DEATH IS A WOMVN

By siabtower

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𝐕𝐎𝐋𝐔𝐌𝐄 𝐈 La storia universale di una donna, una mela e il serpente, la conosciamo tutti; si intreccia... More

TEASER
PROLOGO
ADONIS LEBLANC
LA CADUTA
ADONIS LEBLANC
NON PUOI FERMARE LA MORTE
ADONIS LEBLANC
LA MORTE DISTRUGGE, NON COMPATISCE
ADONIS LEBLANC
IL SUO NOME È OLIVER WALLACE
ADONIS LEBLANC
UN DEMONE TRAVESTITO DA AGNELLO
MICHAEL
LA GRANDE NEMICA DI DIO
ADONIS LEBLANC
ADONIS LEBLANC
BOCCA DI ROSA
ADONIS LEBLANC
MICHAEL
MICHAEL
NON MI RICONOSCO
INCANTO E DISPERAZIONE
ADONIS LEBLANC
ADONIS LEBLANC

TU, UMANA. TU, DONNA

68 31 8
By siabtower

𓆩*𓆪

VIII

Non era giorno né notte.

La luce dell'alba procedeva a brevi intervalli al ritmo del battito d'ali di un albatros.
I suoni a cui arrivavo erano sommessi, fragorosi, smorzati, come se le doglie di una donna si stessero susseguendo sott'acqua.
Sentivo l'acqua ritrarsi ma non temevo di esserne risucchiata, percepivo lo sciabordio della corrente ma non temevo di morire annegata.

Passeggiavo in mezzo ai rottami e ai detriti del globo, ma i miei piedi non erano contusi.
Non vi era alcun limite al cielo né divisione alcuna tra terra e mare.
Mi mossi tra serrature e orifizi a piedi instabili e slittanti.
Non sentivo nulla. Non odoravo nulla. Non vedevo nulla. Non sentivo nulla.
Un corpo debole, trascinato fino alla deriva.

Era lì, in uno spiraglio di luce, che attraversai senza difficoltà prendendo una grande boccata d'aria quando riemersi.
La luce naturale del sole mi scaldò la fronte fradicia, mentre gocce di acqua gelida mi colarono lungo il viso.

Sbattendo lentamente le palpebre, le labbra si aprirono per inspirare a fondo l'aria che ormai non mi faceva più effetto e, ancora prima che il mio corpo si arrendesse, mi avvinghiai ad un bordo spesso strato di ghiaccio.

Annaspai, inumidendomi e strusciando le labbra sul denso asfalto ghiacciato. Una crisi di tosse mi percosse in pieno il costato.
Dovevo assolutamente uscire dall'acqua, prima che andassi in ipotermia.

Con tutte le forze che mi rimanevano, mi issai a fatica sulle braccia, provando a scalciare le gambe dalla superficie dell'acqua; una forza enorme mi investì in pieno petto, come non volesse tirarmi fuori di lì.
Un urlo agonizzante abbandonò le mie labbra intorpidite e strizzai gli occhi, sforzandomi più di quanto il fisico mi consentisse.
Emisi un rantolo di sollievo quando, tirando su le gambe fuori dall'acqua e sbattendo di petto sul manto di ghiaccio, trassi liberazione.

Mi girai a pancia all'aria, percependo la veste che mi si appiccicava come una seconda pelle.
Socchiusi gli occhi, concentrandomi sul sole che emanava un bagliore pittato di arancione.

Un attacco di tosse mi costrinse a girarmi su un fianco, in posizione supina, e dei conati di vomito mi attanagliarono la gola, dove proprio in quel momento il cuore balzò a mille.

Trascinandomi a forza di gambe e gomiti assiderati, raggiunsi la buca di ghiaccio da cui ero emersa e vomitai, ritrovando il fiato.

Solo dopo, le gambe e i piedi nudi mi obbligarono ad accorgermi dove mi trovassi.
I miei occhi percorsero la circolare che, sul fondale di ghiaccio con l'acqua dello stagno ghiacciata, mi avvolgeva, trattenendomi in quella cerchia opprimente.

Dei ricordi sbiaditi abusarono la mia memoria: il giudizio, la lite, l'Arcangelo che mi aveva lasciata cadere...

No. No, no, no.

Una sensazione di terrore irrefrenabile mi fece lampeggiare gli occhi e mi spinse ad esaminare il corpo di cui ero divenuta padrona.
Voltai e rivoltai i polsi magri e impalliditi, le vene in evidenza che formavano una contrapposizione tra il verde e il porpora.

I piccoli piedi, le uniformi unghie e i lividi viola che proseguivano lungo le cosce.
Saggiai il petto, il torso sottile e gli ampi fianchi.

I capelli inumiditi mi ricadevano ai lati del viso ed ebbi modo di notare la nitidezza di un colore più leggero rispetto al mio naturale. Una criniera bionda.
Sbattendo le palpebre, una sfumatura di fumo mi uscì dalle labbra violacee e paralizzanti a causa del freddo.

Sollevai lo sguardo al cielo e riflettei su tutte le sensazioni combinate: mai avevo provato un tale freddo sulla mia pelle, né tanto meno la pungente sensazione di ammalarmi.

Un tremolio mi fece vacillare le mani, le braccia e le gambe.
Fissai ardentemente il cielo.
Spaventata.
Come impazzita.

Urlai nell'odio viscerale, picchiai le mani sul ghiaccio spesso, procurandomi graffi e collisioni alle dita.
Graffiai il ghiaccio, procurandogli dolore, sebbene a sentirne gli effetti collaterali ero unicamente io.

Non riesco a crederci.
Non riesco a credere che mi abbiano preso in giro in questo modo.

Il vagito si riverberò in quello spazio; il suono del mio guaito, di un pianto incontrollato dettato dall'ira, ritornò, beccando la barriera degli alberi che non consentiva alla rabbia di sconfinare oltre.

Ricaddi su me stessa, o sul corpo che non mi spettava, chiedendomi che fine avesse fatto la sua vera custode, e strinsi le dita al polso sinistro, la mano contro il petto.
Mi squarciai le mani, pungendomi con il fuoco continuo del gelo e dell'assideramento.
Che senso avrebbe avuto urlare?

Mi rialzai, asciugai il naso col dorso della mano e rimasi a riflettere sugli alberi.
Un bruciore alla spalla destra mi fece trasalire, e toccai il punto in cui avevo percepito il dolore.
Con la punta del dito accarezzai il rilievo di un'ustione che, seguendone la traccia, formò la spirale.

La mia spirale di condanna.

Lo sguardo balzò al cielo, in giro e sulla superficie ghiacciata.

«Cielo, sto congelando...» Le parole mi si spensero nella gola quando mi accorsi di non avere più energia, ma soltanto una spirale che mi cingeva la parte posteriore della spalla.

Deglutii e progredii a piccoli passi nella direzione del terreno, impedendo che si aprisse un'altra spaccatura al di sotto di me.
A quel punto, sarei morta.

Camminai per alcuni metri, o forse addirittura per alcuni chilometri, ormai non stavo più tenendo il conto dei minuti bensì solo della sopravvivenza sull'orlo di una strada secondaria su cui passavano a stento delle macchine. C'erano alberi tutto attorno e sopra di me.
Il vestitino bianco che indossavo, o che indossava l'ex proprietaria, mi si era appiccicato come una seconda pelle addosso.
I capelli si erano ridotti a un nido di uccelli, il corpo fremeva e le vesciche ai piedi frenavano il passo. Volevo crollare al suolo e svenire.

Mi strinsi nelle spalle, stringendomi il busto per ripararmi dal freddo, ma l'abito era decisamente insufficiente per proteggermi da temperature così rigide.
Deglutii: avevo bisogno di bere.

Stavo attenta a dove appoggiavo i piedi; la luce aveva ceduto il posto all'oscurità notturna e gli unici suoni su cui potevo basarmi per avere una compagnia era il frinire dei grilli dato che, sulla destra, si estendeva una fitta selva oscura.

Il frastuono di un cespuglio mi provocò un allarme e rantolai quando, contenendomi per la sgraziata paura, scorsi un leprotto che ne balzava fuori per rifugiarsi all'interno del bosco.
Sbattendo le palpebre, ripresi a camminare, avvicinando le mani chiuse a conca alle labbra e respirandoci sopra per riscaldarle.

Solo cadendo ci si rendeva conto di quanto fosse arduo rialzarsi in piedi.
La avevo provata a pelle così tante volte da essere sicura che la sensazione non mi avrebbe mai più annientata.
Ciascuna vena del corpo rattrappito affondava nelle radici sottostanti l'asfalto sul quale i piedi mi reclamavano di arrestarmi e dar loro una tregua.
Nel mio corpo da immortale non avrei percepito lo svantaggio.

Qualche passo più avanti, sul ciglio della strada in cui la mia figura si era urtata, scorsi un pick-up in sosta con la punta del muso nella direzione della fitta foresta.
Era il momento in cui gli esseri umani si sarebbero accorti della possibilità di sopravvivere, eppure sapevo benissimo che si trattava di semplici coincidenze.

A ritmo stremato, raggiunsi il pickup in cerca di un riparo in cui trovare un mezzo per mettermi in salvo. Un telefono, una coperta, un po' d'acqua, qualunque cosa.
Il pickup era bloccato dall'interno, tentai più volte di premere la maniglia e sbloccare la porta. Ma nulla. Diedi colpa alla poca resistenza del corpo che possedevo, ma in realtà fu il tipo di situazione termica ad agitarmi.

Mi guardai i piedi, in giro, finché vidi una grossa pietra sufficientemente ampia da servirmi per il piano che intendevo realizzare. Stremata, sprovvista di forze ma con tanta volontà, coi piedi indolenziti che sprofondavano nell'erba rinsecchita in cerca di sollievo, raccolsi il sasso trattenendo il respiro, ritornando dalla parte del guidatore e scagliandolo con forza contro il finestrino.

La manovra produsse un forte schianto di vetro infranto. Parai appena in tempo il viso.
Scacciai i frammenti di vetro dai meccanismi dello sportello e, stando attenta a non lacerarmi la pelle del braccio, lo feci scivolare al suo interno e aprii.

Entrai rapidamente nel pickup, che chiusi.
Aprendo il vano portaoggetti, frugai e verificai se ci fosse stato qualcosa di cui avrei potuto aver bisogno.

In ginocchio, ispezionai anche i sedili posteriori e vi rinvenni un plaid.
Alla vista, gli occhi mi si accesero di una strana emozione e un rantolo di gioia mi graffiò la gola dalla collera. Per l'emozione ero sul punto di scoppiare a piangere.

Arrotolai il plaid attorno al busto, adagiandomi sul sedile del passeggero che mi avrebbe confortato di più del finestrino non toccato. Dei brividi di freddo mi correvano lungo la pelle, l'adrenalina si stava affievolendo al punto da farmi percepire tutta la spossatezza ammassata.

Avevo accolto passivamente la mia condizione; ero ormai troppo stanca e stufa di sbraitare al cielo.
Di fronte alla burrasca, impotente, abbracciai le gambe al petto e presi a coprirmi le dita dei piedi, scaldandole anche con le mani che, a poco a poco, stavano guadagnando tepore e in particolare colorito.

Su quella strada stretta regnava solo il silenzio.
Non si sentivano uccelli e il resto della fauna produrre alcun suono. Pareva che il tempo si fosse fermato e i soffi affannosi che emanavo erano gli unici a mantenermi in vita e a rendermi consapevole di essere viva, dentro ad un corpo sconosciuto e una valanga di domande prive di risposte.

La gola mi scottava.
Avrei desiderato bere una sorsata d'acqua.
Santo cielo! La sopravvivenza umana consisteva in questo?

Cercando di non starci a pensare, addossai la testa allo sportello e la metà del plaid coprì una parte della faccia.

E poi chiusi gli occhi.
Per la prima volta compresi quali fossero i sogni.

Un colpo secco mi indusse ad aprire gli occhi al massimo. Dal lato del conducente con il vetro infranto del finestrino, il volto corrucciato di una donna dall'espressione severa, mi stava fissando.
Puntò su di me la sua torcia, la cui luce intensa contribuì a farmi stringere gli occhi e sprofondare nel caldo manto della coperta, per proteggermi.
Continuando a contemplarmi in modo strano e arcigno, fece scorrere la torcia sui sedili posteriori, tornando poi a rivolgermela contro.

«Sei nei pressi di una zona residenziale. Non puoi accostare qui. Lo sai, vero?»

Scossi la testa. «No....»

«Qual è il tuo nome?» Abbassò la torcia, spegnendo la luce da un click. Aveva un atteggiamento vantaggioso, ma con un certo senso di distacco.

Sbattei le palpebre lentamente, mettendola a fuoco. Come avrei dovuto risponderle? Non sapevo chi fossi, e se avevo assunto il corpo della persona in questione, evidentemente la donna avrebbe voluto conoscerne il vero nome con cui era stata registrata al mondo fin dalla nascita. Probabilmente era la sua famiglia che la stava cercando.

La donna annaspò, accentuando le rughe leggere sulla fronte. Allontanandosi di un metro dal finestrino spaccato, si toccò la spalla destra.
Mossi nervosamente il sedere sul sedile, intravedendo in penombra, uno spillo illuminato dalla luce dei fari della macchina parcheggiata alle spalle del pick-up, sulla destra del torace.

«10.0. Centrale. Sono l'agente Langford. Siamo giunti sul luogo segnalato, c'è un pickup nero modello Ford Ranger abbandonato lungo il margine della strada residenziale; a bordo del veicolo abbiamo trovato una ragazza.»

Era un agente di polizia.
Avrei dovuto essere previdente e capirlo subito.

Nei molti anni in cui avevo vagato sulla terra, avevo incontrato numerosi aspetti: doppiogiochisti, allegri, rabbiosi, imparziali, conformi.
Doveva apparirmi come un gioco da ragazzi, ma era proprio l'ultimo dei miei pensieri; le reazioni che quel corpo suscitava in me erano stizzose: la temperatura si innalzava e si abbassava, il cuore accelerava appena udivo un rumore asciutto provenire dal colabrodo fuori dal veicolo, pretendeva di piangere e io stringevo i denti per non rischiare di bruciare altra acqua in corpo.

La donna lanciò un'occhiata indecifrabile e dal trasmettitore le rispose una voce di donna meccanizzata.

«Qual è il nome della ragazza? È ferita? Avete per caso bisogno di un'ambulanza sul posto?»

Con la coda dell'occhio seguii in controluce la sagoma di un uomo robusto che procedeva lungo il pickup. Il tintinnio metallico di catene riecheggiava nelle mie orecchie a ciascun passo schiacciato sull'asfalto, alla stregua di un ruggito di guerra. L'uomo si sporse in avanti portando il busto a sbirciare dentro il veicolo, e incrociai i suoi occhi assenti, al tempo stesso calmi e distanti, simili a quelli della donna.

Lui, però, non proferì parola.
Rispetto all'agente donna che gli stava di fianco, presentava tratti più marcati, arcate e folte sopracciglia e capelli che sfumavano in un grigio perla.
Ripulì le croste di vetro dallo spiraglio del finestrino, appoggiandoci sopra le braccia. Accavallò le dita e notai che indossava una fede al suo anulare destro.

Strano.

Ma ne capii il senso quando lo sguardo andò a scoprire che l'anulare sinistro era ricoperto da una guaina.

«Non parla. Sembra scossa», ripeté l'agente. «Ma non presenta ferite visibili. Possiamo trasportarla, io e l'agente Robinson, all'ospedale più vicino. Inviate un'altra pattuglia sul posto per verificare il titolare del pickup e il numero di targa.»

Non appena l'agente concluse la comunicazione, i suoi occhi veglianti ripresero a fissarmi.
Ero con le spalle al muro, vittima di cacciatori alla ricerca della loro carne più succulenta.

L'essere un topolino sulla bocca del gatto, quindi, avrebbe potuto portarmi due vantaggi: il primo era quello di accettare la volontà degli agenti, comportarmi in maniera civile e rispettosa di tutte le leggi umane. In fondo, ero un essere umano. Contrariamente alla mia volontà. Ma comunque un essere umano che loro vedevano, ascoltavano e con cui interagivano; non avrei avuto il potere dell'invisibilità a quelle condizioni. Sebbene non l'avessi avuta neanche da morta.

In alternativa, vi era una seconda possibilità.

«Hai verificato se ha dei documenti con sé?» Disse l'agente donna al suo collega, come se ad un certo punto non fossi più un pericolo, bensì una speranza per far ottenere a loro una promozione.

Il collega in questione inarcò le sopracciglia. Appoggiò i suoi luminosi occhi azzurri su di me. La sua espressione si irrigidì, sbuffando.

«Hey, tu. Fuori dal pickup.» Con il gesto stizzito della mano poco gentile, fece segno di raggiungerlo.

Nella strada buia visibile dal parabrezza non c'era una buona illuminazione, eccetto per dei lampioni con scarsa atmosfera.
Avevo memorizzato la conversazione che l'agente donna confabulava alla radio con un altro agente, che in quel punto isolato, vi era una zona residenziale. La possibilità di nascondermi e non essere ritrovata prima del mattino sarebbe stato un rischio che potevo assumermi.

Sciolsi la coperta di dosso e sbloccai lo sportello sul lato in cui mi ero accomodata.
Scivolando le dita dei piedi sull'asfalto, parve di camminare su un pendio spigoloso di lastre di ferro.
Con un gesto chiusi lo sportello e camminando lentamente sul davanti del pickup, i fari abbaglianti della volante parcheggiata a qualche metro di distanza, accecarono di luce la mia figura magra in piena carreggiata.

Una brezza gelida mi costrinse a stringermi nelle spalle e le braccia attorno al busto.
Benché il vestito che portavo si fosse completamente essiccato, l'umidità mi rendeva le ossa indolenzite.

«Hai con te i tuoi documenti?»

Scossi la testa.
Probabilmente erano finiti in fondo al lago ghiacciato.

Il poliziotto sbuffò, sfregandosi la coda del sopracciglio con il pollice. «Sai se la tua famiglia ti sta cercando?»

Volevo saperlo anche io.
Volevo scoprire cosa piacesse alla vecchia proprietaria, che passatempi svolgesse, se avesse avuto paura di ritrovarsi in fondo al lago, o se avesse preferito pianificare la propria fine con un decesso rapido e inesistente, con il sonno.
Incominciai a domandarmi se avesse una famiglia, se qualcuno fosse in pensiero per lei.
Tutto per darmi una spiegazione.

«Aspetta. Che cos'è, quello?» Additò l'ufficiale donna, alle mie mani.

Abbassando lo sguardo, al di là delle nocche irritate e macchiate di sangue, persino le unghie erano morsicate e nelle pieghe contenevano tracce di sangue rappreso.

Le ginocchia degli arti inferiori erano bucherellate, il vestitino bianco conteneva schizzi rossi sull'orlo della gonna.
L'ufficiale si avvicinò, restando ad una distanza studiata, portando la mano sull'impugnatura della pistola stivata nel fodero.
Feci un passo indietro.

«Non ti muovere.»

Rimasi al mio posto, immobile. Indipendentemente da quello che avessi combinato, la mia via di fuga era inevitabile.

«Adesso ti portiamo in ospedale, dopodiché ci segui in centrale e... Ehi!»

Voltai il busto di scatto e cominciai a correre nel senso opposto a loro.
A ogni passo, le gambe tremavano sotto al mio peso.
A ogni respiro, la vista mi si oscurava.

L'adrenalina in circolo era ciò che più mi teneva in piedi, la determinazione a non essere ingabbiata, a rimanere al seguito di estranei, a liberarmi in un mondo in cui la stessa libertà non riusciva a esistere.

Padre, questo è il mondo che avevi immaginato?

Alle mie spalle scorreva un tintinnio metallico; dei passi pesanti percorrevano il manto d'asfalto bagnato, il grido del poliziotto che mi costringeva a fermarmi e, con gli occhi colmi di delirio, a trovare un rifugio.

«Fermati!»

Gettai un'occhiata alle mie spalle: se avessi rallentato per un secondo di fiato, mi avrebbe raggiunto. Stringevo i denti, sforzando il corpo a reagire.
Non mi fidavo. Non avrei mai più avuto fiducia in nessuno.

Anche il Padre mi aveva ingannata.
Gli angeli, i santi, tutti quanti.
Cazzo. Cazzo. Cazzo.
Gli uomini si aspettavano realmente la pace eterna dopo la loro morte?

Inciampai sui miei stessi passi, urtando le ginocchia contro la superficie ruvida della strada che mi portò a emettere un grido acuto in fondo la gola.
Appoggiai le mani per terra, per darmi la spinta ad alzarmi, ma il corpo era più appesantito rispetto a quando l'avevo tirato fuori dalla voragine del lago.

«Lasciami. Lasciami!» Inveii nei confronti dell'agente che aveva allungato le mani per bloccarmi le braccia. Scalciai i piedi in aria, combattendo con tutta la mia forza, ma l'uomo aveva un fisico più forte, più robusto ed era più grosso di me.

Al confronto, potevo considerarmi uno scarafaggio.

«Stai ferma... Ferma! Non voglio farti male, ma a forza di continuare così ti romperai qualche osso.» L'agente trattenne gli esili polsi con una mano, dettando la sua resistenza. La collega ci raggiunse, mentre mi ribellavo a lui, nel tentativo di svincolarmi.

Però l'agente spinse il suo ginocchio nel mio osso sacro, provocando una forte contrattura costringendomi a buttarmi in ginocchio, lasciando che fosse lui a torreggiare sopra la mia schiena.

«Centrale. Abbiamo un 10.95.» Con un lieve respiro, la donna comunicò la notizia alla radio, mentre il peso delle manette contribuiva a far pulsare la mia pelle di tensione. Le chiuse in una stretta dolente avvertendone la consistenza e strappandomi un grugnito.

«Soggetto in delirio. Ha tentato di scappare, ma lo abbiamo arrestato.»

«10.4. Vi attendiamo in centrale.»



Il dolore rappresentava una modalità inedita a cui corrispondesse la passione amorosa.
O, per lo meno, era una ragione per cui volevo motivare la mia prospettiva sugli esseri umani.
I due agenti che mi avevano ammanettato al tavolo della scrivania, una sfilza di agenti impegnati a fare avanti e indietro con cartelline sottobraccio e brocche di caffè, non avevano nemmeno fatto caso a me.
In ogni caso, il concetto di come il dolore corrispondesse alla passione fu dovuto alla circostanza che, nemmeno cinque minuti più tardi del mio arrivo, ridotta a uno straccio, due ufficiali avevano condotto in centrale una coppia di coniugi.

A quel proposito, sembrava che il marito avesse aspramente criticato la cena cucinata dalla moglie e quest'ultima, perseverando nella pazienza, gli aveva scagliato contro il piatto di cibo. Di lì era scoppiata una rissa - più da parte della moglie che era ancora infuriata e strepitava in commissariato - e il marito, sfinito, aveva telefonato la polizia.
Però, chiaramente, la moglie doveva essersi indispettita - o minacciata - nei confronti degli agenti, poiché era stata ammanettata ad una scrivania proprio come la sottoscritta e il marito se ne era distanziato, mettendosi seduto.

«Sei veramente uno stronzo. Mio padre ha avuto ragione quando mi ha detto di pensarci molto bene a sposarti.»

«Dafne, tuo padre è...»

«Fottiti, Brandon! Voglio il divorzio.» Sbottò, picchiando i polsi contro il manicotto. «Domani chiamo il mio avvocato.»

Dovevo essere più stronza di Brandon, perché la vicenda mi ricordava una soap opera spagnola.
E niente poteva essere considerato migliore di una soap opera.

Ad un certo punto, a svegliarmi da un'altra colluttazione della coppietta, fu il sobbalzo di alcune schede sbattute sulla scrivania.
Alzando bruscamente lo sguardo, l'agente che mi aveva arrestato restituì uno sguardo incomprensibile.

«Non sei scappata.»

Lo stronzo mi stava prendendo per il culo.

Stringendo le labbra in una linea retta, sollevai i polsi e le catene cantarono, ricordando che non potevo scappare, dal momento che mi aveva legato per bene.

«Beh, così va meglio...» Sospirò, scostando la sedia e mettendosi a sedere a peso morto. Chiudette gli occhi, rilassando la schiena contro lo schienale. «Sono esausto. Volevo finire il turno di lavoro senza problemi questa sera.»

Se pretendeva che mi scusassi per non avergli permesso di tornarsene a casa, si sbagliava.
La causa scatenante era riconducibile a lui, non a me.
Non ero un essere umano nemmeno da ventiquattr'ore e mi ritrovavo in manette in un commissariato di polizia.

L'agente Robinson mi esaminò tenendo lo sguardo visibilmente stanco e intorpidito a causa delle sacche che aveva sotto gli occhi e dell'apatia che gli si era dipinta sul volto. «Sei di poche parole...» Protese il busto in avanti, intrecciando le dita sui fascicoli sparpagliati. Sotto la debole atmosfera dell'illuminazione al neon, la fede nuziale al dito scintillava. «Capisci la mia lingua?»

Deglutii e annuii.
Da me non avrebbe ottenuto nient'altro. Ma soprattutto, dovevo imparare ad ascoltare il timbro della mia nuova voce.

Le sopracciglia di Robinson si alzarono per effetto sorpresa. «Bene.» Raccolse una cartellina, la aprii e ne trasse un documento. «Il tuo nome è Heather Wallace, giusto?» Lesse, dopodiché tornò a fissarmi.

Heather Wallace.
Presi un po' di tempo nel rispondergli, esaminando il suo volto, poiché avrebbe sicuramente approfittato dell'occasione per stuzzicarmi e mandarmi in confusione; in quel caso mi avrebbe fatto insospettire parecchio.

Annuii, senza pensarci troppo, dopo un istante che mi sembrò un secolo.

«I tuoi genitori risiedono nel Montana. Tu frequenti il college, alla Boston University.»

E ancora una volta annuii.

«Vuoi telefonargli?»

Scossi la testa in segno di diniego.

Bisognava che mi abituassi a molte cose, compresa la questione dei genitori di cui avrei preferito rinviare il più a lungo possibile. Qualora avessi destato sospetti anche nei loro confronti, non avevo la minima idea di cosa mi sarebbe accaduto.
Sarei diventata una cavia da esperimento.

Robinson sbuffò e spalancò le braccia abbandonandosi poi sulle gambe. «C'è qualcun altro che vuoi telefonare?»

Impiegai il tempo a mordermi la carne del labbro, distogliendo lo sguardo e puntandolo sulle manette che avevo ai polsi.

«D'accordo...» Tirò un sospirone. «Allora perché ti trovavi laggiù? Eri con il tuo ragazzo?»

Che Heather avesse un ragazzo non potevo saperlo, quindi scrollai le spalle.

La cosa dovette irritarlo parecchio, perché incrociò le braccia al petto. «Heather sei in una centrale di polizia perché - al di là del fatto che ti trovavi in un'area privata - hai prestato resistenza nei confronti di un pubblico ufficiale.» Spiegò. «Avremmo potuto risolverla pacificamente: tu, io e l'agente Langford. Ma hai preferito scappare a gambe levate come una criminale. Adesso, per favore, puoi dirmi come mai ti trovavi lì?» 

Non sembrava che volesse fregarmi, perché ad un tratto i lineamenti del suo viso si ammorbidirono.
Forse era per questo che il Creatore affermava che loro rappresentavano la stirpe perfetta, e non tanto per le loro caratteristiche estetiche, quanto per il modo in cui si comportavano, assumevano posizioni e si relazionavano.
Sotto questo aspetto erano più bravi di noi.

Slacciai le labbra impastate, ma ci fu un freno che mi trattenne dall'esporglielo.

«Heather.» Sentii, causando un tremolio anomalo delle palpebre, scorgere la figura di un ragazzo irascibile che mi stava venendo incontro, dalla parte del corridoio che immetteva nel commissariato, gli occhi distolti e i capelli scarmigliati.

Robinson si alzò lentamente, allungando una mano per arrestare la corsa altalenante del ragazzo. «Oh, ragazzo, fermati.»

«Non preoccuparti, Robinson, lui è con me.» Intervenne l'agente Langford, apparendo alle spalle del ragazzo, che rivolse un'occhiataccia all'agente, facendogli ritrarre il braccio.

«Che accidenti ci fai qui? Cazzo, stai bene?» Nel frattempo, il ragazzo si era messo in ginocchio ai miei piedi, esaminandomi attentamente il viso con il mento alzato imprigionato tra il suo pollice e l'indice, girandomi la testa a destra e a sinistra.

«Perché hai le manette?» La sensazione di panico nella sua voce mi fece rabbrividire. Nonostante non lo conoscessi, non mi sentivo in pericolo se toccasse ed esaminava la pelle scoperta.

«Toglietele immediatamente le manette. Adesso!» Strillò, alzandosi bruscamente in piedi, ai due ufficiali.

«Agente Langford...» Sibilò Robinson, chiedendo spiegazioni.

Langford sfilò un mazzo di chiavi dalla sua cintura e si avvicinò, introducendo la piccola chiave nel lucchetto delle manette e rilasciandomi.

Provai una sensazione di sollievo quando il sangue circolò nelle vene praticando un massaggio ai polsi.

«È il fratello.» Disse Langford a Robinson. «Facendo delle ricerche sul soggiorno della ragazza a Boston, sono riuscita a rintracciare che anche il fratello frequenta la BU.» 

Così, lui...
Lo guardai con attenzione man mano che mi aiutò a sollevarmi in piedi e sistemò la sua giacca oversize sopra le spalle.

«Ho parlato già con il capitano, possono tornarsene a casa.» Coincidenze, mi ripetei. Si trattava solo di coincidenze. «Ma prima...» Langford si girò verso di me. «Dovrai pagare una multa onerosa, Wallace.»

«Quanto ammonta?» Domandò mio fratello.

«Quanto ad aver evitato una nottata in prigione e il rischio di un processo.»

L'agente Langford replicò con enigmaticità, distendendo le sue labbra sottili in un sorrisetto di soddisfazione.

____________

Nota autrice:
Per ogni confronto e aggiornamento sui capitoli, potete seguirmi sui miei social 🩷.

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Vi aspetto lì, in tantissimə. 🫶🏻

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