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By Chiara_Cantin

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By Chiara_Cantin

Hai visto mai?
Gli occhi di chi
ha perso tutto
Frah Quintale



E' passato ormai un mese dall'ultima litigata violenta fra i miei genitori e ancora riesco a sentire il suono della porcellana che si sfracella sul pavimento e le urla di mia madre che riempiono la cucina.

"Che succede qua dentro?". L'agente sembra essersi materializzato dal nulla, con la sua uniforme blu scuro che contrasta nettamente con la luce opaca della cucina. Ha un'aria seria ma anche un po' scazzata, come se stesse cercando di capire se la situazione fosse davvero così grave come sembra.

Mia madre, con gli occhi ancora rossi e gonfi di pianto, si gira lentamente verso di lui. "Nulla, agente... solo una discussione famigliare." La sua voce trema leggermente, tradendo il tentativo di apparire calma.

L'agente si volta verso di me, cercando nei miei occhi una conferma o una smentita. Sento il cuore battere più forte, mentre cerco le parole giuste da dire. "È vero, signore. Solo una discussione... è tutto finito adesso". Non sono sicuro se sto cercando di convince lui o di convincere me stesso.

Codardo.

Da mesi non vedevo Dylan, l'unico ad essere parte della mia vita da cinque anni. Ci siamo dati appuntamento al solito bar; quello con le luci soffuse e l'odore di caffè che colpisce i sensi olfattivi appena varchi la soglia. Spingo la porta, il suono robotizzato della campanella fa voltare tutti i clienti, ma li ignoro. Dylan è seduto a un tavolino all'angolo, in un punto che sembra paradossale. È il posto più brutto, isolato e avvolto dai rimasugli delle luci calde, creando un'atmosfera quasi oppressiva. Ma è anche il posto più bello, perché affiancato ad una delle finestre più ampie del locale, che permette la vista della città, soffocata dai volti indaffarati e distratti delle persone.

Fissa fuori dalla finestra, con lo sguardo che vaga nel nulla. Appena mi nota, solleva una mano , accennando appena un sorriso. Dylan non è un tipo festoso o pieno di gioia, ma mi piacere per questo. In un certo senso, rispecchia il mio stesso modo di essere.

"Ehi, Dylan," lo saluto. Gli stringo la mano senza troppo entusiasmo. "Dove sei stato tutto questo tempo?", chiedo mente mi siedo al tavolo. "Afghanistan," risponde con la solita impassibilità. "Poi ci siamo spostati in Iran". I suoi occhi sono pieni di una vita svuotata da scenari vissuti, che pesano come macigni. 

"Dovresti cambiare lavoro". Ricordo che tempo fa gli avevo chiesto perché non avesse scelto un'altra strada, e la sua unica spiegazione è stata che 'ne aveva bisogno'.

Mi guarda per un attimo, il suo sguardo serio e pensieroso, lasciando la mia frase in sospeso come eco nel tavolo. "Lo sai com'è", una leggera nota di rassegnazione nella voce. "E tu? Come vanno le cose?", chiede, probabilmente per non entrare nel discorso e va bene così.

"Mia madre continua con la droga," rispondo secco, sostenendo il suo sguardo, freddo e malinconico. "Mio padre sempre la stessa merda." Pronuncio quelle parole con una leggerezza tale che farebbe tremare chiunque. "Mi dispiace, Christopher," disse Dylan con freddezza . La sua voce non contiene nulla di veramente consolante, e la distanza tra noi sembra insormontabile. Le nostre esperienze, così lontane, hanno avuto lo stesso impatto disruttivo. Scavato un abisso che nessuna parola avrebbe potuto colmare.

La realtà si staglia tra di noi, pesante. Dylan non dice più nulla, e io non so se voglio che lo faccia. Entrambi ci muoviamo su un terreno fragile, cercando di trovare un equilibrio tra le nostre storie. "Lo studio?" chiede, spazzando l'atmosfera soffocante. La conversazione, che un attimo prima sembrava sul punto di sfociare in qualcosa di profondo, si è già trasformata in un semplice scambio di battute. "Bene," rispondo brevemente. Osservo i suoi movimenti lenti e precisi. Sposta la tazza del caffè e la gira fin quando il manico è perpendicolare alla sua mano. "Ho conosciuto una ragazza". 
"Come si chiama?".
"Meri".

Fa un cenno con la testa e resta in silenzio. "E' la tua ragazza?", chiede. "No", getto subito. Scambiamo altre chiacchiere, sollevando il temperamento della conversazione.  

Dopo esserci salutati, mi allontano verso la macchina, ma l'attenzione si sposta nella tasca dei pantaloni, che continua a vibrare per le notifiche. La mia realtà torna viva nel subconscio. Entro nel veicolo e fisso ancora un attimo le persone passeggiare davanti lo gli occhi, assaporando la loro realtà.

Derek: qui è di nuovo un macello.

Alzo lo sguardo dal display e, nel riflesso del finestrino, vedo il viso spento, segnato dalla stanchezza. Derek è sempre stato l'ottimista tra i due, quello che ha sempre visto il lato positivo anche nei momenti peggiori. Ma ultimamente, perfino lui sembra cedere a questa realtà che non ci fa sconti. Un senso di nausea mi coglie all'improvviso; quella sensazione di impotenza che ti fa sentire così piccolo e insignificante, incapace di cambiare qualcosa.

Metto via il telefono e accendo il motore. Il ronzio familiare dell'auto riempie il silenzio opprimente nell'abitacolo. Do un'occhiata allo specchietto retrovisore, le occhiaie scure incorniciavano i miei occhi, testimoni di troppe notti insonni. Mi sento esausto, consumato. Ho venticinque anni e nessun ricordo significativo della mia adolescenza o infanzia. Pochi amici, quasi nessuno, e con le ragazze non ci avevo mai perso troppo tempo.

Non voglio tornare a casa. L'idea di affrontare quella solitudine mi schiaccia. Forse qualche drink potrebbe a placare i pensieri, anche se so che è una soluzione precaria; un comportamento immaturo che però, in quel momento, sembra l'unica via di fuga.

E' già calato il sole decido di fermarmi ad un bar. Il posto è disgustoso e puzza di erba, probabilmente la scelta non è una delle migliori, ma questo passa in secondo piano. Siedo sullo sgabello del bancone, ignorando lo sguardo fisso della barista dietro mi fissa fastidiosamente. "Non si vedono ragazzi così carini da queste parti," ammicca, cercando di catturare l'attenzione. Non riesco nemmeno a fingere l'interesse. La guardo senza rispondere, con occhi freddi e distaccati. La sua espressione cambia, e il rossore che le sale sulle guance mi fa capire che non si aspettava una reazione così apatica. "Cosa posso fare per te?" chiede, cercando di recuperare un po' di disinvoltura.

Poggio i gomiti sul bacone di legno scuro e accavallo le mani. "Whiskey, per favore," rispondo secco, distogliendo lo sguardo. La osservo mentre prende il mio ordine, ma non con l'intenzione di flirtare. Sono troppo immerso nei miei pensieri per preoccuparmi di una ragazza.

"Non mi hai detto perché sei qui," insiste, cercando un esca. Sono passati meno di dieci minuti da quando sono entrato in questo bar e mi sto già innervosendo. La ragazza prende il la bottiglia di whiskey e ne versa una quantità imprecisa, nel bicchiere già preparato con il ghiaccio.

"Ho bisogno di bere qualcosa". Rispondo e nel mentre porge il bicchiere davanti a me. Appoggia pesante i gomiti al banco e con movimento volontario cerca di mettere in mostra il suo seno prosperoso spingendo il petto all'infuori. La ignoro. "E come mai?". Le sue parole sembrano da  protagoniste porno. "Se posso chiedere", continua sbattendo le ciglia più volte.
"Problemi". Trangugio il whiskey come se fosse uno shot. "Fammene un altro, per favore". La ragazza non perde tempo e subito dopo il secondo bicchiere era di fronte a me.

Quel pensiero mi fa aumentare il battito cardiaco e non capisco se è l'effetto dell'alcool o è la mia coscienza a provocare quella reazione. Nella mia testa appare il volto di mia madre, segnato dalle botte di mio padre.

Stringo il bicchiere fra le mani lo butto giù con la stessa rapidità del primo e continua ad ordinarne ancora. Ancora. E ancora.

La stanza prende vita e i muri danzano intorno a me, ma mi sento stranamente bene. Con le gambe un po' tremolanti e intorpidite, mi alzo dallo sgabello cercando la forza di uscire da quel locale, dimenandomi nella la folla accalcata del locale.

Una mano mi afferra il polso e mi tira indentro. Perdo l'equilibro ed il locale sembra volare sotto i miei occhi appannati. "Aspetta! Mi avevi detto che mi avresti aspettato". Appena metto a fuoco quel viso oscillante, capisco che quella è la ragazza che sta dietro al bancone. "Vieni". Tira il mio braccio e io la seguo, in un angolo buio del locale.

Mi scaraventa sul muro e sento l'impatto del muro sulla mia schiena. "Ti faccio vedere cosa vuol dire dimenticarsi dei problemi". Le sue labbra sfiorarono le mie, le sue mani iniziano a scivolare lungo le mie braccia e poi sotto la maglietta. Mi accarezza l'addome e sale fino al petto; e poi a scende di nuovo, fermandosi con la punta delle dita dei miei pantaloni.

Qualcosa mi si accende quando iniziai a premere le sue labbra sulle mie, cercando la mia lingua. Mi bacia su tutto il collo e mi stuzzica l'orecchio con i denti. "Cosa vorresti?". Sussurra.

Senza dare risposta, poso le mani sulle sue spalle e la faccio inginocchiare sul pavimento e le una ciocca di capelli fra le mani. La sua faccia mi è poco chiara, ma mi sembra divertita e con tutto quello che hp passato, svuotarmi mi avrebbe alleviato un po' la tensione. Saliva e scendeva con la lingua, lungo la cerniera dei pantaloni e...

"Che cazzo stai facendo alla mia ragazza?". Una mano mi strattona dal braccio e mi allontana dalla ragazza, che scatta subito in piedi. "Volevi fartelo succhiare da lei!?". Continua stringendo sempre di più la presa. "Rispondi!". Il locale vortica attorno alla mia testa . "Me l'ha chiesto lei". Sono sincero, non me ne fregava un cazzo della ragazza. L'unica cosa che voglio è uscire da quel dannato posto.

Senza indugi, l'uomo si fionda sulla barista e gli tira uno schiaffo. "Sei una sporca puttana". E poi un altro, che la fa oscillare e cadere a terra.

La mia psiche impazzisce alla vista di scene di cui vuole sbarazzarsi: di mia madre, a terra, dolorante e del volto di mio padre mentre caricava il suo prossimo schiaffo.
La bile di accumula nel mio pungo e si scontra sulla guancia dell'uomo, che oscilla. Tutto si placa per qualche secondo, mentre lui si sfiorava il volto, scioccato dalla mia reazione. Si gira lentamente e sputa sul pavimento prima di iniziare ad avanzare nella mia direzione.

"Ti vuoi far succhiare il cazzo e poi vuoi fare l'eroe?". Sfreccia contro di me, ma con la forza costruita con gli anni di palestra, lo sopprimo. Un tentavo inutile di difesa, perché la mia testa vaga tra immagini sfocate e l'eccitazione della l'adrenalina, che ormai ha preso possesso di tutto il mio copro.

Mi sferra un pungo nello stomaco e poi ancora un altro, cerco di contrattaccare, ma è tutto troppo confuso; mi accascio per terra su un fianco, uso gli avambracci per comprimi la faccia e tengo le ginocchia rannicchiate, così da evitare colpo allo stomaco. La gente si accalca, riesco a vedere i loro volti accanirsi. Le punte dure delle loro scarpe pungono violente le mie protezioni. Il gusto ferroso delle labbra che sanguinano invade le mie papille gustative. Chiudo gli occhi sofferenti per il bruciore. Un ultimo colpo e  poi, buio.

Christopher!
CHRISTOPHER.

La luce dei lampioni invade la vista ancora affaticata. Un voce sfocata chiama il mio nome, prima da lontano, poi da vicino. La testa si rifiuta di elaborare qualsiasi input arrivi dall'esterno, anche della mano setosa che poggia sulla guancia gonfia. Sono ancora stordito dai rimasugli di urla e botte, ma questo non mi impedisci di capire cosa sta succedendo. Il cemento freddo e umido, il corpo indolenzito, la testa pesante. Sì, ho imparato la lezione: non fidarsi delle ragazze in un bar sudicio pieno di motociclisti dalla barba unta o dalla pancia post parto. 

L'immagine sfocata compie movimenti confusi. Si strofina la fronte, con la stessa mano, incara i capelli dietro alle orecchie violentemente, quasi lacerandoli, con l'latra afferra una scatola nera dalla tasca. Non capisco niente di cosa sta dicendo, ma percepisco chiaramente la parola ambulanza. "No, ferma". Stringo quella mano sottile, così tanto vicina al mio viso da capire che è di una ragazza. Mugugno infastidito, spero che anche questa ragazza non mi porti guai come l'latra. "Ferma?! Stai perdendo sangue dal labbro e sei pieno di lividi!". Le dita delicate si appoggiarono sulla mia fonte, spostandomi il ciuffo verso l'alto. Alzo la testa, costretto a mettere a fuoco il soggetto per evitare altri danni.

Osservo quegli occhi verdeggianti. Lascio cadere indietro la testa, sull'asfalto, provocandomi dolore di cui non ho bisogno. Tra tutte le ragazze che potessi incontrare, proprio lei. Rimugino ancora su chi ho davanti, ritiro su la testa, strizzo gli occhi e mi rassegno alla sua presenza. "Chiamo l'ambulanza". Sbuffo. Le sue dita scollano veloci sulla luce blu fastidiosa. "Ho detto che sto bene". Stringo con la poca forza che mi è rimasta quelle dita affusolate. La scruto fisso, trasmettendo il mio volere, che percepisce. Le guance le si chiazzano di rosa. Lascio la presa, e riaccumulo la bassa forza di volontà. Poggio i  gomiti su pietrine fastidiose, per darmi lo slancio e mi alzo barcollando, con le mani di Meri tese sul petto e l'altra sulla schiena.

Il suo profumo floreale circonda i miei sensi. "Hai bevuto? Ti senti bene?". La preoccupazione nella sua voce sfiora un senso istinto materno, che mi infastidisce. Non rispondo. "E quei lividi?". Volto gli occhi al cielo, e scrollo il sostegno delle sue braccia. Questa ragazza sta diventando un fardello. "Cosa vuoi," le ringhio addosso. Si zittisce, sistema la postura e guarda dritto. Cammina accanto a me, come se mi stesse accompagnano da qualche parte. "Sono arrivato". Il sollievo di trovare la macchina ancora nel parcheggio, senza finestrini rotti, stende una parte dei miei nervi. Un sospiro scivola via, ma la tranquillità dura poco. "Vuoi scherzare?". Meri deve solo ringraziare di essere una ragazza. Appoggi le mani sui fianchi, frugando secca nelle mie iridi come se mi stesse rimproverando. I suoi occhi verdi nitenti, come cerbiatto, ingenui ricercatori di attenzioni, tenta lo spirito di sbatterla sul cruscotto della macchina,  sentirla gemere per la goduria, invece che sentire queste frasi da genitrice incazzata.

"Non ho tempo per queste stronzate". Frugo nelle tasche per trovare il mazzo di chiavi. Le estraggo, ma prima che potessi infilare nella fessura della portiera, la sua mano svelta, le acciuffa. "Non so con chi ti credi di parlare ma butterò queste chiavi nel tombino se pensi che  tu possa guidare in queste condizioni". Con l'indice ad uncino, tiene le chiavi dall'anello in ferro, con attaccato un vecchio portachiavi, e le fa oscillare sopra un tombino. Decisamente, Meri è la persona più snervante che possa essermi capitata in questa insulsa vita. Potrei picchiarla? Ottima idea, almeno posso concludere i restanti anni in carcere, il che non è male come soluzione. Non sono nemmeno sicuro che riescano a trapassare la fessura. 

Sono esausto.

Tento di riprendere le chiavi, con uno scatto, ma i suoi riflessi lucidi sono decisamente più veloci dei miei movimenti. Un sorrisetto soddisfatto le sfocia in volto. "Dormo in macchina, contenta?". 
"Giuramelo". Controbatte subito. Qualcuno mi dia le forze. Sto al gioco, nella speranza di che si levi dai piedi. "Lo giuro".
"Come faccio a crederti?". Le sue risposte immediate logorano le mie fibre neurali. Pensa, come liberarsi di una ragazzina fastidiosa, palesemente ammaliata dal tuo aspetto fisico, e nient'altro? "Dormi con me. In macchina. Sta notte". Faccio un passo nella sua direzione, con il collo piegato, la guardo tanto quanto serve per mandarla in estasi, anche se lei cerca di nasconderlo. Pinzo le punte di capelli con l'indice e il pollice. Sfrego il ciuffo, stimolandole vulnerabilità e incertezza del momento. Il suo respiro si allarga gravoso nell'aria, le braccia cedono lungo il copro. Qualcuno insegni a queste adolescenti, come non farsi manipolare da ragazzi socialmente attraenti, costeggiati da bandiere rosse. Ingenue.

"V-va bene".

COSA!?

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