Piccola premessa:
Manuel e Simone sono cristiani
dell'Alto Medioevo e, essendo
una ff storica che cerca di
attenersi quanto più può
alla realtà, parlano e pensano
come uomini del loro tempo.
Ogni espressione inerente
la tematica religiosa è da
leggersi come contesto storico
e non vuole essere offensiva
Grazie
TW: violenza,
sangue, morte
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Fallimento.
Era stato questo l'esito del suo inutile tentativo di preservare quante più vite possibili dalla sciagura di quella battaglia perfettamente evitabile. Con le migliori intenzioni aveva adunato la sua armata e l'aveva condotta nei boschi, disponendo i suoi uomini nella miglior posizione possibile prima di prender con sé Matteo ed Aureliano e cavalcar a spron battuto verso gli infedeli, brandendo il vessillo candido che intendeva indicare che minaccia non fosse quella di quei tre cavalieri armati.
Ma quando aveva incontrato il capo di quell'orda d'infami e aveva chiarito le intenzioni sue questi gli aveva riso in faccia, dichiarando che il compito del profeta e la volontà di quell'essere dal nome ridicolo che veneravano non si poteva arrestare per il capriccio eroico di un ragazzino, e lo avevano rispedito indietro con tanto di dardi di scherno in saluto.
Era stato a quel punto che aveva capito di non aver scelta, che se quegli infedeli volevan la guerra allora guerra sarebbe stata, ed era così tornato indietro ed istruito la truppa preparandosi allo scontro e pregando il Dio che su tutti loro vegliava di assisterlo ancora, che aveva fatto una promessa la notte prima e la intendeva rispettare.
I corni eran suonati, le bestie eran fuggite e l'azione era iniziata col minimo preavviso per le forze saracene, più numerose di quanto atteso certo ma anche totalmente disorganizzate in vista di una carica che certo non l'attendevano così d'appresso.
Il vento era sfrecciato attorno al suo viso e all'elmo crestato mentre incitava Nigero al galoppo e l'urto d'impatto era rintronato per la selva tutta quando lo scontro era avvenuto, travolgendo uomini di guardia e gettando per aria armi e volontà, generando lo scompiglio e quel groviglio di corpi e membra che veniva comunemente chiamato mischia.
Da destra, da sinistra, da dietro e da davanti i suoi soldati avevano attaccato, chiudendo in una sacca i saraceni e prendendo a farne strage, infliggendo perdite che sarebbero state ingenti se lo numero loro non fosse stato sì enorme, ma passo dopo passo lo stendardo con le stelle e lo scorpione si faceva avanti, macinando terreno e seguito a ruota dagli altri vessilli dei nobili o dei cavalieri che lo avevano seguito.
Levò la spada e la calò, menando fendenti che spaccavano armature e mietevano vite e sangue ad ogni falciata, Nigero che correva da un lato all'altro della foresta senza temere le punte accuminate delle lance o la pioggia di dardi che pur piovevano su di loro. E come avanzava lui avanzava il suo cavaliere, aprendosi la strada fra le difese nemiche con un colpo o con l'altro fra le grida e la cacofonia della battaglia.
Si contorse e parò il maldestro tentativo di una lancia di disarcionarlo, dopodiché levò lo scudo per fermare lo schianto di un'alabarda diretto contro di lui, dando poi di speroni per allontanarsi dal doppio pericolo e ricaricarsi per poi tornare indietro e finire e l'uno e l'altro avversario dentro ad una spessa nube di polvere. Attaccò ancora, con metodica precisione, recidendo una mano a qualcuno e poi salvando uno dei suoi dalla spada di un saraceno cui spiccò la testa dal collo con un colpo potente, e proseguì dritto davanti a sé, mulinando la lama ormai lorda di sangue a ferire, uccidere e mutilare fino a lasciarsi alle spalle un sentiero di cadaveri malconci che solo dopo aver conquistato la cima di un dislivello si fermò, assestando un breve colpetto per far voltare l'animale e osservare la scena sotto di sé.
La radura sotto al suo sguardo era tale e quale al cortile di un macello, come se un gigantesco terremoto avesse divelto tutte e tutte assieme le tombe di un antico cimitero obbligando la terra a restituire le spoglie di coloro che erano già trapassati e che ora assistevano al fronteggiarsi di uomini armati per uccidere. Fra la distesa punteggiata di rosso ed altri colori intravide Matteo con la sua stella del mattino che spaccava crani e placche prima di finire gli sventurati con un colpo di spada e, più a destra, Pin che dal suo cavallo seguitava a calpestare gli infedeli sotto ai suoi zoccoli ferrati e colpendoli tutti a colpi di una lancia rinvenuta chissà dove. Attorno a loro, intanto, infuriava la battaglia, altri combattimenti singoli che si mescolavano nel mucchio senza lasciar posto ad altro che non fossero strida e clangori mentre spade, asce e mazze alternavano i loro colpi a quelli di più raffinate picche, mazzafrusti ed alabarde oltre che a quella immensa schiera di insidiose armi arabe che i saraceni avevano portato con sé dopo lo sbarco. Di tanto in tanto, seppur in misura nettamente minore rispetto al normale campo di battaglia, qualche freccia sibilava da una parte all'altra, un lancio casuale che qualcuno intentava nella mischia sperando di non colpire un amico nella concitazione. A tutto si mischiavano poi i nitriti dei cavalli e il latrare dei cani, giacché per colmare il divario fra le loro forze e quelle moresche lui non aveva lesinato alcun mezzo e aveva fatto razziare la città di ogni randagio in condizione d'arrecar danno, scagliando quelle belve affamate contro i loro nemici per creare ulteriore caos.
Un grugnito piuttosto sordo attirò la sua attenzione in basso, portandolo a vedere la fonte che lo aveva prodotto. Si trattava di Aureliano, in quel momento impegnato nel difficile compito di fronteggiare tre uomini che lo avevano accerchiato tenendoli lontani a colpi di spada oppure usando la punta accuminata del suo stendardo. Aveva perso il cavallo, constatò, ma se la povera bestia fosse deceduta oppure fuggita o stata lasciata questo rimaneva un mistero che non avrebbe potuto risolvere in fretta, soprattutto perché se Aureliano fosse caduto in battaglia sarebbe caduto con lui pure l'unico elemento che indicava ai suoi soldati dove dovevano raggrupparsi ed era un rischio che non si poteva permettere in quell'istante. Deciso, diede di speroni e aderì al collo del destriero che scendeva in picchiata, concentrando il massimo dell'urto possibile contro uno di quegli uomini armati che fu letteralmente sbalzato per aria nello schiantò, dopodiché si torse come quando nelle giostre prendeva il colpo avversario e infilò la lama dritta dritta nel petto non protetto del secondo assalitore, tirandoselo dietro a strascico prima che la lama si liberasse dall'incastro delle costole. Aureliano, intanto, più pronto nei riflessi di quanto non fosse il suo ultimo assalitore superstite, lo aggredì con spada e stendardo, riducendolo in poco tempo al silenzio.
«Te ne sono debitore» gli disse l'umbro mentre tornava indietro, un occhio su di lui ed uno sullo scontro.
«Avrai modo di sdebitarti quando verrà lo tempo» replicò, alzando lo scudo per parare quello che pareva essere un sasso lanciato da una fionda «Che fine ha fatto il tuo cavallo?».
«L'abbatterono» replicò il cavaliere ormai appiedato «Sono riuscito a scendere in tempo da non rimanervi sotto ma Mirabella ormai è trapassata».
«Me ne dolgo ma sono certo che il castellano di Santa Susanna te ne farà avere uno nuovo se riusciamo a salvare la città» gli mandò indietro, appena in tempo per parare un nuovo sasso e vedere rotolare ai suoi piedi qualcuno che aveva avuto la molto discutibile idea di disfidare Matteo ad una distanza insufficiente da impedirgli di sferrare il suo peculiare colpo con la stella del mattino e farsi sfracellare.
«Cerchiamo di salvare noi stessi, intanto» replicò il ragazzo, già in cerca di una postazione dalla quale si vedesse il vessillo con lo scorpione e le stelle «E di piazzare questo in maniera visibile».
«Monta su Nigero allora» gli disse, levando il piede da una delle staffe per poter smontare.
«Scherzi?» stralunò il ragazzo «E tu come farai?».
«Non posso combattere al meglio delle mie capacità ora che la battaglia è diventata una bolgia, non finché starò appollaiato qua sopra. E non permetterò ad altri di morire per la battaglia in cui io li ho condotti» rispose ancora, smontando definitivamente di sella mente l'animale nitriva «Ma lo stendardo deve vedersi e tu non hai più un cavallo col quale farti vedere. Su Nigero sarai più alto e sarà un bene per tutti».
«Proteggerò entrambi a costo della vita allora» gli rimandò indietro Aureliano, dandosi la spinta per prendere il suo posto in un momentaneo istante di tregua, finendo presto per innalzarsi di parecchi piedi da terra e con il vessillo ben visibile a tutti.
«Mantienilo in bella vista e sarà già tanto» rispose, levando lo scudo a difesa della testa e rigirandosi la spada in una mano «E adesso andiamo a prenderci qualche altro infedele».
Senza indugio si separarono, l'umbro verso la scoscesa dalla quale lui era appena provenuto e lui diretto alla mischia dove si unì agli altri soldati che, probabilmente riconoscendone i colori e l'armatura, presero a combattere e spingere con vigore maggiore di prima.
Diedero l'assalto a testa bassa, un muro umano che si muoveva tutto assieme, spingendo i saraceni all'indietro mentre ordini venivano abbaiati in lingue sconosciute. Saettò a destra e a sinistra, mozzando arti e frenando colpi, i tonfi sullo scudo che si moltiplicavano passo dopo passo informicolandogli il braccio, e rispose ad ogni affondo con un altro, prestando aiuto dove occorreva e dando slancio a coloro che lo seguivano.
Respinse il colpo di una picca e parò quello di una spada ricurva, trovandosi suo malgrado coinvolto in una stasi non dissimile a quella che c'era stata tempo prima durante lo scontro sotto ad Oria, stasi interrotta da un verso strano che l'uomo di fronte a lui emise prima di iniziare a muoversi in maniera incomprensibile sul terreno quasi fosse indemoniato, probabilmente a causa del colpo di stella del mattino che Matteo gli aveva fatto precipitare dritto dritto sulla schiena. Sorrise all'amico e ne ottenne un cenno in ricambio, lasciando al biondo di Palestrina l'onere di porre fine alle sofferenze di quel soldato, dopodiché passò oltre, andando in cerca di nuovi avversari e nuovo sangue da spillare.
Era appena riuscito a rispedire all'inferno l'ennesimo infedele che un pizzico acuto risalì dalla sua spalla sinistra, informandolo suo malgrado d'esser stato centrato da una freccia che infatti vide sbucare fra le piastre dell'armatura. Il cuoio e il metallo ne avevano arrestato la corsa ma non avevano potuto impedire del tutto alla punta acuminata di lacerargli la carne, cosa che lo costrinse a ripiegare in fretta dietro allo scudo per ripararsi e tentare di capire da dove venisse quell'insidiosa minaccia, giustappunto nell'istante stesso in cui un altro dardo rimbalzava sul suo elmo. Vide i due arcieri a poca distanza da lui, riparati solo dalle fronde di un albero nodoso, già pronti a scagliare nuovamente morte dalle loro mani.
Per fermarli avrebbe dovuto raggiungerli, cosa non troppo impossibile per un guerriero esperto come lui, ma questo avrebbe anche significato esporsi agli attacchi provenienti dai lati visto che, col suo manto cremisi e blu e la scia di morte che si tirava dietro, chiunque nell'opposto schieramento provava il prepotente desiderio di abbatterlo. Scioccamente si ritrovò a sentire in quell'istante la mancanza di Simone al suo fianco: il franco non avrebbe mai permesso che quella freccia gli si conficcasse nella spalla e, in quel momento, avrebbe già posto fine alla sventurata esistenza di quei due uomini con due tiri micidiali dei suoi. Avrebbe dovuto dargli ascolto quando la sera prima lo aveva supplicato di portarlo con lui e che poteva essere utile, ora lo capiva, ma in lui era prevalso il desiderio di tenerlo al sicuro da quella che rischiava d'essere una missione suicida e così lo aveva messo al riparo sulle mura, conscio che, fosse andata come fosse andata, lì sarebbe stato al sicuro.
Il pensiero del corvino lo aveva distratto dalla realtà tuttavia, e presto un grido gutturale pronunciato da una voce nota ce lo riporto, pressappoco mentre realizzava che il flusso di dardi si era interrotto. Sollevando lo sguardo verso le fronde vide Giulio estrarre il suo falcione dalla schiena di uno degli arcieri, il secondo che giaceva già ai suoi piedi con la gola tagliata a giudicare dal sangue che allagava le rocce. Da dove il suo servitore fosse spuntato e dove fosse stato per tutto quel tempo non lo sapeva, ma ringraziò ogni Santo in ascolto che fosse arrivato al momento opportuno, rivolgendogli in conseguenza un saluto militare levando la spada, saluto a cui il biondo rispose imitandolo.
Libero dalla minaccia degli arcieri balzò nuovamente fuori dal suo nascondiglio improvvisato e riprese a combattere, presto trovandosi a sciabolare qua e là mentre faceva cadere un saraceno dopo l'altro come oche abbattute in volo.
«'Ahmar!» gridò qualcuno in tono truce, la voce che esprimeva al contempo sia rabbia che un richiamo, portandolo a voltarsi verso la sua fonte per vedere che essa altri non era se non un saraceno dalla lunga scimitarra puntata dritta dritta verso di lui. «'Ahmar!» ripeté di nuovo ripetendo il gesto, tentando palesemente di fargli capire che ce l'aveva proprio con lui e che, probabilmente, quella parola incomprensibile doveva significare qualcosa che aveva attinenza con lui e certo non la traduzione del suo nome.
«'Ahmar!» ripeté per la terza volta, indicandosi stavolta il mantello, segno evidente che quel vocabolo dovesse essere o la tradizione di "cappa" oppure di "rosso".
Sventolando la spada rese chiaro all'uomo che aveva capito che lo stava disfidando e mosse verso di lui, gli altri che facevano loro spazio per un motivo che divenne chiaro solo quando arrivò a minor distanza e riconobbe nei lineamenti dell'uomo quelli di uno dei due comandanti che lo aveva schernito poco prima. Senza attendere ulteriori indugi e sperando di poter concludere quella strage senza ulteriori perdite si fece avanti ed attaccò, sbilanciandosi con tutto il suo peso verso l'arabo che reagì tentando di impalarlo con un colpo preciso della sua scimitarra che, tuttavia, si infranse sullo scudo di legno mordendolo in profondità e spingendo l'uomo per terra. Sferrò un colpo deciso verso il terreno, certo di poter spiccare la testa al comandante nemico con un solo affondo, ma questa sbatté con forza sulla pietra producendo pericolose scintille mentre l'uomo si esibiva in una specie di esercizio di danza da guitto e si rimetteva in piedi con un balzo, tornando a caricare il colpo che dovette intercettare con la sua spada per non esserne decapitato a sua volta. Proseguirono nella loro lotta, scagliandosi addosso ogni mossa del loro arsenale in una bufera di colpi e clangori che occupò tutto il loro mondo e cancellò il resto dello scontro mentre entrambi si impegnavano ad abbattersi l'un l'altro.
Ad un certo punto però la situazione mutò ed un sorriso laido apparve sul viso dell'arabo, sorriso accompagnato da una mossa del tutto inattesa: l'uomo lasciò la presa sulla propria arma e fece un passo all'indietro, dopodiché si lanciò con ambo le mani al suo scudo, appendendovisi e tentando di tirarlo verso terra per chissà quale assurdo motivo.
"Ma che diavolo..." formulò mentalmente, poco prima di percepire alle spalle la minaccia e la subdola strategia messa in atto dalla coppia avversaria, una strategia che dovevano aver messo su sin da principio e che, adesso che era stanco e con tutto il corpo sbilanciato a causa del peso sullo scudo, prendeva la sua fatale e minacciosa forma nella figura corpulenta del secondo uomo che lo aveva schernito, il quale era balzato fuori da Dio solo sapeva quale pertugio armato di un ascione bipenne pronto ad abbattersi sul suo cranio e farne strazio.
In circostanze normali, se lui fosse stato semplicemente un cavaliere, quel piano vile avrebbe sicuramente funzionato, perché una situazione del genere poteva concludersi solo con la morte di chi si trovava nel mezzo ai due fuochi per un motivo o per l'altro.
In circostanze normali appunto.
Perché lui non era un cavaliere come tutti gli altri e, su questo almeno, Ser Albedo aveva sempre avuto ragione.
Perché lui era un Ferro di nome e di sclatta ma era anche un Brandi e i Brandi erano mercenari, arricchiti e ascesi di rango certo, ma pur sempre mercenari. E i mercenari sapevano come cavarsela in ogni situazione, come suo padre aveva sempre sostenuto nelle massacranti giornate in cui lo portava con sé nelle sale più riservate del castello di Nemi, insegnandogli i suoi "sette flagelli", dei colpi di sua invenzione che avevano tutti il nome di un animale che prendevano ad esempio e tutti la medesima ed elevata capacità mortifera. In vita sua si era sempre rifiutato di impiegarli, si era sempre imposto di non ricorrervi mai perché considerati disonorevoli per un cavaliere come lui era, ma di fronte alla prospettiva di rimanerci stecchito - e soprattutto di non poter rivedere Simone a cui aveva promesso che sarebbe tornato - tutto ciò passò in secondo piano.
Rapidamente predispose il corpo, contando pazientemente fino a cinque mentre il saraceno armato di ascia si avvicinava, e quando questi fu a portata di spada mulinò la lama all'indietro per farla poi ondeggiare dal basso in alto e scattare con un colpo potente, superando l'impreparata difesa dell'uomo e penetrando dritta dritta sotto alle gambe del moro, recidendo entrambe le femorali con un colpo netto e scatenando un fiume di sangue così copioso che l'arrogante mussulmano ebbe un collasso quasi immediato e crollò al suolo, venendo colto dalla morte pochi istanti dopo a causa di quello che suo padre aveva chiamato "serpente" per via della rassomiglianza fra l'attacco della bestia e il movimento della spada. A quel punto, forte della sorpresa e deciso a porre fine allo scontro, riportò il peso sullo scudo e il braccio dietro la schiena, respingendo il patetico e disperato tentativo dell'arabo di strappargli lo scudo e finirlo, soltanto per mulinare indietro la lama rorida e levarla minacciosa sul capo di entrambi come il pungiglione di uno scorpione prossimo a colpire. Poi inflisse il colpo e lo scorpione mieté la sua vittima con sublime efficacia, calando nella gola non protetta dell'uomo ed estinguendone la scintilla della vita dagli occhi.
Rimase lì fermo impietrito, contemplando ciò che aveva fatto con il solito miscuglio di sgomento e fierezza, dopodiché lasciò andare la spada ancora incastrata nel corpo del moro e si sporse verso l'esterno per poter gridare a tutti che ambo i comandanti erano stati sconfitti e non aveva senso alcuno seguitare a combattere.
Non gli riuscì tuttavia, perché quando intentò di prender fiato e gridare qualcuno lo batté sul tempo, esprimendosi in quella lingua ignota e scatenando il pandemonio in conseguenza. Se aveva pensato che si sarebbero fermati, se aveva pensato che si sarebbero dispersi e che sarebbero tornati in fretta dalle loro madri tolti di mezzo i due capitani allora aveva commesso un terribile errore, perché qualsiasi fosse l'ordine o l'incantesimo che era stato impartito in quella lingua satanica i saraceni parvero prendere vita come uno sciame di vespe cui era stato spaccato il nido, e come tali presero ad agire, muovendosi tutti e tutti assieme contro di loro, gettandoglisi contro come se l'idea di morire nel più atroce dei modi non li toccasse affatto e, anzi, fosse motivo di orgoglio. Un'orda scalmanata prese a dare loro addosso in ogni maniera possibile con grida di battaglia tutte uguali nel suono e tutte egualmente incomprensibili se non per il comune richiamo alla loro empia divinità, animate da un fervore talmente terrificante ai loro occhi che da solo fu sufficiente a far intendere a tutti che la situazione era mutata proprio nell'istante in cui ritenevano d'averla spuntata, che l'ordine può sempre prevalere sul caos, ma neppure il più organizzato degli eserciti può opporsi a dei diavoli scalmanati che parevano avere l'omicidio-suicidio come unico obiettivo della vita.
E il suo non era nemmeno un esercito. Era al più un'armata, un'armata rinforzata ma ora stanca e troppo disposta su linee lunghe e sottili, un'armata che presto venne completamente sommersa dalla fiumana dei mori e che presto ebbe il proprio fronte totalmente infranto, arretrando pericolosamente in quella che, hai suoi occhi, parve essere una rotta nella quale ciascuno pensava a sé stesso o, al più, a salvare la vita di qualche caro conoscente. Nel mentre il numero dei cadaveri cresceva vertiginosamente e la polvere che si sollevava dal terreno riarso dalla siccità faceva altrettanto, aggiungendo caos al caos.
Invano tentò di liberare la spada dal corpo che aveva infilzato, cercando disperatamente di avere un'arma da brandire quando qualcuna di quelle anime perdute gli fosse venuta addosso, ma al terzo tentativo che andava a vuoto desistette, rassegnandosi all'idea di averla perduta e di dover tornare a recuperarla in seguito visto che dubitava che altri ne conoscessero il valore e si prendessero la briga di liberarla dalla custodia di ossa e carni che la tratteneva. Deciso a non rimanere disarmato raccolse l'ascia bipenne dalle mani inerti del moro, perdendo preziosi secondi nel fissarne l'espressione stupita e sofferente con la quale si era congedato dal mondo, dopodiché brandì minaccioso la pesante arma ed iniziò a colpire coloro che gli capitavano a tiro per aprirsi un sentiero fino alla base dell'altura dove Aureliano ancora stava e che pareva essere in ogni momento più lontana di prima.
Imprecando levò l'ascione oltre la testa e lo calò con forza su non sapeva bene chi, spaccandogli cranio ed elmo al medesimo tempo, dopodiché si esibì in un movimento sferzante che fece inciampare e cadere parecchi dei mori che avevano preso a circondarlo con le loro armi in pugno, uomini che presto finirono sotto agli zoccoli di un cavaliere che, pur non indossando i suoi colori, sapeva essere dei suoi.
«Pin!» esclamò, attirando l'attenzione del caledone che parve meravigliarsi di vederlo lì nonostante probabilmente si fosse lanciato a soccorrerlo proprio perché lo aveva riconosciuto.
«Manuel!» gli si rivolse l'altro «In nome di Dio, che cosa facciamo? Queste bestie paiono impazzite!».
«Ci ritiriamo» gridò, osservando la faccia stralunata che l'atro fece sotto all'apertura dell'elmo «Va da Aureliano e segnalaglielo. Torneremo alle mura e lasceremo che Simone ed i suoi arcieri si occupino di questa marmaglia».
«Ma come sarebbe a dire ci ritiriamo?» berciò il ragazzo, facendo nuovamente muovere la bestia per schiacciare qualche altro moro sfortunato e ferirne un altro con un fendente «E al battaglia? La guerra?».
«Non possiamo vincere qui. Non così. Sono troppo zelanti e disposti all'annientamento perché li possiamo fermare e non sperpererò vite preziose se posso evitarlo» spiegò, colpendo un'altra persona nel mucchio «Ora va ed ordina la ritirata. Presto in nome di Dio!».
«E tu cosa farai?» gli chiese a quel punto, facendo una domanda assai comprensibile visto che era appiedato.
«Correrò assieme agli altri soldati» spiegò «E ora va prima che sia tardi, ci rivediamo dietro le mura».
Con un colpo di speroni il destriero grigio di Pin era di nuovo in marcia e il ragazzo disparve nella polvere prima che il suo mondo venisse di nuovo risucchiato dalla guerra, dal cozzare e dal pungolare delle armi contro di lui e dalle piccole ferite che riportò in quella bolgia infernale nel mentre che tentava di aprirsi la strada per tornare da Simone.
Lottò con la fierezza e la volontà che gli avevano insegnato, lanciandosi al salvataggio di un giovane soldato che stava per finire vittima di un saraceno armato di mazza sulla cui spalla affondò un potente colpo di ascia perdendo la presa su di essa nello schianto.
«Va presto!» ululò sulla cacofonia al ragazzetto, aiutandolo a rimettersi in piedi e beccandosi un colpo di striscio su di un braccio in conseguenza da qualcosa che non comprese.
Rapidamente si voltò per affrontare chiunque glielo avesse sferrato a mani nude, ma presto una pressione potente sulla sua pancia lo svuotò di tutta l'aria in corpo quando il manico di quello che gli parve essere un mazzafrusto gli si schiantò addosso piegando l'armatura in conseguenza.
Boccheggiò, il sapore agre del sangue che già invadeva la sua bocca, e barcollò all'indietro in preda allo stordimento fissando il responsabile che s'apprestava a colpire di nuovo. In un gesto disperato tentò di parare con le mani il colpo successivo ma, così facendo, perse di vista il terreno che franò sotto al suo peso. Riuscì ad intravedere con la coda dell'occhio lo sguardo terrorizzato di Matteo che lo fissava cadere giù, poi precipitò per qualche metro senza riuscire a frenarsi nel giravolta continuo del mondo che gli stava attorno.
Non sentì male dopotutto, non più di quanto non ne avesse sperimentato precipitando da cavallo.
Sentì solo un forte dolore alla fronte e alla tempia e il suono doppio di un corno che ordinava la ritirata.
Dopodiché fu il buio.
*****
"Resta sulle mura. Abbatti chi dovesse scapparci. Guida gli altri in mia assenza. Ci vediamo al calar del sole"
Queste erano le parole che Manuel gli aveva rivolto prima di partire, queste le frasi che si ripeteva costantemente da un tempo ormai divenuto indefinibile, l'arco in mano e il manto stretto attorno alle spalle quasi che potesse illudersi che quelle fossero le braccia del suo cavaliere che lo tenevano stretto e al riparo dalle sue paure, prima fra tutte quella di vederlo tornare indietro sul suo scudo o di non vederlo tornare affatto.
"Resta sulle mura. Abbatti chi dovesse scapparci. Guida gli altri in mia assenza. Ci vediamo al calar del sole"
Continuava a ripetersi, facendo su e giù lungo gli smerli e gettando occhiate a quella foresta vicina e lontana allo medesimo tempo, desiderando solo d'esser lì per vedere, per poter aiutare il suo cavaliere, l'amore della sua vita, a farcela ancora una volta o, se tutto fosse andato male, a guardarlo negli occhi per l'ultima volta e stringergli la mano, che se c'era una cosa che aveva capito su Manuel era che morire in battaglia senza avere la certezza di aver salvato chi era con lui era la sua paura più grande e lui in quel disperato caso gli avrebbe sussurrato che sarebbe andato tutto bene e che sarebbero stati tutti al sicuro, che poteva andarsene senza rimorsi sapendo di aver fatto tutto ciò che poteva ed anche di più.
Ma Manuel quella possibilità gliel'aveva negata.
Lo aveva messo lassù su quelle mura dandogli quel bel mantello rosso che lo indentificava a tutti come il comandante, come la voce del grande paladino assente per imprese di maggior gloria, solo a dirigere gli arcieri, solo a comandare i pentoloni saturi d'olio bollente, solo a governare la pece pronta a piovere sugli eventuali assedianti.
"Resta sulle mura. Abbatti chi dovesse scapparci. Guida gli altri in mia assenza. Ci vediamo al calar del sole"
Seguitava a ripetersi, ma questo non calmava la sua angustia circa ciò che stesse o meno avvenendo da qualche parte in quella cattedrale di foglie e frasche ingiallite dalla calura prolungata che tutto rinsecchiva e rendeva paglia.
Il solo indicamento, lo solo fattore che gli permetteva di intendere cosa fosse in divenire, era il volo tetro e scuro dei corvi, le spettrali creature che avevano preso a cavalcare il vento attratte dall'odore della morte che da quella porzione del bosco avanti a sé per certo ora si levava.
C'era battaglia sotto a quelle fronde, lo scontro frontale fra due opposte idee che confrontavano forze e schieramenti, una battaglia al termine della quale l'Inferno avrebbe accolto gli eroi e i vili e che null'altro avrebbe lasciato dietro sé se non carcasse di cui quei rapaci avrebbero potuto nutrirsi facendo a brandelli membra che un tempo erano state vive e avean respirato la medesima sua aria.
Un sacrificio inutile, un terribile spreco che avrebbero tutti potuto evitarsi se ciascuno si fosse rimasto nella sua parte di mondo senza contendere all'altrui ciò che non gli spettava, prima che i fiumi rossi della guerra prendessero a scorrere e il sangue inzuppasse la terra e le sue crepe.
Una sagoma scura emerse dal bosco, entrando nel suo campo visivo con scarsa furtività, e puntò dritta alle mura.
Non era uno dei loro, se ne rese conto immediatamente, e altrettanto immediatamente la prese di mira e scagliò la sua freccia, centrando in pieno il bersaglio che rallentò la sua corsa prima d'esser atterrato da altre frecce piovute dalle mura.
Alla fine qualcuno era effettivamente riuscito a passare, rifletté, e anche se da solo un singolo uomo non voleva dir niente né significare alcunché strinse più forte la presa sul suo arco, segnalando alla postazione più vicina di fare attenzione.
Passarono i minuti, interminabili movimenti del sole sullo stesso punto indicati solo dal crescere progressivo e appena percettibile dell'ombra della torre che fungeva da gigantesco gnomone della sua immaginaria meridiana, e altri mori sgusciarono fuori dalle frasce, tutti prontamente freddati dopo appena qualche passo fuori dalla copertura della vegetazione. Aveva disposto gli arcieri su tre file consecutive e a spinapesce, come Manuel aveva detto chiamarsi quella formazione che lui avrebbe semplicemente detto a linee sfalzate, di modo che potessero arretrare e darsi il cambio a rotazione dopo che i primi avevano scoccato, così da ridurre ad uno i tempi di ricarica e vomitare frecce a flusso continuato.
Annuì soddisfatto ai suoi arcieri, osservando come molti di loro avessero compiuto progressi immensi da quando li aveva presi ad Oria per addestrarli nell'uso di arco e frecce, osservando giù dalle mura il bosco rinsecchito in attesa di nuovi nemici da abbattere prima che raggiungessero le mura e tramutarli in puntaspilli, e quando altri fecero capolino oltre la linea del limitare del bosco gli prese di mira e gli fermò, tosto punteggiando di corpi crivellati di penne il terreno sotto alle mura.
Stava andando bene.
Tutto si svolgeva secondo i piani.
Manuel sarebbe stato fiero di lui al suo ritorno.
Era questo che si stava dicendo nella mente quando qualcosa cambiò di nuovo nel mondo più in basso, qualcosa che prima lo stupì, poi lo rese perplesso e infine lo terrorizzò a morte, forzandolo a levare una mano per arrestare lo scocchio continuo degli archi verso il basso per non abbattere chi era dei loro.
Balzarono fuori dalla foresta a ritmo disordinato, fanti con cavalieri e uomini armati d'altro ancora, una fiumana di uomini che correvano disperatamente verso la salvezza rappresentata dalle mura di pietra e dalla porta che lentamente si stava aprendo quel tanto che bastava per permettere loro di accedere alla cittadella. E correvano in quella che perfino lui aveva capito essere una rotta disordinata, foriera che qualcosa fosse andato terribilmente storto nella foresta se lo risultato era stato quello di mettere in fuga tutti quelli uomini armati, troppi per pensare che fossero stati semplicemente soverchiati dalla forza dei numeri e fossero stati obbligati a tornare indietro. Ma quale che fosse la diavoleria che aveva spinto quegli uomini consacrati a tornare sui propri passi avrebbe avuto tempo più tardi per scoprirla, perché in quel momento lo cor suo aveva preso a batter più celermente e i suoi occhi a scandagliar la massa umana in movimento alla ricerca dei colori vividi di Manuel Ferro, il cavaliere rosso e blu con la sua armatura scura e l'elmo con le tre punte dorate che cavalcava uno stallone da battaglia nero come la mezzanotte senza luna.
Ma non lo vide.
Non lo vide ed il suo cuore tremò, scuotendosi ad ogni volto o corpo su cui passava e che non riconosceva come appartenente a quella testa ricciuta che era la prima cosa che vedeva al risveglio ed in altri contesti da qualche settimana a quella parte.
Occhieggiò disperato la masnada, cercando sotto elmi ed armature o nei mantelli di coloro che passavano e si infilavano verso la porta, ma nessuno di loro si rivelò essere Manuel.
Scorse Matteo, Pin, Giulio e il castellano della Torre assieme a tanti altri nobili e notabili che eran partiti con loro per difendere quella città dalla furia dei saraceni ma non Manuel e quando al fine vide Nigero emergere dalla foresta ma portando con sé ser Aureliano Chiaravalle con lo stendardo dei Ferro tutto insanguinato comprese la terribile verità, quella stessa verità che la sua mente stava disperatamente tentando di non vedere aggrappandosi alla speranza che magari fosse caduto da cavallo, che magari fosse rimasto indietro per fuggire con la prima linea, che magari avesse lasciato il potentissimo Nigero ad Aureliano perché portasse al sicuro quel maledetto pezzo di stoffa che era sì importante per quelli della sua risma.
Ma la speranza era un oggetto di vetro sottile, e lo schianto con la realtà bastò a mandarla in mille, affilatissimi, pezzi. Quando l'ultimo uomo trovò la via per la porta udì Matteo ululare un ordine terribile, uno che dà solo abbatteva la speranza di ogni supplica a Dio che potesse levare e ultimava quell'orribile disegno che aveva preso forma sotto ai suoi occhi terrorizzati.
«Sprangate le porte!» ordinò «Sprangatele e calate lo legno che le puntelli! Presto per l'amor di Dio!».
E a quel punto capì che fosse finita, che mai e poi mai avrebbe rivisto il suo cavaliere dal bel sorriso, che mai e poi mai ne avrebbe risentito le mani sulla pelle ed il calore dei baci sulle labbra. Che mai e poi mai sarebbe stato completo ora che la sua metà mancante era andata perduta, svanita chissà dove in quei boschi che erano stati da sempre la sua casa e che, invece, adesso erano l'ultima dimora della grande anima che era stata Ser Manuel Ferro da Nemi.
O più semplicemente Manuel, per lui.
Glielo avevano portato via.
Gli avevano portato via tutto.
Tutto.
Glielo avevano strappato via come si strappava la coscia da un pollo arrostito senza chiedere il permesso, senza domandarsi se magari qualcuno avrebbe sofferto a non vederlo tornare indietro.
Senza pietà per nessuno. Senza pietà per lui.
Senza pietà.
Una voragine si aprì nel suo cuore, un buco enorme e vuoto che dipartiva dal suo spirito lacerato e infliggeva dolore, un dolore talmente tanto atroce da fargli tremare le ossa.
E da quel vuoto risalì qualcosa, qualcosa di terribile e familiare allo stesso tempo, qualcosa che esalò dalla voragine apertasi e che si avventurò fuori, strisciando nelle sue vene e formicolando nella pelle, risalendo e ridiscendendo come fosse fumo che tentava di trovare la sua via d'uscita da una bottiglia chiusa. Un fiume nero d'inchiostro traboccò e tracimò fuori da lui risalendo alla testa ed ottenebrandone la vista ed il giudizio, eradicando limiti e soffocando ogni scintilla d'anima che ancora lottava dentro di lui per tenerlo ancorato alla luce.
Ma ogni luce ha la sua ombra ed ogni giorno la sua notte. E come anche la candela più luminosa viene estinta dal soffio di un bambino così l'umanità può esser annichilita sotto al peso del dolore.
L'odio ribolle, corrode e grida a gran voce il proprio disprezzo, ardendo come un fuoco sempre affamato che si nutre di ogni cosa e prima fra tutte impiega la pietà come combustibile.
E la sua era già arsa da un pezzo.
Non c'era stata pazienza, non c'era stato amore, non c'era stata pietà nei suoi confronti al punto che ogni gioia gli era stata strappata dalle mani quando si era illuso di aver trovato il suo posto nel mondo.
E se non ce n'era stata per lui, allora lui non ne avrebbe avuta per nessuno, a principiare da quell'orda di bruti che pretendevano chiamarsi uomini e che sciamavano ora fuori come cani idrofobi dal sottobosco.
Erano una malattia, una pestilenza, una bugia che aveva spinto l'umanità alla guerra e disseminato di morti, feriti, orfani e vedove il mondo che si credeva al riparo, ora lo capiva, ora vedeva chiaramente come Albedo avesse avuto sempre ragione e lui torto a credere che ci fosse una via pacifica per convivere se fosse stata messa da parte la spada e si fosse tentato di legare i fili diversi in un unico arazzo piuttosto che recidere ogni cosa, che Dio era grande e aveva mandato suo Figlio sulla terra a dare quel medesimo messaggio di armonia che Virginia e Uberto avevano applicato da sempre mescolando le loro erbe. Perché c'erano cose con cui non si poteva dialogare al fine, esistevano persone e idee che erano destinate a stare divise per sempre come l'acqua e l'olio perché troppo diverse pur nella loro similitudine per stare assieme, esattamente come accadeva con quella gente dalla pelle scura che era umana in tutto e per tutto come lui e gli altri cristiani ma aveva scelto di servire l'Anticristo in persona.
E allora che l'olio ardesse e l'acqua rimanesse tale, che se c'era spazio solo per uno dei due allora solo la prima era meritevole di esistere per la propria utilità mentre il secondo se lo portasse pure il Diavolo col suo fuoco.
Avevano avuto la possibilità di scegliere e avevano scelto male.
Adesso ne avrebbero pagato le conseguenze.
Si mosse come un automa, guidato dalle mani più che dal pensiero, ignorando gli sguardi di tutti gli arcieri puntati su di lui, vedendo soltanto il braciere che ardeva davanti a lui con le sue fiamme che parevano chiamarlo a guisa di un empio canto.
Sfilò dalla faretra una freccia e la immerse nella pece che ribolliva vicino alle mura in attesa del lancio, portandola poi ad incoccarsi sull'arco, dopodiché la portò al braciere e attese che il fuoco compisse la sua magia, accedendo il dardo che prese ad ardere e consumarsi sul suo stecco con sorprendente rapidità.
Non era una reale freccia incendiaria e non sarebbe andata lontano né arsa a lungo ma a lui non occorreva. Non doveva tirare lontano, gli bastava che non si spegnesse nel volo. E sapeva che non lo avrebbe fatto.
«Questi porci travestiti da uomini son venuti qui col solo scopo di uccidere e saccheggiare come un maiale si rotola nel fango. Troppo a lungo abbiamo sopportato la loro immonda presenza ad appestare la nostra stessa aria. È venuto il tempo di ripulire la vigna» gridò di modo che tutti lo potessero sentire, seppur la voce che giungeva alle sue orecchie non gli suonasse come sua «Intingete le vostre frecce nel fuoco e scoccatele a mio esempio. Che il fuoco piova sulle loro teste e la terra sia mondata dalla loro empia ombra. Che assaggino di nuovo la distruzione che i loro avi patirono quando ebbero l'ardire di sfidare Dio nonostante gli ammonimenti di Mosè. Scoccate!».
E lasciò andare la mano, osservando il dardo sibilante attraversare il vuoto in linea retta solo per schiantarsi nella sterpaglia al limitare del bosco.
Secca com'era a causa del calore fuori stagione presto il fumo prese a levarsi dagli sterpi e fiamme di un rosso scintillante crepitarono in risposta, diffondendosi con diabolica rapidità sulla vegetazione ingiallita.
Ripeté il tutto da capo, stavolta mirando altrove e ottenendo lo stesso risultato e, presto, anche gli altri sulle mura con lui intesero il fa farsi, prendendo ad iscagliar frecce fiammeggianti che tracciavano scie di fuoco nel cielo prima di abbattersi un po' ovunque, sollevando il più delle volte ampie volute di fumo seguite da lingue di fuoco scarlatte. Ben presto il fuoco attecchì alla prima linea di alberi e vegetazione, sospinto dal vento di scirocco che soffiava verso di esso dalla città, ma nonostante questo lui non si fermò.
Incoccò e scoccò, quasi osservandosi dall'esterno mentre lo faceva, facendo piovere fuoco e morte su chiunque avesse la sfortuna di trovarsi sotto la cupola di foglie e rami che era il suo bersaglio, ogni lacrima che gli rigava il viso accompagnata da un dardo che era il suo grido di rabbia verso il mondo e lo sfogo della sua agonia.
Incoccò e scoccò senza ritegno, senza pietà, finanche ignorando il dolore delle dita che la corda segava colpo dopo colpo, finché la faretra non fu vuota, finché non rimase niente a cui appiccare fuoco, finché di lui non rimase nulla se non un guscio vuoto consumato dalla rabbia e ora svuotatosi una volta che l'ira di cui era stato saturo si era rilasciata.
E allora rimase lì, immobile di fronte alla devastazione che lui stesso aveva scatenato, immobile come il suo sguardo mentre la sua mente a poco a poco ritornava cosciente e ricominciava a percepire la realtà.
E rimase lì, una figura ciclopica avvolta in un mantello troppo prezioso per un cacciatore come lui, una statua che si stagliava dinnanzi ad una parete di fuoco che ruggiva disperata e s'innalzava a consumare tutto ciò che vi si trovava d'innanzi, levando fumo e fiamme contro al cielo fino a rubare perfino il sole al mondo fra le urla di dolore e paura che provenivano da dietro quelle fronde sempre più prossime alla cenere, anime disgraziate condannate per sua mano a patire la peggiore delle pene.
E il fardello della coscienza gli ricadde addosso, precipitò su di lui con tutto il suo peso, portandolo a un nuovo schianto.
E pianse Simone. Pianse l'amore che aveva smarrito e quell'ultimo frammento di umanità che, nel nome di Manuel Ferro da Nemi, aveva appena soffocato.
*****
Un nauseabondo odore di fumo e di cenere riaccolse il suo ritorno al mondo, portandolo a tossire ripetutamente mentre rimetteva a fuoco la realtà che lo circondava e le sensazioni fisiche tornavano a farsi sentire sottoforma di stanchezza, dolore e, soprattutto, un prepotente bruciore in più punti del corpo.
Quando gli occhi si furono riaperti del tutto poi immediatamente gli venne l'idea di sigillarli di nuovo, che tutto voleva tranne che rimirar l'Inferno in cui s'era ridestato suo malgrado a castigo delle colpe che doveva aver commesso in vita. Quel che aveva visto, infatti, non poteva che esser il crudele reame di Lucifero, l'odioso regno degli angeli ribelli ove si faceva strazio dei peccatori, perché come glielo avevano sempre descritto e così era: un mondo in balia delle fiamme dove s'udivan grida nelle lingue più varie, strida di dolore e paura accompagnati dal crepitio esasperato del fuoco che consumava tutto quanto e dal calore insopportabile che fondeva il metallo alla carne, crepitio intervallato qua e là da versi bestiali e sagome dalle ombre deformi che si muovevano tutto attorno in maniera convulsa.
Terrorizzato alla sola idea di trovarsi lì fece la prima cosa che gli venne a mente, rannicchiandosi con la testa nascosta sulle ginocchia, gettando via l'elmo che gli stava bollendo la testa col suo metallo incandescente, cercando di capire cosa avesse fatto di tanto esecrabile agli occhi di Dio stesso da condannarlo allo strazio eterno nonostante il Papa stesso avesse concesso l'indulgenza plenaria a chiunque fosse tornato o morto per la causa di Bari.
Turandosi le orecchie come poteva ripercorse la sua vita fino a quando rammentava, cercando la ragione per la quale fosse finito lì, ma non trovò alcuna ragione valida per spiegarselo.
Aveva ucciso, certo che lo aveva fatto, e sulle sue mani stava probabilmente più sangue che su quelle di molti altri. Ma lo aveva fatto in guerra e nel Suo Nome, non poteva essere quella la ragione.
Aveva amato Simone, ripetutamente e con convinzione, e quella poteva certo essere una ragione per esser confinati all'Inferno, ma anche quel peccato - sebbene per lui non fosse tale - sarebbe stato lavato via dall'indulgenza concessa oppure essa non sarebbe stata plenaria.
Aveva messo in discussione le decisioni dell'Imperatore, c'era del vero anche in questo, ma in fin dei conti chi non avrebbe discusso ordini stupidi?
Infine gli sovvenne in mente che, forse, era stato liberare Ivonora il problema e, ancor prima di ciò, stabilire d'esser disposto ad accettare pure un patto con Satana in persona pur di vedere Simone tornare a deambulare e sorridergli come al solito.
Di tutte, quella era la ragione che più lo preoccupava, perché effettivamente e come diceva Albedo il mercanteggiare con Lucifero era il peccato più grave che si potesse fare contro Dio, un Dio che, per quanto misericordioso, non avrebbe potuto perdonare quel genere di colpa neppure con mille e più indulgenze, specialmente considerando quali erano state le conseguenze di quella scelta infame. Ma se per davvero la ragione era quella, se veramente era a causa di quel momento di disperazione che era stato condannato, allora avrebbe accettato la pena senza remore, sapendo che quell'eterna dannazione aveva permesso di mantenere viva un po' di luce nel mondo, anche se lui ne aveva potuto godere per poco.
Il fumo attorno a lui aumentò, portandolo a tossire di nuovo e ripetutamente, almeno finché un dolore acuto non risalì dalla sua pancia, un dolore familiare e non dissimile a quello di un perforazione. Trovando il coraggio che gli era rimasto riaprì le palpebre, osservando l'origine di quel dolore e quasi si stupì quando, come fosse il dono gentile di un angelo, i suoi occhi incontrarono ciò che rimaneva di una freccia spezzata, le bianche piume che prendevano dalla coda scintillando candide alle luci dei fuochi.
E quel particolare rimise in moto la sua mente obnubilata dalla paura, perché all'Inferno ci andavano le anime e non i corpi, ragion per cui il dardo che aveva chiesto a Simone come omaggio avrebbe dovuto restare con le sue membra sulla Terra e non seguirlo fin laggiù. Ma se il dardo con le sue piume di cigno c'era ancora allora lui non era affatto morto come riteneva e quello che bruciava attorno a lui non era l'Inferno ma la foresta nella quale aveva combattuto per tutto il pomeriggio, appena prima che la terra gli franasse sotto i piedi e andasse a sbattere contro il tronco dell'albero cui ora si appoggiava a tutta velocità per cadere poi in deliquio. La ragione per cui il mondo stesse bruciando gli era sconosciuta, ma la certezza di esser vivo rimise in moto il suo spirito, portandolo a ragionare in fretta per cavarsi fuori da quella spiacevole situazione prima che il fuoco ed il fumo avessero il sopravvento su di lui, dacché se era ancora in vita allora aveva una promessa da onorare, una promessa che lo attendeva sulle mura di una città non troppo lontana avvolta nel suo mantello e con l'arco ben stretto nella mano.
«Devo alzarmi» mormorò, pentendosene amaramente l'istante successivo quando la bocca si riempì di cenere e fumo che cadevano da ogni dove a mano a mano che il fuoco reclamava il suo pasto consumando indistintamente uomini e piante.
Il primo tentativo si risolse in un fallimento, dacché la testa prese a vorticare e lui si ritrovò tosto per terra. Il secondo non differì molto da primo, anche se in quel caso furono le gambe a non reggere il suo peso e a farlo rimpiombare giù. Al terzo gli riuscì finalmente di mettersi in piedi e, barcollando, tentò di tornare sui suoi passi per come poteva, addentrandosi nella boscaglia ardente verso quella che credeva essere la direzione giusta.
Proseguì a tentoni in quel muro di fuoco, barcollando a destra e a sinistra con la testa che gli girava e il solo, potente desiderio di vomitare, la gola riarsa come chi non beve da mesi e la pelle a bollire, lottando coi capelli che gli si appiccicavano ovunque sulla faccia e con le lacrime che i suoi occhi producevano e gli annebbiavano la vista. Ad ogni passo l'odore di bruciato nelle sue narici aumentava e con esso il peso che avvertiva sul petto, un peso associato ad una nuova sensazione che gli era ben nota, quel profondo desiderio di dormire più adatto alla fase successiva di una battaglia che ad una fuga da una brutta morte.
E passo dopo passo quel desiderio si faceva più forte, invitandolo a lasciarsi andare e condurre verso il mondo dei sogni dove il fuoco non esisteva e, se esisteva, non nuoceva a chi vi giocava, desiderio contrastato solamente dall'altrettanta feroce volontà di tornare da Simone il più in fretta possibile.
"Devo... Tornare... Da lui" si disse mentalmente, obbligandosi a fare un passo ancora verso le fiamme, prendendo a calci un cespuglio mezzo carbonizzato per aprirsi la strada.
"Ho promesso... Che sarei... tornato" continuò a spronarsi, sbandando come un ubriaco da un lato all'altro perché gli pareva di vedere il terreno sciogliersi sotto ai suoi piedi.
"Mi aspetta" proseguì, poggiandosi ad un tronco dalla chioma in fiamme, cedendo finalmente alla tosse che lo stroncò e lo costrinse a ripiegarsi per terra alla disperata ricerca d'aria "Io ... Devo... Farcela".
L'abbraccio del calore divenne più stretto che mai, una spirale bollente che gli fece girare la testa e gli rese impossibile rimettersi in piedi. Alle sue spalle si udì un sonoro crack e poi il rumore di qualcosa di grosso che cade da una considerevole altezza per andare a schiantarsi, segno più che mai evidente che il fuoco avesse vinto la sua battaglia contro ad uno dei rami di un albero vicino, e una pioggia di scintille lo raggiunse, consumandosi sulla sua pelle in piccole bruciature dolorose.
Il dolore gli diede la spinta a ripartire, mettendo tutte le sue forze restanti nell'unico obiettivo di portare la pelle a casa, e così prese a gattonare a mo' di un cane per allontanarsi ancora di più da quell'inferno e dai suoi fumi mefitici, rinunciando pure alla dignità d'essere umano pur di conseguire il suo obiettivo. Saccheggiò le energie dai quattro angoli della coscienza, diede fondo ad ogni forza gli fosse rimasta, e quando non bastò più prese a strisciare pur di non fermarsi, che Simone lo attendeva e aveva già perduto una volta la persona che amava per poter accettare che ciò avvenisse di nuovo.
Strinse i denti e serrò i pugni, trascinandosi dietro il peso del suo corpo chiuso nel ferro protettivo, muovendosi nella direzione di quella corrente d'aria fresca che lo aveva raggiunto come fosse una carezza gentile, sforzandosi in ogni maniera di accellerare il movimento nonostante ormai il peso su di lui e sulle sue palpebre fosse divenuto insostenibile e alla fine, a forza di braccia, gli riuscì di tirarsi fuori dalla selva rovente, sbucando fuori e rotolando lontano solo per trovarsi a fissare il cielo contro al quale s'assiepavano nembi scuri di alberi antichi che le fiamme andavano annichilendo.
Si concesse di chiudere gli occhi un istante soltanto, quel tanto che bastava a riprendere un poco le forze, ma quando il peso sulle sue membra si fece maggiore comprese quanto ciò fosse stato un errore e lottò per rimettersi in piedi di nuovo, in equilibrio sulla punta di uno spillo ma ritto nonostante il mondo gli risultasse a pallini.
Chiedendo al suo corpo tutto quel che restava si sporse più avanti, osservando il paesaggio per capire dove si trovasse e amara fu la sorpresa nel vedere avanti a sé nient'altro che una vallata con erba alta alla vita e non le mura grigie alle quali aveva intentato di fare ritorno. Doveva essersi sbagliato, realizzò, doveva aver perso l'orientamento ed esser giunto in un posto diverso, che senza Simone a fargli da guida nei boschi lui era completamente cieco e la Vita ci aveva tenuto a dimostrarglielo facendolo finire chissà dove quando solo sperava di poter trascorrere la notte ormai incipiente fra le sue braccia bianche per dimenticare tutto quanto ciò che era accaduto quel giorno.
Ma tornare indietro era impossibile, era un piano suicida che non aveva intenzione di perseguire perché era certo non sarebbe sopravvissuto ad un secondo giro di giostra in quel mondo di fiamme e calore, così si costrinse a girarsi di nuovo a fissare l'orizzonte, pregando di trovare qualcosa, un qualsiasi elemento che gli permettesse di capire dove stesse nel mondo e, con sua somma sorpresa, Dio stesso doveva essere in ascolto in quel momento perché i suoi occhi intercettarono la sagoma di un uomo, mercante o monaco che fosse non poteva dirlo, che conduceva un carro poco più in basso lungo quello che, anche se non gli riusciva vederlo, doveva essere un sentiero ritagliato fra i campi.
«Ehi voi!» gridò col fiato che gli rimaneva in gola «Buon uomo dico a voi! Qua, d'innanzi il vostro sguardo!».
L'eco della sua voce rimbalzò stranamente attorno a lui, portando l'uomo a fermare il carro e voltarsi attorno in cerca della fonte a giudicare dal modo in cui la sua sagoma si muoveva.
«Si parlo con voi messere» urlò ancora per farsi trovare, riuscendo al fine nell'intento «Esatto messere, sono qui. E necessito dell'aiuto vostro in nome di Dio».
L'uomo parve recepire ancora una volta il messaggio e fece per far muovere la bestia nella sua direzione, principiando a muoversi in maniera strana nei suoi confronti come stesse facendo degli scongiuri.
«No, no. Non mi temete. Non sono un demone dell'Inferno anche se ciò può parervi» urlò ancora, facendo un altro passo avanti e tenendo lo sguardo fisso sulla sagoma per metterla a fuoco «Sono un uomo come voi. Sono un cavaliere ordinato in cerca d'aiuto».
L'uomo continuò a dimenarsi, aumentando i movimenti ad ogni suo passo e aggiungendo frasi in latino che a lui risultarono tanto sconnesse quanto incomprensibili visto che suo padre non aveva ritenuto utile farglielo apprendere se non per quanto concerneva le faccende di Chiesa per ovvie ragioni politiche, così che alle sue orecchie risultava comprensibile solo "Domine" e "desinere".
«Non desidero arrecarvi offesa» insistette lui avanzando ancora, l'eco sempre più misteriosamente forte attorno a lui e la tosse che riprendeva «Ve ne prego. Mi necessita solo lo vostro aiuto e ...».
E troppo tardi capì che l'uomo non stava affatto tentando di esorcizzarlo ma, piuttosto, di indicargli di smettere di venire avanti. Ottenebrato dal suo obiettivo e dal fumo, infatti, non si era reso conto d'esser spuntato su una specie di promontorio né, tantomeno, che l'uomo non gli risultasse minuto a causa della distanza ma per via dell'altezza.
Il suo piede affondò nel niente, il corpo tutto sbilanciato in avanti nell'eccesso di sicurezza di chi ha fatto male i suoi conti, e così andò giù precipitando peggio di prima per molto più di qualche piede, ruzzolando e sbattendo arti e capo dappertutto nella caduta fino a che non si arresto di nuovo nell'erba alta che si chiuse su di lui come un sudario rinsecchito.
In un primo momento fu ancora in grado di vedere il mondo che lo circondava con i colori e le sue forme, poi soltanto le ombre.
Infine, il suo mondo diventò buio.
--------------------------------------Angolo Autore---------------------------------------
Ehmmmm buongiorno a tuttə e ben tornati amici e amiche della ff medievale. Vengo in pace sventolando la bandiera bianca quindi non tiratemi addosso le sassate che sono un'anima sensibile pliz🥺
Lo so, lo so. La stilettata alla Chronos è stata un colpo basso ma suvvia non potevate davvero credere che, dopo aver richiamato i figli romani, io non avrei richiamato in qualche maniera pure i figli storici da cui tutto è partito e quindi eccoci qui, con Simone tornato all'inizio della sua storia e Manuel disperso chissà dove per un ferragosto di serenità (ma tanto lo sappiamo tutti che è una festività inutile, fa solo abbastanza sorridere che in Usque ad Finem il dramma avveniva a Ferragosto e qui nella FF medievale è avvenuta la stessa cosa ma col calendario reale 💀) .
Ad ogni buon conto su col morale, il peggio è più o meno alle spalle adesso e ci attendono 3 bei capitoloni che per la storia sono fondamentali. È tempo che ripigliate la lista dei personaggi che vi feci all'inizio, perché da mercoledì prossimo grossomodo l'ultimo dei personaggi che vi avevo descritto arriverà per crearvi uno di quei plot twist che se ve lo siete immaginati siete stati molto bravə (a proposito, avete fatto attenzione a certe cose in questo capitolo come vi avevo suggerito la scorsa volta? È stata scritto un indizione 🤭) .
Venendo al sodo, avendo separato i nostri due beniamini siete chiamati ad una nuova scelta, ossia stabilire quale pov leggere prima e quale dopo visto che i prossimi due capitoli sono fatti così. Troverete dopodomani il sondaggio su Twitter, l'hashtag è sempre il solito, per cui se vi va passate a dire la vostra opinione (come sempre non cambia nulla ai fini della storia cosa viene prima e cosa no).
Grazie come sempre del vostro interesse e del vostro affetto e per qualunque domanda o riflessione mi trovate su Twitter, cc, tellonym e chi più ne ha più né metta.
Ci vediamo mercoledì prossimo con chi dei due lo deciderete voi. Vi avviso però: non posso più esimermi dal mettere le citazioni ed i riferimenti religiosi e siccome immagino che, a parte me e pochi altri, non abbiate una laurea in materia ditemi se avete bisogno che usi l'angolo autore per chiarirvi alcuni riferimenti che potrebbero essere meno immediati di altri🤗.
Ciò detto vi saluto per davvero o finirà che l'angolo autore diventerà più lungo del capitolo stesso💀
Alla prossima,
-RavenAlE-