«Mi rincresce davvero, dottor del Bon, non ho scusanti.»
«Via, Giacomo, poteva accadere a chiunque...»
Il professor Bortolussi sedeva nell'ufficio del preside con la testa tra le mani e il cuore ancora in gola. L'incidente di poco prima l'aveva scosso nel profondo, afflosciando la sua spina dorsale che per quarant'anni aveva saputo tenere dritta e rigida.
«Io invece non capisco come sia potuto succedere – bisbigliava affranto il professore – posso anche capire la vernice infiammabile, ma un fenomeno del genere...»
«L'importante è che nessuno si sia fatto male! – provava a tagliare corto il preside.
Intanto con la coda dell'occhio Amedeo guardava alla porta, dove Selena attendeva fuori spiando nell'ufficio. Bortolussi era dentro da oltre mezz'ora e la cacciatrice sperava di riuscire a parlare con il librario prima che la professoressa di storia venisse di persona a cercarla.
«E poi quell'implosione improvvisa – continuava il professore di chimica – ancora non me la so spiegare...»
«I misteri della natura e della scienza, eh! – diceva Amedeo alzandosi in piedi – Intanto siamo tutti molto grati che tu abbia saputo tenere l'ordine nella classe, la tua tempra fredda ha impedito che accadesse un disastro. Adesso perché non vai a casa a riposarti? Domani, vedrai, è un altro giorno.»
«Sì, forse...»
Così Bortolussi usciva mesto dall'ufficio, quasi nemmeno notò la presenza di Selene che entrava al posto suo. Appena ci fu campo libero, il preside tornò ad adagiarsi sulla poltrona sbuffando di sollievo.
«A essere Franco, signorina Silvestri, avevo sperato che fosse un pôc di plui atenta...»
Quindi Amedeo allungò una mano aspettando a palmo aperto. Non ci fu bisogno di spiegazioni: Selene comprese al volo e gli rese il medaglione maledetto.
«Grazie – disse il preside amabile – se lei è d'accordo questo lo chiudiamo a doppia mandata in una cassaforte e lo gettiamo in fondo al mare.»
Selene, che non era il tipo di persona incline a prendersi le colpe senza colpo ferire, provò a giustificarsi: «Be', intanto ho scoperto dove si nasconde il Benandante, no?»
«Sì... forse – le concesse il librario facendo il pappagallo al professore – Che dice, pensa potrebbe essere Bortolussi?»
«Eccià, non ci scommetterei due lire. Doveva vederlo mentre il vulcano andava in fiamme: una faccia da perfetto idiota, e peggio ancora quando si è spento tutto. Non aveva idea di cosa stesse accadendo.»
«Non sia frettolosa, signorina Silvestri, si ricordi che il benadante potrebbe non sapere di esserlo.»
«Allora diciamo che non so se lo vorrei un Benandante così scemo.»
Amedeo abbozzò a labbra serrate.
Selene proseguì: «Comunque adesso la lista degli indiziati si è ridotta a cinque. Della mia classe agli esami di riparazione c'erano Ania, Antonio, e i suoi due schiavetti: Riccardo e Filippo.»
«E Bortolussi.»
«Sì, "e Bortolussi" – mimò esasperata – ho detto cinque, giusto?»
«A questo punto come intende muoversi?»
«Come sempre. Con un po' di fiuto.»
E battendosi due colpi sul filtro nasale, Selene uscì dall'ufficio.
In realtà era solo una battuta a effetto, perché non aveva idea di come proseguire l'indagine. Di sicuro circoscrivere il numero di sospettati eliminava tanti dubbi inutili, ma si trovava comunque punto a capo: quello che le mancavano erano gli indizi.
Prima di tornare in classe Selene passò di nuovo per la palestra, era libera. Provò a togliersi il filtro nasale, inspirando in cerca di segnali che la illuminassero. Ma cosa sperava di trovare? Se anche poteva sentire una vaga traccia di Ania in un angolo, una di Riccardo in un altro, erano sempre e comunque una goccia di odore nell'intreccio caotico di centinaia di sentori. Ci passavano dai sessanta ai cento alunni al giorno in quella palestra, per sudare, sfiatare e produrre altri gas maleodoranti.
Selene osservava con i pugni sui fianchi la grande cicatrice. Sentiva persino l'odore di canne fumate di nascosto, ma sapeva che non avrebbe mai trovato così l'odore del colpevole. Le serviva una pista, una vera: doveva sapere chi era sceso in palestra quel giorno durante gli esami di riparazione.
Rientrò in classe solo quando la professoressa aveva abbandonato l'aula e girato l'angolo. Sentendo odore di vernice fresca si chiese per quanto tempo fosse stata via: avevano addirittura tinteggiato? I compagni non fecero caso a lei, occupati a scambiarsi le figurine Panini dei calciatori oppure a fare una classifica dei ragazzi con le labbra più belle della scuola.
Selene si diresse al banco e si sedette, e dopo Bortolussi e Amedeo toccò a lei di sospirare. Non era sicura cosa sarebbe stato peggio, che il Benandante fosse l'odioso professore, oppure uno di quei microcefali dei suoi compagni di classe.
S'accorse che il banco era vuoto. "Strano" pensò, non ricordava di aver ritirato le sue cose. Infilò la mano nello zaino in cerca dell'astuccio e del diario... e quando sentì il liquido gelido avvolgerle le dita s'immobilizzò.
Estrasse la mano, ora tinta di rosso vermiglio fino al polso. "Sangue?" le gridavano gli occhi. Non era un'allucinazione: tutto lo zaino ne era pieno, grondante come uno stomaco aperto. Ma un pizzico di razionalità e di fiuto la invitarono a tranquillizzarsi. Era solo uno scherzo; uno stupido insopportabile scherzo che Selene – già sapeva – sarebbe presto sfociato in un pestaggio.
Un ridacchiare asmatico la fece voltare verso i banchi dei colpevoli. Selene scattò in piedi e attraversò l'aula per sbattere la mano concia di vernice sul banco di Antonio.
«Sei stato tu, vero?»
Antonio fece finta di voltarsi verso Miro per vedere con chi ce l'avesse Selene, ma la cacciatrice non voleva raccogliere: «Sto parlando con te, idiota!»
«Io? Perché, ti sembro forse il tipo da "sporcarsi le mani"?»
Riccardo e Filippo trovarono la battuta degna di andare in onda a "La sai l'ultima". Selene concordava, perché quel programma non l'aveva mai fatta ridere.
«Antonio, ti avverto una volta soltanto, se ti trovo ancora che giri intorno alla mia roba--
«Che mi fai, eh? – aveva risposto prontamente il compagno – Mi ammazzi? Eh, è questo che vi eccita a voi serial killer?»
«Ma sei fuori?! Come fai a essere così scemo! – poi agli altri – Era così ritardato anche prima che gli rompessi il naso?!»
Ma Antonio sbatté anche lui una mano sul banco, questa volta con un foglio. Selene la riconobbe subito: era la lista dei nominativi di Amedeo, dove la cacciatrice aveva cerchiato il nome di Antonio e quello dei suoi amici con una penna rossa.
«Ah, sono io che sono fuori, eh? – proseguiva il compagno – Non quella che c'ha la lista con i nomi cerchiata di sangue. Cos'è, è così che ti scegli le prossime vittime, eh killer? Guarda che lo sappiamo perché sei finita dentro, ma a noi non ci fai paura, hai capito? I mostri come te fanno paura ai bambini, non a noi.»
Selene voleva tanto ma davvero tanto realizzare le fantasie di Antonio: si stava immaginando di strozzarlo con la lista di carta, soffocarlo dentro lo zaino sporco di vernice, dargli fuoco ripetendo l'esperimento di Bortolussi. Si era quasi mezza convinta di tornare in ufficio dal preside e afferrare il medaglione maledetto per infilarlo in un certo orifizio oscuro di Antonio.
«Se davvero non hai paura – gorgogliò Selene come una tigre pronta all'assalto – allora perché non ce ne andiamo fuori e vedo di finire il lavoro?»
Antonio scattò in piedi, e anche Selene era pronta; ma Riccardo, Filippo e persino Miro si schierarono insieme all'amico. Quattro contro uno. Selene poteva benissimo mandarli tutti all'ospedale, ma la cosa stava diventando troppo grossa persino per lei.
«Avanti, fai ancora la matta, serial killer – continuava il ragazzo – così questa volta chiamiamo davvero la polizia, e tu te ne torni con gli altri avanzi di galera.»
Selene dovette sostare. Purtroppo Antonio aveva ragione: non poteva ricorrere alle maniere forti. Il compagno si lasciò sfuggire un sorrisetto prima di tornare a storcere la bocca: «Mettitelo in testa: questo posto non è fatto per quelli come te.»
E ciò detto se ne andarono. Non ridevano più, la guardavano in cagnesco assicurandosi ciascuno di colpirla con una spallata mentre la superavano. L'unico che non la sfotteva, in fondo alla coda, era Miro, nascosto dentro la sua enorme camicia di flanella, le orecchie chiuse dentro le grandi cuffie.
«Begli amici del cazzo i tuoi.»
Einstein non l'aveva sentita; si fermò, levandosi una cuffia: «Che cosa hai detto?»
«Lo so perché stai con loro – continuava acida – così ti senti forte, eh. Siete un branco di vigliacchi figli di papà.»
Miro la fissava con il suo solito sguardo di vetro, come se non avesse capito in che lingua parlasse. Ma imprevedibilmente la risposta le giunse come uno schiaffo di rovescio in faccia.
«Io sto con loro perché qualcuno li deve difendere dalle persone come te.»
Quindi si rimise le cuffie e li seguì. Il professore di italiano che entrava in quel momento si vide la carovana di studenti sfilargli sotto il naso diretta nella direzione opposta.
«E voi dove stareste andando?!»
«Al cesso – rispose Antonio per tutti.
Il professore nemmeno ci provò a richiamarli: «Oh, s'impicchino, non mi pagano abbastanza...»
Così mentre l'uomo si accomodava alla cattedra, Selene prese esempio dai suoi detrattori e anche lei uscì senza chiedere il permesso, diretta al bagno delle femmine.
Entrata sbatté la porta, e si diresse al lavandino dove aprì l'acqua a tutto volume e cominciò a sfregare con rabbia. "Le persone come me! – pensava – Quindi adesso sono io la cattiva! Gliela faccio vedere io la cattiva! Che ne sanno loro". La vernice era oleosa e per quanto sfregasse Selene faticava a toglierla. Grattava, aggiungendo sapone e acqua bollente, eppure il sangue finto sembrava grondare ancora e ancora, come se le sue mani ne fossero intrise fin dentro le ossa.
La porta del bagno cigolò lentamente. Selene sollevò gli occhi allo specchio, trovando Ania che l'osservava dall'ingresso.
«Che vuoi? Hai qualcosa da dire anche tu?»
Ania arricciò le labbra docilmente e si avvicinò offrendole un barattolo di acquaragia. Selene l'accettò e se lo versò sulle mani per togliere il resto.
«Lo sai che hanno torto, vero? – le diceva l'amica – Questo posto è per te come per tutti gli altri, non sei diversa da nessuno.»
«No, invece hanno ragione: io qui non c'entro niente. Ragazzini viziati che pensano solo a indossare maglioni Nike e alle nuove scarpe Adidas. Mi sono rotta, rotta di dover sentire inutili chiacchiere su chi si è lasciato con chi, e di persone che si lamentano perché si sono scaricate le pile del GameBoy... mio Dio, sono patetici! Non sanno nemmeno stare al mondo, ma che ne sanno del mondo! Parlano come persone vissute, ma sono più finti dei personaggi delle loro serie tv. Parlano di amicizia e amore, ma che ne sanno loro, che pensano solo a se stessi! Non hanno idea di cosa significa prendersi cura di qualcuno, sacrificarsi per qualcuno. E la sai una cosa? Non è giusto! Io devo lottare ogni giorno e loro vivono in una bolla di plastica... non li sopporto più. Sono tutti uguali, tutti ipocriti, superficiali e uguali.»
«Anche io?»
Selene sussultò. Non intendeva offendere l'amica. Ma era troppo orgogliosa e troppo ferita per ritrarre la lama. Quindi riprese a lavarsi le mani in silenzio senza chiedere scusa. Ania annuì diretta alla porta.
«Comunque ti sbagli su una cosa – le disse la compagna prima di uscire – Antonio forse è un cafone e un presuntuoso, ma ti sbagli sul suo conto: anche lui ha sofferto tanto, e anche lui sa bene cosa significa sentirsi soli a combattere contro il dolore. Poi sono d'accordo, preferisco anch'io quando si sfoga fumandosi una canna invece che prendersela con gli altri--
«Aspetta, che hai detto?»
«... Ho detto che anche lui ha sofferto tanto--
«No, non quello: Antonio si fuma le canne?»
«Oddio, Selene – sospirò l'amica alzando gli occhi al cielo – non ti facevo così bigotta, sì: ogni tanto si fa una canna di nascosto, ma con quello che ha passato gliela possiamo anche perdonare... ehi, dove vai? La nostra classe è dall'altra parte!»
Ma Selene non era diretta in classe, puntava invece alla palestra. Non le servì togliersi il filtro, ricordava bene dove aveva sentito l'odore. Vicino alla porta con il maniglione antipanico c'era una cesta di palloni chiusa con un lucchetto. I palloni erano sgonfi e la cesta lercia; nessuno l'apriva da mezzo secolo, nemmeno un colpo di straccio da parte dei bidelli. Selene fece forza e tirò l'angolo della gabbia di ferro facendola strisciare sul pavimento, quel tanto che bastava. Li trovò raccolti in un angolo dentro un foglio di cartapesta. Mozziconi di drum, e l'odore diceva chiaramente che non erano cartine cariche di tabacco.
Selene rotolava tra le dita un mozzicone consumato, mentre osservava la grande cicatrice. Sul muro. Le salì una vero moto di rabbia lungo la schiena. Altro che ingiustizia.
Sbatté il mozzicone a terra e prese a calci la cartina di stagnola dove erano raccolti tutti gli altri: «Che palle! – gridò frustrata la cacciatrice.
***
Forse a Selene sarebbe andata meglio con Bortolussi! Come farà adesso a legare con Antonio visti i loro trascorsi?
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