Una piccola piuma nera colpisce la mia attenzione, insediatasi sulla sua guancia in prossimità del naso.
Azzardando un movimento, cerco di toglierla da lì prima che possa dare fastidi non richiesti o fargli il solletico. Io lo soffro parecchio, ad esempio.

Mio papà si divertiva parecchio a solleticarmi i fianchi, e scoppiavo in risate isteriche che volevano richiamare l'aiuto disperato di qualche potenza che mi aiutasse a non soffocare dalle risate. Mi mancano quei momenti lì, quando la mia unica preoccupazione era quella di scappare dai tentativi di mio papà che mi causavano un solletico quasi insopportabile.

Mi avvicino quanto basta per soffiare lentamente sulla guancia di Manuel nella speranza che la piuma scelga di favorirmi la giornata e volare via con la stessa leggiadria con cui è approdata, ma oltre a un impercettibile movimento, oppone sfrontata resistenza. Soffio nuovamente ma Manuel comincia a muoversi, raddrizzando le sue mani sotto l'altra guancia, il volto dei lineamenti morbidi che continua a incastrarlo nel sonno.

Mi ritraggo velocemente; ecco perché non potrei mai giocare in squadra, lascerei il lavoro intenso agli altri e scapperei dall'imbarazzo di qualsiasi cosa nel giro di pochissimi millesimi di secondi. La codardia è un sintomo che riscontro facilmente. Soprattutto quando sono in prossimità di un ragazzo bello come lui.
Ah, dio, che palle. Vorrei mentalmente schiaffeggiarmi.

Percepisco istantaneamente delle presenze estranee nella stanza che per qualche motivo mi erano precedentemente sfuggite.
Impegnati in un pranzo quasi concluso, mia zia e mio zio Bojan popolano la cucina collegata tramite un arco romano al soggiorno; la zia alza il volume del televisore, innescando un fitto stramazzo di voci che si sovrastano l'un l'altra, mentre mio zio trafuga dei piatti nel lavandino e si volta lentamente nella mia direzione, intercettando la mia attenzione su di lui.

I suoi occhi si muovono per scrutare me e il ragazzo che sta sbavando sul suo divano preferito, mentre un sorriso malinconico gli solleva i lembi delle labbra che ripiega con cautela avvicinandosi a me. In questi tre anni che non ci siamo visti sembra esserne invecchiato di cinque.

Mi sottraggo dal calore emanato dal corpo di Manuel, un po' traballante e instabile sui miei stessi piedi incrociando il passo felpato di mio zio a meno di metà strada. Non c'è bisogno di ampliare abissi d'imbarazzo tra di noi logorati dal tempo che non ci ha permesso di incontrarci spesso; l'abbraccio in cui mi circonda racchiude tutti quelli che avrebbe voluto darmi se avessi scelto di visitarlo più spesso, e viceversa. Avere dei parenti lontani è molto difficile da sopportare a volte, soprattutto quando rappresentano quasi tutta la famiglia che ti è rimasta.

«Sei cresciuto tantissimo,» osserva lui. Il suo respiro mi pizzica il collo. «E sei vestito in modo strambo.»
Scivolo fuori dalla sua stretta solo per ridere, mostrandogli il costume di ieri sera da più vicino, orgogliosamente. «Era Halloween.»
«Una festa senza molto senso,» si intromette la zia, litigando con le pile del telecomando che sembra fare i capricci ed essersi bloccato sullo stesso canale di cronaca nera. «Però è uscito di casa, già è un miracolo.»
«Al diavolo i miracoli,» alza gli occhi al cielo lo zio, dandomi una lieve gomitata al fianco, «Poklad, l'hai capita? Al diavolo. Sei vestito da diavolo, no?»
Preferisco non correggerlo.

La zia sbatte il telecomando rumorosamente sulla superficie del tavolo al centro della stanza. «È ora di pranzo,» mugugna tra un colpo violento e un altro, «Dormite come due ghiri.»

Alla menzione di un secondo individuo riconosciuto solo tramite l'accatasto del plurale, mio zio Bojan riporta la sua attenzione da volpe scaltra sulla sagoma di Manuel pacificamente a suo agio tra gli infiniti cuscini del divano. Ne abbiamo una tonnellata per renderlo più comodo, e anche le coperte sono svariate, soprattutto per resistere al freddo agghiacciante invernale che soffro parecchio.

«Nuovo amico?» bisbiglia lo zio Bojan, con un sorriso che gli accarezza gli zigomi che portano il macigno del passare degli anni; una volta era davvero bello, ci sono due foto in bianco e nero che mia mamma conservava in un album di fotografie dove lo zio sembra quasi essere un contestante di un reality show che ingaggia unicamente modelli stranieri.

Mi stropiccio gli occhi per eliminare le tracce di sonno che ancora pervadono nel mio corpo; scrollando le spalle con una falsa nonchalance, annuisco. «Si chiama Manuel.»
«È molto carino,» afferma lo zio. «Sveglialo che sicuramente muore dalla fame.»
Mia zia lancia il telecomando contro il muro, con la conseguenza che esso si spacca in due pezzi quasi speculari. Il canale passa a un cartone animato per bambini.

A causa del rumore provocato dall'impatto, Manuel si sveglia con uno sguardo allarmato che incendia le sue iridi, e un solco scavato tra le sopracciglia che indaga sul motivo di tanto frastuono. In maniera disorientata, sbatte più volte le palpebre adattandosi alla luminosità improvvisa della stanza e ai vari fattori esterni che collaborano per rendere l'atmosfera caotica.
I suoi ricci sono elettrizzati dal cuscino contro cui sono rimasti spinti tutta la notte, rovinando le onde perfette ma garantendogli una dormita pacifica.

«Hey,» lo saluto, sistemando sul divano un lembo di coperta che ha inconsciamente fatto cadere muovendosi bruscamente. «È pronto il pranzo.»
Manuel mi guarda perplessamente, le sopracciglia ancora aggrovigliate e lo sguardo vacuo che cerca di risolvere un qualche problema algebrico di cui ha perso i passaggi iniziali. «Pranzo?» chiede confusamente, la voce rauca e profonda più del solito a causa dello stordimento.
«Ieri sera ci siamo addormentati dal nulla.»

«Piacere di conoscerti,» si intromette lo zio, sfoggiando il suo sorriso sincero accompagnato da una simpatetica stretta di mano. «Sono Bojan Novotný, lo zio di Andrèj. Hai passato una bella serata?»
Alzo gli occhi al cielo al suo tono colloquiale.
Manuel si libera dalla stretta di mio zio abbozzando un sorriso ancora perplesso—sembra spaesato, probabilmente gli è difficile connettere perfettamente non appena sveglio. Specialmente se tappezzato di domande improvvise.

«Novotný?» mi chiede, sistemandosi i capelli.
«È il fratello di mia mamma.»
«Come si chiamava?»
Non dico il suo nome da molto tempo, «Anastászie Novotná, i cognomi Cechi cambiano dal maschile al femminile.»

«Come quelli greci!»
Lo zio solleva un sopracciglio, scettico. «Hai parenti greci?»
Manuel scuote la testa velocemente. «Il mio migliore amico è in parte greco.»
Il mio cervello elabora la risposta prima ancora che possa riscontrare conferma: «Theo.» Questo spiega svariate faccende sul suo fisico tonico.
Ha la fisionomia di un dio e lo sguardo torvo di Ade, il governante degli inferi; se credessi nella religione, molto probabilmente avrei il timore di avvicinarmi a lui e invocare qualche divinità improvvisamente.

Manuel dondola le gambe dal divano. «Esatto. Comunque in famiglia avete dei nomi stupendi, sai? Andrèj, Anastászie...tuo padre come si chiamava?»
«Edoardo,» rido. «Un nome pressoché comune.»
«È bello comunque!»
«Venite a mangiare prima che si fredda tutto?» ribatte la zia dalla cucina, lanciando occhiate feroci verso la televisione impostata sul canale dei cartoni animati. Il mondo è stato sollevato dall'incarico di renderla insegnante, sarebbe stata una catastrofe totale, sfortunatamente la sua pazienza è pari a zero negativo.

Il pranzo trascorre velocemente mentre lo zio Bojan si impegna a tappezzare Manuel di domande personali, e lui risponde a tutto amichevolmente, masticando la sua pasta golosamente, ma i miei pensieri sono ancorati ad altro.
Come sempre, sposto il cibo da un lato all'altro del piatto, appesantito da una moltitudine di immagini che mi ricordano la puntualità di Novembre.
Il mio compleanno, la morte di mio papà.
Mi è difficile sopportare questo mese, mi sento continuamente sconnesso dal mondo e non apprezzo più la pioggia come prima.

Il calendario sulla parete è un'ennesima, spietata, conferma delle mie riflessioni—il giorno 9 è circondato da un cerchio rosso di penna, con delle iscrizioni al fianco che riportano al mio compleanno imminente.
A Novembre, l'assenza di mio papà è intensificata da tutto quanto.

   

*


La tensione che mi sono portato sulle spalle per giorni ha finalmente trovato una valvola di sfogo.

Colpisco ripetutamente il sacco in uno sprint finale per indurire gli addominali e allenare la mia resistenza preparandomi a una competizione che terrà luogo l'ultima settimana di gennaio del nuovo anno, a cui sono stato iscritto dal mio coach senza vie di fuga.
Non partecipo da due anni e adesso è necessario che io mi renda disponibile per portare una medaglia a casa—competeremo in tre del mio corso, e la scelta di chi mandare alle provinciali ha sicuramente un sottofondo sarcastico.

Io, Theo e Mirko Cesari, un trio deliberatamente devastante, per me che devo subire le battute che passano tra di loro come foglie autunnali.
Siamo quelli che hanno più esperienza e incassano i risultati migliori, ma non mi capacito di come Mirko e Theo possano allenarsi duramente insieme nuovamente, quando durante ogni competizione rischiano di venir sospesi per instigare delle risse.

Theo è ambizioso, disposto ad affrontare le dodici fatiche di Ercole romane; posto dinanzi a un muro sbatte le palpebre e lo fronteggia, così che il cemento si sgretoli sotto i suoi piedi e riesca ad avanzare un passo nella direzione vittoriosa. Mirko, invece, brama la vittoria ma cerca continuamente di ottenerla senza molteplici scopi. Sbatterebbe la testa contro il muro che ostacola il suo percorso, grattandosi via la pelle dal nervoso.
Tra i due, Theo ha più possibilità di farcela.

Per quanto riguarda me, non sono un soggetto particolarmente competitivo né geloso dei successi altrui. Sono consapevole di non avere speranze di procedere alle regionali, ma mi alleno duramente per dare il meglio di me nonostante la prevedibile sconfitta. Non auspico a una gratificazione esterna, per cui non cerco di piegarmi sotto sforzi abissali per rendere qualcuno orgoglioso, solo me stesso.

Tiro un gancio destro al sacco, sentendo i nervi delle braccia contratti che caricano la potenza per spostare il sacco, poi sferro un ultimo colpo basso e inizio a ripercorrere i miei errori mentalmente, simulando il tutto con il sudore che mi scende in rivoli per la schiena.

Ho usato poco le gambe durante questo allenamento, e i miei tiri con la sinistra continuano ad essere svogliati e imprecisi, rischiando di lesionarmi il polso molteplici volte. Con la destra la potenza è relativamente superiore, ma mi sono distratto un paio di volte e adesso ho la parte superiore della spalla indolenzita per un movimento errato. Mi sfilo i guanti e li lancio brevemente dietro di me.
Incrocio lo sguardo del coach che supervisiona la stanza, e me lo restituisce carico di disappunto, mostrando il suo dissenso per il poco interesse che sembro nutrire per i miglioramenti.

Alzando gli occhi al cielo, strappo un pezzo di carta e spruzzo sulla superficie del sacco di similpelle del disinfettante, pulendo la zona velocemente per affrettarmi. Raccogliendo le mie cose—il telefono, una bottiglia d'acqua vuota e i guanti—incalzo la strada per gli spogliatoi, che pullulano di voci contrastanti impegnate a conversare sull'allenamento appena concluso e le ragazze.
Il mio armadietto è il più vicino ai bagni, colorato di un blu arrugginito che lo fa cigolare ogni qualvolta viene aperto. Lancio dentro gli oggetti appena raccolti e ne estraggo degli altri, passandomi una mano tra i ricci impregnati di sudore.

Entrando in doccia, il flusso d'acqua è come sempre gelido, facendomi irrigidire i nervi già tirati e cogliendomi alla sprovvista nonostante sia abituato a questa temperatura. 

«Oi, Andrè,» chiama una voce alla mia sinistra. I due occhi verde smeraldo di Mirko mi fissano sotto la schiuma dello shampoo. «Hai da fare stasera?»
Faccio scivolare una mano sulla faccia bagnata dall'acqua per allontanare i capelli. «Sono libero, dove vuoi andare?»
«Ho bisogno di un cazzo di panino, sto morendo di fame. Mi passi il sapone?»
«Tu ce l'hai.»
«Il tuo profuma di più.»

Scuoto il flacone quasi vuoto, sforzandomi di ignorare il fastidio che mi stira i muscoli. «Ma—»
«Porca puttana Andrè, dammelo e basta.»
Respiro a fondo e glielo lancio da sopra il marmo che ci divide, permettendo la vista della parte superiore del corpo.

Mirko Cesari è un ragazzo che eredita, come la sorella, dei geni potenti e scalfiti dalla bellezza.
Ciuffi di capelli neri delineati da due occhi felini, zigomi ben definiti e un naso incurvato che lo grazia di un profilo semi perfetto; dalla pelle abbronzata guizza un tatuaggio di serpente che gli avvolge il braccio sinistro e conclude il suo viaggio in prossimità del polso.
Sicuramente non è stata lui la mia prima cotta, ma ha contribuito notevolmente a diventarla durante il primo periodo dell'adolescenza.

Sono sempre stato convinto che Mirko sapesse della mia infatuazione per lui, nonostante io sia veramente terribile a dimostrare i miei sentimenti—lo idolatravo durante gli allenamenti, arrossivo quando mi cingeva il collo con un braccio introducendomi ai suoi amici, ero gratificato dal fatto che scegliesse di essermi amico non solo perché passavo svariato tempo con sua sorella. Insomma, alla fine della prima superiore era diventato plausibile che ne fossi invaghito anche troppo.
Poi Mirko si è fidanzato e lentamente i miei sentimenti si sono sgretolati, ma continuo ad apprezzare il suo aspetto.

Mirko è consapevole di essere bello, proprio per questo molto spesso noto le occhiate torve che manda a Theo negli spogliatoi, constatando di aver trovato un eguale—se non migliore—nel campo dell'aspetto, che conserva un pezzo stratificante del suo narcisismo.
Il suo carattere è davvero difficile, ma ci conosciamo da così molto tempo che ho imparato a conviverci.

Esco dalle docce prima di lui poiché ci mette un'infinità di tempo nell'asciugarsi i capelli, volendo apparire continuamente al massimo per far voltare il capo alle povere ragazze che incontra per strada. È il tipo di persona che pensa che tutto il mondo sia interessato a lui, servirebbe qualcuno che lo riportasse in sincronia con la realtà dei fatti; Naomi gioca un ruolo decisamente importante in questo, ma l'ego di suo fratello non si affievolisce facilmente nonostante il suo contributo.

Mi siedo sulla panchina negli spogliatoi in attesa che Mirko si sbrighi e smetta di lucidarsi la cresta, cogliendo la prima opportunità in tutta la giornata di controllare il mio telefono.
Passo un tempo veramente limitato sui social, sono riuscito da un anno a disintossicarmi dal procrastinare davanti al telefono, così lo controllo il meno possibile. Ho attivato la modalità non disturbare che esclude dalla sua regola poche persone, così che io riesca a raggiungerle a qualsiasi orario. Sono i miei zii, ovviamente, seguiti da Klea e Naomi—fortunatamente l'ultima non è un amante del contatto telefonico, preferisce conversare faccia a faccia, ma Klea mi manda un'infinità di messaggi giornalmente.

Apro la sua chat trovandomi davanti a una moltitudine di link inviati da lei, e li scarto uno ad uno; spaziano da fotomontaggi di persone che suonano la chitarra a immagini di biblioteche sparse per l'Europa—occasionalmente trovo qualche video satirico, ma la stragrande maggioranza è semplicemente a scopo di svago.

La situazione è un po' diversa quando apro instagram, perché mi ritrovo immediatamente una lista di richieste marchiate in rosso, tra cui nomi spiccano quelli di Manuel e Noah.
Sono entrambi parecchio attivi sui social, inaspettatamente, e Noah ha pubblicato almeno una dozzina di foto della festa di Halloween che inquadrano molti costumi stupefacenti presenti alla festa, tra cui una foto di lui che fa la linguaccia allo schermo, fingendo di scagliare una freccia a vuoto.

È un ragazzo simpatico, Noah.
Assomiglia caratterialmente poco alla sorella Leah, come se fossero due stelle luminose che brillano di luce propria senza troppi sforzi, ma visualmente hanno molto in comune.

«Sei pronto?» Mirko sbuca dall'angolo, raddrizzandosi un giubbotto sopra la maglietta che fa trasparire la sagoma dei suoi addominali.
Annuisco e ricaccio il telefono in tasca. «Casa tua?»
«No. Mi va il Burger King, i miei sono ancora incazzati con me per essere rientrato tardi pieno di lividi la settimana scorsa. E non voglio vedere quella stronza di mia sorella.»

«Naomi ne ha parlato.»
Fa una smorfia accelerando il passo. «Ci fosse una volta che si fa i cazzi suoi.»
«È tua sorella, è normale che si preoccupa per te.»
«Andrè, te sei figlio unico, cosa vuoi saperne?»

È come se mi avesse colpito con una lancia al petto, la stessa che uccise il Pelide Achille. La mia debolezza è questa.

Non nego che avrei voluto avere una sorella o un fratello, qualsiasi persona con cui confortarmi quando la presenza di figure familiari diventava troppo pesante da gestire. La solitudine di rimanere da solo al mondo è difficile da affrontare, così mi sono chiesto spesso se avere un legame sanguigno con qualcuno avrebbe potuto smorzare la sofferenza.
Desideravo una sorella minore, ma poiché mia mamma morì un anno dopo la mia nascita, concepire un sogno del genere sarebbe stato troppo irrealistico. 

Sono realista, è vero. Ma a volte per riuscire a sopportare i pugni improvvisi che ti sgancia la vita, serve inevitabilmente sconnettersi dalla realtà e sintonizzarsi con un mondo canonico che rispecchia le nostre volontà, come per assicurarci che dopo la pioggia arriverà comunque l'arcobaleno.

Stringo la maniglia della porta uscendo dalla palestra, soffocando le assurdità che vorrei dire ma non riescono a uscirmi dal corpo per paura di ferire Mirko, anche se lui non sembra curarsi al medesimo modo del peso delle sue parole.

Si allontana con le mani in tasca, incalzandomi per la mia lentezza, «Vieni o no?»
Ecco perché non potrei mai più avere una cotta per Mirko Cesari: mi distruggerebbe internamente, gradualmente, sgretolando la mia sicurezza in me stesso e rendendomi succube della tolleranza.
Sono abituato a sfogare le mie emozioni nel buio di una camera calda o in compagnia di un sacco di similpelle, perché il macigno dei miei pensieri è troppo invadente per contagiare anche chi mi circonda.

Ma in una relazione bisogna confrontarsi—i problemi di uno diventano carico anche dell'altro così da aiutarsi a vicenda. I miei genitori facevano così, e la felicità impregnava le loro vite nonostante fossero similmente accompagnate da dolori passati.
Mirko sarebbe capace di ignorare deliberatamente la tristezza di qualcuno per proseguire nel suo successo. La mia attrazione per lui era unicamente fisica; sentimentalmente parlando, non gli affiderei neanche un arto.
Non persiste il problema che accadrà nuovamente.

Mi richiudo la porta alle spalle e avanzo nel buio pomeridiano, incapace come sempre di far prevalere le mie opinioni, incassando meccanicamente i colpi della sconfitta.





🦇
ho fatto una scaletta con ogni capitolo e i rispettivi contenuti, spero di rispettarla😭
tra un po' arriva il POV di un personaggio secondario, chissà chi :))

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