Canzone: Necromance Theatre, Pinkly Smooth
Per la terza volta, si trovava in ospedale nel giro di pochi giorni. La prima volta vi era andato per fare le analisi, la seconda per ritirare i risultati e la terza... bé, poteva descriverlo proprio in quel momento.
Era disteso su un lettino di metallo freddo e duro e la cassetta radiografica, collegata al tubo a raggi x, accarezzava ogni centimetro della sua pelle. Non letteralmente, non c'era alcun contatto fisico tra lui e l'aggeggio, ma sapeva che i raggi riuscivano ad entrare fino nelle ossa.
Erano alla ricerca di metastasi. La parola era brutta quanto ciò che rappresentava; per lo meno, "leucemia" era una parola dolce, scivolava tra le labbra con semplicità anche se era una parola infelice.
Metastasi, invece, era tremenda. Tremenda come il materiale famelico che rappresentava. Una metastasi mangiava gli organi, le ossa, tutto finché non arrivava al cervello ed uccideva.
Aveva consultato un opuscolo informativo, prima di spogliarsi per sottoporsi alla radiografia, e c'era chiaramente scritto che i fumatori rischiavano di esserne affetti maggiormente rispetto ai non fumatori.
Tipico, no?
A volte si chiedeva perché avesse iniziato a fumare e con chi aveva iniziato. Perché non si inizia mai a fumare da soli, lo si fa per dimostrare qualcosa.
Poi i ricordi lo assalirono, ricordò di quanto fosse eccitato Ray quando gli mostrò un pacchetto di Marlboro rosse; il fumo che gli riempì i polmoni e che lo fece tossire come un dannato dopo il primo, fatidico tiro; la voglia di riprovare per essere sicuri che facesse davvero così schifo e scoprire, subito dopo, che non era una cosa malvagia.
Che stronzata! Avrebbe dovuto sapere che le sigarette, il fumo eccessivo, non avrebbero aiutato la sua situazione già precaria. E, sicuramente, poco importava il fatto che non fumasse da quasi un mese: aveva compromesso le cellule dei suoi polmoni nei due anni precedenti. Forse anche i fumi delle vernici che aveva usato non erano state d'aiuto...
Finì le radiografie ai polmoni, le ultime, per quella giornata, e si lasciò cadere su una delle sedie di plastica rossa della mensa self service dell'ospedale.
Donna si era già accomodata e gli aveva preparato un vassoio con una porzione di carne (troppo cotta, per suo dispiacere), fagiolini e una passata di mele (omogenizzato spacciato per frutta).
Nonostante avesse la nausea, ingurgitò ogni elemento presente sul vassoio e si sforzò per tenerlo giù.
Mikey si era rifiutato di accompagnarlo e Frank aveva dovuto organizzare un po' di cose per l'università, per cui erano solo loro due. Ed era strano.
La donna mangiucchiava senza interesse la sua insalata. Anzi, a dire il vero, a Gerard sembrava che sospettasse che fosse piena di insetti velenosi.
-Come sono andate, le radiografie?- chiese dopo aver schiacciato uno spicchio di pomodoro con la forchetta. Il succo rossiccio era colato sulle foglie di cicoria superstiti e i semini si erano appiccicati sulle pareti del piatto.
-Dolorose- dovette confessare. -Ho passato tutto il tempo sdraiato su lastre di ferro e cose simili, per cui non è stata esattamente una cosa confortevole.
Sua madre annuì con fare serio.
Voleva solo andare a casa e prima di mezzanotte, possibilmente con buone notizie, tipo: "Ci siamo sbagliati, non sei malato di leucemia!" o "I tuoi polmoni sono a posto, ragazzo, non temere".
Donna arrotolò una ciocca di capelli scoloriti attorno al dito. -Con la chemio sarà ancora peggio... o vuoi provare con la radio?- fece scivolare la buccia del vegetale dall'altro lato del piatto. -Di solito raccomandano un ciclo di chemioterapia e poi di radioterapia, ma è tutto nelle tue mani...
-Potrei provare a farmi asportare la spina dorsale- ridacchiò.
La battuta non piacque per nulla a sua madre, che lo fulminò con un'occhiataccia che avrebbe potuto raggelare anche Lucifero in persona.
-Scherzavo- si difese.
-Non farlo più.
In normali circostanze avrebbe alzato gli occhi al cielo volentieri, ma in quel momento era talmente distrutto che non era nemmeno sicuro di essere in grado di sollevare il bicchiere ricolmo di succo d'arancia per bere. Si sarebbe semplicemente accontentato di sbuffare e giocherellare con un pezzetto di pollo.
Esistono tre parole che negli ospedali vengono ripetute fino allo sfinimento: "ma", "forse" e "se".
Nei discorsi di tutti i giorni possono essere usate in qualsiasi posto, d'altronde, non hanno molta importanza. Se tua figlia non supera il test di matematica con una A, sai per certo che non morirai.
Ecco, negli ospedali è tutto il contrario.
Ma: "Certo, ora sei in remissione, ma potresti avere una ricaduta ed essere qui tra qualche mese"; forse: "Forse riuscirai a tornare a casa per Natale. Non ti va di vedere i tuoi cugini?"; se: "Se inizierai a fare la chemioterapia domani, ti assicuro che avrai buone probabilità di andare in remissione durante il secondo ciclo".
Gerard aveva già sentito tutti e tre i casi, forse anche più di una volta, nell'ultima settimana. Lo avevano spedito da uno psichiatra, il signor Wellington, per fargli parlare di come si sentisse riguardo la sua malattia e alle poche probabilità di vita.
Che cosa poteva dire che stava male, se non in modo terribile?
Poi aveva scoperto che il signor Wellington era uno di quei dottori adibiti ad "accompagnare" i pazienti gravemente malati in un lungo (e per alcuni tortuoso) percorso che portava all'accettazione della morte imminente.
Inutile dire che Gerard se n'era andato via subito urlandogli anche uno scandito "vaffanculo". Aveva promesso a Frank che sarebbe guarito, no? E aveva mai tradito alcuna promessa fatta a Frank? Proprio no!
Giocherellò con la fede argentea e poi chiuse la mano a pugno. Quanto tempo ci sarebbe voluto, perché morisse? Di certo due leucemie non avrebbero aiutato affatto ad allungargli la vita, per non contare delle possibili metastasi o dei cancri che si sarebbero potuti sviluppare nel suo organismo mentre cercava di curarlo.
Ah, poi c'era sempre la possibilità che la leucemia non lo facesse andare in remissione, o che si ripresentasse dopo nemmeno un mese. Capitava. A lui come ad altri.
Rabbrividì pensando ai bambini che aveva visto nel reparto di oncologia infantile. Erano tutti così... così... familiari. Per pochi secondi aveva stupidamente pensato che fossero gli stessi bambini che avevano patito le sue stesse pene nel 1989. Si era riscosso subito dopo: quei bambini erano cresciuti, alcuni avevano continuato a camminare sulla Terra, altri sotto di essa. Era stata questione di fortuna e di trattamenti, non poteva incolparsi di essere sopravvissuto.
Si strinse nelle spalle: quanti bambini erano morti, lì dentro?
Di certo un numero esponenziale, ma non aveva alcuna voglia di cercare dei censimenti a tal proposito: sapeva che erano troppi, e questo gli bastava.
Invece, i pagamenti non erano abbastanza alti, a suo dire. La chemioterapia, un ciclo intero, costava 90.000 dollari. Poteva sembrare una somma eccessiva, ma, evidentemente, tutti quelli che si lamentavano dei costi, non avevano idea di quanto costassero i farmaci che componevano il liquido giallognolo che era in grado di mandare in remissione la malattia, se non di sconfiggerla del tutto.
Per non parlare dei trapianti di midollo, 110.000 dollari. Fare un trapianto non significava solamente fare una punturina, no! Ci volevano mezzi, un donatore compatibile, stanze sterili, cateteri portatili, eventuali ricoveri per infezioni e, ovviamente, c'era sempre il rischio che il paziente rigettasse.
-Gee... a che pensi?
Alzò lo sguardo su Frank. Ricordava di averlo visto andare in cucina per chiamare la pizzeria più vicina e poteva dire di averlo sentito parlare, ma oltre a questo, non ricordava nulla, nemmeno come potesse essere tornato in salotto senza che lui se ne accorgesse.
-A niente...- mormorò con la voce rauca. Diede qualche colpetto di tosse e tutta la sua cassa toracica tremò. -Solo ai costi della terapia... e a quanto sia stato gentile tuo padre a pagarli.
Pur di vincere le elezioni presidenziali 2004, Anthony aveva iniziato a farsi pubblicità nei reparti di oncologia. Era una mossa sporca, sporchissima, e sapeva che non era giusto chiedere i soldi per le sue terapie, ma non aveva potuto fare niente per fermarlo. Un giorno era a cena da loro e parlava delle cifre enormi che avrebbero dovuto pagare i Way, quello dopo Anthony si stava già facendo una pubblicità a dir poco vergognosa nei reparti di oncologia pediatrica, quello dopo ancora mostrava alla stampa l'assegno che avrebbe consegnato a Gerard. Secondo un sondaggio, era il quarto favorito.
-Non ti devi preoccupare di niente- Frank si lasciò cadere sul divano accanto a lui e scostò premurosamente una lunga ciocca di capelli neri dal suo viso.
Gerard spinse il capo verso di lui e si godette la carezza. -Le cure per le metastasi costano molto.
-Gee, non è detto che tu abbia una metastasi, quindi non cominciare, per favore!
Il più grande aggrottò le sopracciglia. -Ci stanno mettendo più tempo del dovuto a prendere una decisione sulle mie radiografie. Sai cosa significa? Me-ta-sta-si,- scandì per bene le sillabe.
-No! Significa: pa-ra-noi-co!- Il moro rise di gusto: se c'era qualcuno che lo faceva sentire meglio anche quando era a terra, quel qualcuno era proprio Frank. -Comunque, ho qui un po' di film pseudo-horror che potremmo guardare mentre mangiamo la pizza.
-Definisci "pseudo-horror".
Frank, per tutta risposta, si appese allo schienale del divano, prese qualcosa e tornò sul cuscino. Quel qualcosa era uno scatolone stracolmo di DVD e videocassette horror. Il primo titolo che si poteva notare, in quella catasta, era un film intitolato Il gelato che uccide*.
-Dimmi che è uno scherzo, ti prego- ridacchiò il più grande afferrando la custodia e mostrandola al fidanzato.
Lui, invece, annuì con fare serissimo. -Tutto vero! Giuro che non ho girato nemmeno uno dei film che vedremo questa sera.
-Perché dovrei sprecare il mio prezioso tempo guardando questi film?- domandò singhiozzando una risata ad ogni parola.
Frank sbiancò, e Gerard si rese conto della cazzata che aveva appena commesso. Tre mesi.
-S-scusa...
-No, hai ragione- Frank gli strappò di mano la cassetta e prese lo scatolone per poi alzarsi con l'intenzione di portarselo via. -Non dovremmo guardare film di merda. Avanti, andiamo al cinema, ho visto che avrebbero dato un film bello, questa sera.
Gee si mise in ginocchio. -Ti prego, guardiamo questi, non voglio uscire.
-Non dovremmo sprecare tempo a guardare questi cosi. Il tuo tempo è prezioso.
-Ma io voglio!
Non ci aveva pensato... non aveva pensato a quel che avrebbe significato, vista la sua salute. Aveva dimenticato di essere malato, di essere vicino allo stadio finale della sua malattia.
Frankie sospirò e posò nuovamente lo scatolone sul cuscino del divano. -Va bene, ma quando vuoi fare qualcos'altro, dimmelo. E al cinema proiettano film fino a mezzanotte.
Annuì, distratto, e riprese a frugare. Come primo film, scelse quello sul gelato assassino.
Lo guardarono mangiando la pizza, ridendo nei momenti che avrebbero dovuto far paura. Non era poi così male, "sprecare" il proprio tempo così: era con Frank, si erano divertiti, avevano mangiato la pizza...
Posò la testa sul suo grembo e rannicchiò le gambe sul divano, in modo che fosse ben accomodato. Probabilmente, quando si sarebbe sentito male per la chemio, sarebbe strisciato su quei cuscini.
Il suo fidanzato gli accarezzava i capelli in modo dolce; lasciava che le dita scorressero tra le ciocche lunghe, con i polpastrelli gli sfiorava appena gli e la fronte. -Sei ancora sveglio?- chiese con un filo di voce quando finirono anche i titoli di coda.
-Sì...
Con quella voce, gli sembrava di essere Regan dell'Esorcista quando è posseduta e se si fosse messo ad urlare bestemmie, non ci sarebbe stata alcuna differenza.
-Sei stanco?
-Un po'.
Da quanto tempo non era stanco? Non lo ricordava, forse quando la scuola non era ancora finita. In ogni caso, poco importava: non poteva tornare indietro.
Posò la testa sullo schienale della morbida poltrona e chiuse gli occhi.
Doveva tenere il braccio sinistro immobile: l'ago collegato alla flebo di chemio era infilato nell'interno del suo gomito, e, cazzo, bruciava.
Non sapeva perché, ma riusciva a sentire il liquido giallastro che scorreva nel tubo, scivolava nell'ago e poi nelle sue vene ed arterie, si soffermava nei cateteri venosi e poi attaccava tutti i blasti che gli appestavano il corpo.
-Mh...
Frank gli strinse la mano.
Era seduto accanto a lui da ore, appollaiato su uno sgabello dalla incerta stabilità, e quando Gerard mugolava qualcosa, lui gli stringeva le dita. Sapeva che lo faceva per dargli forza, ma era un fastidioso.
-Vai... a... casa...- mormorò, sfinito. Era talmente stanco che non riusciva a tenere gli occhi aperti.
-Non vuoi che io stia qui?
Il tono ferito di Frank lo fece sentire, se possibile, ancor peggio. -No... rimani... scusa...
Ogni parola era una fitta allo stomaco, un fulmine che gli spezzava a metà il costato, fuoco che gli bruciava i polmoni e la gola. Era delicato come un fiore e, se non avesse provato così tanto dolore, avrebbe riso al suo paragone così incredibilmente gay da risultare quasi scandaloso. Forse, in un'altra vita, sarebbe stato una violetta, esattamente come lo era in quel momento**. Bianca, quelle viola non gli piacevano.
Chissà che fiori gli avrebbe portato Frankie, quando sarebbe morto... i crisantemi erano brutti, troppi petali, ma le rose... magari rosso scuro, di quelle che sembravano fatte di velluto... quelle gli sarebbero piaciute tanto, davvero. E anche le mimose, i gigli, le primule... tutto tranne le violette viola e i crisantemi.
-Hai bisogno di qualcosa? Acqua? Tè?
Gli avrebbe voluto urlare contro di chiudere quella cazzo di boccaccia, di stare zitto, di rispettare il silenzio quasi religioso che regnava nella saletta dove altre sei persone stavano facendo la chemio! Invece no, continuava a ciarlare come se fossero seduti in un pub, chiedeva cose delle quali, al momento, non gli importava nulla e lo faceva sentire in colpa quando rifiutava.
Ne aveva le palle piene.
Contrasse il viso, le labbra, disidratate e rotte, si strinsero in una linea sottile.
Prese fiato. -Vai a casa- riuscì a dire senza balbettare nemmeno una volta. -Vai a casa e... e non tornare.
Se doveva rimanere nell'ospedale per dargli fastidio, per conto suo poteva anche non tornare.
-Okay... ne riparliamo dopo. Vengo a trovarti domani.
Non aprì gli occhi, mentre sentiva lo sgabello scricchiolare e le Converse del suo ragazzo produrre dei "lamenti" contro il pavimento di linoleum pulito e lucidato.
Si era offeso? Oh, grandioso, davvero!
Stava facendo la chemioterapia e doveva rimanere con il culo incollato alla poltrona per almeno ventiquattr'ore, avrebbe perso tutti i peli sul suo corpo (capelli, ciglia, sopracciglia... sarebbe stato liscio come un uovo), sarebbe dimagrito e avrebbe guardato la morte in faccia ancora una volta, ovviamente senza alcuna garanzia di poter vincere, e lui era quello offeso?!
Strinse i denti e si promise che, dopo una lunga e bella dormita, avrebbe cercato di risolvere.
Un bicchiere di Diet Coke era posato sul comodino, il suo corpo era protetto da una coperta di lana che ritraeva un lupo con gli occhi di colori diversi, il catino per il vomito era posato sul pavimento accanto al letto e un piccolo televisore ritrovato in uno delle scatole lasciate chiuse dopo il trasloco era sulla scrivania. Proiettava un cartone animato, ma non sapeva quale e nemmeno gli importava più di tanto, dato che aveva tolto il volume visto il suo mal di testa atroce.
Allungò le dita tremanti e afferrò il bicchiere. Aveva appena mandato giù un amarissimo cucchiaio di zucchero e limone, uno di quei rimedi popolari contro la nausea. "O va giù, o torna sù" era il motto. E Gerard era fierissimo di poter dire che era rimasto tutto giù.
Bevve un sorso di Coca, arricciando il naso in una smorfia disgustata in quanto la bevanda calda era più simile a piscio che ad altro.
Si accomodò nuovamente in posizione fetale e si tolse una calza.
Appena terminata la chemio, aveva chiamato sua madre ed erano tornati a casa. Lì si era fatto aiutare da lei e da Mikey a salire le scale e poi si era tuffato sul letto ed aveva dormito per almeno dodici ore. Al suo risveglio, non c'era nessuno in casa: Donna era al lavoro e Mikey aveva cercato un po' di conforto a casa di Alicia. Sperava che avesse seguito i consigli che gli aveva dato qualche mese prima, quando gli aveva detto che non c'era alcun bisogno di correre.
Era ancora solo.
Affondò le dita nel pelo grigio di Smoke, il quale miagolò soddisfatto e fece delle fusa rumorose e beate. Avere un gatto era sempre una grande soddisfazione.
Pensare al gatto gli fece venire in mente Frank. Chissà come l'aveva presa... conoscendolo, c'erano due opzioni: la prima (e più probabile), si era messo a letto ed aveva pianto tutte le sue lacrime cercando di capire dove avesse sbagliato, la seconda, si era offeso, arrabbiato ed ora la loro relazione era andata a puttane. Alquanto improbabile, dato che era proprio lui quello che appianava i litigi e che rimetteva in piedi la loro storia offrendo (silenziosamente) la pace.
Due ore e un pisolino dopo, infatti, Gee era al telefono che discuteva con Frank. O per meglio dire, cercava di arrestare il fiume di lamentele che uscivano dalla sua bocca.
-Mi dispiace- disse per la millesima volta.
Gerard sospirò e passò le dita tra i capelli, giusto per assicurarsi che fossero ancora lì dove dovevano essere. -Non importa, dico sul serio.
Invece importava eccome, ma non aveva voglia di litigare con lui. Per un brevissimo istante, si chiese se non avesse voglia di battibecchi perché gli voleva bene o perché suo padre, se si fossero lasciati, non avrebbe più pagato le cure. Scelse un cinquanta e cinquanta molto politico e continuò a rassicurare Frankie.
-Frankie, te lo assicuro: sono io agitato e sotto stress, non sei tu quello che sbaglia.
-Ma io...
Si morse il labbro pur di non urlare. -Voglio dormire, ci sentiamo domani- e pigiò il pulsante rosso che determinava la conclusione della chiamata, subito dopo spense il telefono.
La verità era che temeva che lui e Frank non fossero più compatibili, esattamente come in quei film tutti zucchero, miele e rose rosse che trasmettevano la domenica pomeriggio. Sentiva che mancava qualcosa al loro rapporto, e di certo il sesso non era, dato che ne avevano fatto un sacco, prima che andasse a fare la chemio, forse... forse era perché si era consumato tutto, perché non c'era più nulla da vivere insieme.
Mordicchiò il labbro inferiore fino a che non sentì qualche goccia di sangue macchiargli il mento. Possibile, ma non scontato. Decise che gli avrebbe dovuto parlare quando sarebbe stato meglio.
Aveva stilato una lunga lista di "pro" e "contro" per ciò che riguardava la sua relazione con Frank. Lo aveva fatto dopo l'ennesimo pisolino, quando il suo cervello era ormai del tutto sveglio e le sue labbra coperte da uno strato di burro di cacao che sapeva di mandorla. Ah, sì, aveva anche bevuto un bicchiere di latte mischiato col miele e la sua voce era migliorata un pochino.
Pro:
mi ama;
farebbe qualunque cosa per me;
cercava solo di aiutare;
se lo lasciassi, lo distruggerei.
Contro:
non sono più sicuro di volerlo – o almeno, non come prima;
mi infastidisce la sua presenza;
viola il sommo diritto del silenzio durante la chemioterapia;
continua a parlare di cose inutili e mi fa sentire a disagio;
potrebbe volermi solo perché sono malato e non se la sente di lasciarmi;
detesto averlo attorno mentre sto male;
sono debole, mi destabilizza.
Al momento, i "contro" stavano vincendo, e quel pensiero lo preoccupava. Possibile che la loro relazione sarebbe finita dopo così poco?
Però, doveva ammettere che i "pro" erano più che consistenti, il semplice "ti amo" valeva almeno quattro punti.
Tamburellò la penna sul blocchetto degli appunti. Che fare, che fare... non aveva risposte.
Proprio in quel momento, il campanello suonò e, pochi secondi dopo, sentì la porta aprirsi.
-Gee?
Inspirò a fondo e nascose il quaderno, non doveva pensare ad un possibile finale della loro relazione, almeno per il momento.
Aveva meno di un minuto per sistemarsi, così passò le mani tra i capelli, rassettò il maglione e indossò anche l'altro calzino, il quale l'aveva aspettato per tutto quel tempo sotto al letto.
-Ciao.
Fece di tutto per resistere a quel delizioso sorriso tendente verso destra, ma non ci riuscì: era troppo contagioso e felice.
Portava con sé un sacchetto di carta con la sirena verde di Starbucks sopra.
-So che hai la nausea- spiegò notando i suoi occhi sul sacchetto, -ma ho pensato che qualche dolcetto potesse interessarti comunque.- Si sedette sul pavimento ed incrociò le gambe.
-Dolcetti come?
Non resistiva ai dolci, e quello stronzetto di Frank lo sapeva!
Dopo avergli scoccato un'occhiata ammiccante, iniziò a tirare fuori dalla busta un dolce dopo l'altro. Li riconobbe tutti subito: c'erano i biscotti al burro di arachidi, mezza cheescake e tre muffin.
-Stai cercando di comprarmi?- borbottò pronto a strappargli di mano la torta.
Frankie scosse la testa e la frangia ondeggiò sul suo naso. -Voglio solo scusarmi: non capivo quanto stessi male e che ti dava fastidio il fatto che... bé, che continuassi a parlare. Prometto che, se mi permetterai di tenerti la mano durante la prossima chemio, non dirò nemmeno una parola.
Gli sorrise, poteva fidarsi.
Esisteva un buon motivo, se la maggior parte dei pazienti del reparto di oncologia si portavano sottobraccio un vasetto per il vomito.
Gerard Way l'aveva imparato a sue spese, rigettando sul pavimento del bagno perché non era riuscito a barcollare fino alla tazza in tempo. Gli sguardo dei due inservienti che avevano ripulito era stato ciò che l'aveva condotto ad un pianto disperato; sembravano dire "ti capiamo, è tutto okay".
Voleva solo essere trattato come una persona normale!
Era tutta la vita che cercava di fare solo quello: venire trattato come una normalissima persona, nient'altro; prima non poteva accadere perché a scuola non accettavano gli artisti gay, ora perché i suoi capelli stavano cadendo a ciocche giorno dopo giorno. Parecchie chiazze di pelle lattea e trasparente come carta di riso si potevano notare tra i capelli rimasti.
Ogni volta che si guardava allo specchio, era una dolorosa fitta.
Frank gettò un'occhiata in sua direzione e poi spostò gli occhi sulla strada bagnata dalla pioggia. -Ricresceranno, vedrai.
Quelle parole lo rassicurarono un poco. Infondo, erano solo capelli. Ma quella non era l'unica conseguenza della chemio che lo abbatteva: dopo la seconda flebo, aveva notato che il suo labbro inferiore, all'interno, era completamente aperto e che stava sviluppando un'infezione di quelle che gli sarebbero potute costare caro.
-È più per l'infezione che mi preoccupo, Frank- ribatté guardando fuori dal finestrino. Una ciocca di capelli decise che era il momento giusto per cadere e scivolò sul suo naso, finendogli sul labbro superiore. Con un gesto irritato, prese quella schifezza tra le dita e la gettò fuori dalla macchina. -L'infezione potrebbe peggiorare e non so cosa ci vorrebbe per guarirla.
-Andrà bene- provò a calmarlo ancora una volta.
Afferrò la cuffia di tessuto blu che aveva posato sulle ginocchia quando era salito in macchina e se la calò sulla testa. Controllandosi allo specchietto, si accertò che i rimasugli della sua (un tempo) folta chioma nera fossero sistemati in modo che apparissero come se gli stessero coprendo tutta la calotta cranica. -Mi spieghi dove stiamo andando?- domandò guardando il paesaggio che scorreva velocemente attorno a loro.
Non erano più a Belleville, poco ma sicuro: quel che poteva ammirare non erano altro che campi verdi e dorati, girasoli e delicatissime colline che premevano contro il cielo nebuloso e ceruleo.
-In un bel posto. Sono sicuro che ti piacerà.
-È al caldo, vero?- si strinse nella felpa invernale. In due settimane, aveva perso altri due chili e ora, di lui, non rimanevano altro che le ossa. Allungò la mano e prese a giocare con le manopole del riscaldamento.
Il suo fidanzato annuì rivolgendogli un altro sorriso compiaciuto. -Ci sono tre giorni fa, mentre dormivi dopo la chemio, ho controllato che fosse abbastanza caldo e comodo.
Pensò ai luoghi più disparati, dalle camere d'hotel alle grotte con sorgenti d'aria calda, ma non valeva mantenere il segreto per andare in un hotel, no? D'altronde, vi avevano passato fin troppo tempo, nelle camere in affitto.
Continuò a guardare fuori con il mento posato sulla mano. Temeva che altri capelli cadessero, che l'infezione si estendesse, che si creassero metastasi, che... che... che.
-Siamo quasi arrivati, mettiti gli stivali.
Obbediente, Gerard affondò i piedi protetti da dei calzettoni pesanti negli stivali invernali; preferiva sembrare un eschimese che patire il freddo che gli ghiacciava anche il midollo.
Frank guidò la Mercedes lungo un vialetto sconnesso e parcheggiò accanto ad un vecchio casale composto da assi di legno venato di rosso.
-È... è una stalla?- chiese guardando il grande portone bianco.
Il suo fidanzato non rispose: scese dalla macchina e venne ad aprirgli la portiera.
Tenendolo per mano, lo condusse all'interno dello stabile.
-Ooooh...
Con gli occhi sgranati si guardò attorno. Almeno venticinque cavalli occupavano i box della stalla e lo guardavano a loro volta, incuriositi. Un paio di gatti (uno rosso con la coda mozzata e uno tutto nero) gli vennero incontro miagolando e facendo le fusa.
Automaticamente, si chinò per coccolarli. Se solo lo avesse visto Smoke!
Uno dei cavalli nitrì scuotendo la grossa testa.
-Ti piace?
Alzò il capo e guardò Frankie. -Sì, da morire- gli regalò un sorrisone. -E fa anche caldo- slacciò la felpa.
Rimasero lì per ore, ma a Gerard sembrarono giornate intere, a giocare con i gatti e i tre coniglietti bianchi e grigi che erano spuntati da chissà dove e a portare la paglia ai cavalli.
Pettinò con le dita la lunga criniera di un puledro marrone. Incredibilmente, aveva gli occhi azzurro chiaro e il naso rosa.
Non lo doveva fare, lo sapeva, ma c'era un brivido che scorreva lungo la sua spina dorsale e che lo scuoteva come un terremoto che gli impediva di non farlo. Non pensò nemmeno per un secondo alle infezioni, ai batteri, ai germi, a tutti gli esserini maligni che lo avrebbero potuto uccidere in pochi giorni: era felice.
Il suo sistema immunitario era fragile, ma non gli importava proprio nulla.
Si svegliò perché sentiva il viso bagnato.
Dopo aver lanciato un gemito assonnato, fece scorrere la mano sulla fronte e sul naso e l'allungò fino all'abat-jour ed accese la luce.
In un primo momento, rimase a fissare la pelle coperta di sangue, chiedendosi come fosse finito lì. Poi realizzò che si era appena toccato il viso e che quindi, per esclusione, doveva provenire dalla sua faccia.
Strillò forte, con voce incredibilmente acuta mentre un brivido isterico lo scuoteva.
Donna spalancò la porta della camera, seguita da Mikey che si guardava attorno senza occhiali.
-Cazzo!- esclamò lei, -Miks, chiama l'ospedale, subito.
Non capì altro: tutto era sfocato, confuso, come se non fosse reale ma un sogno. Mentre i paramedici entravano e facevano di tutto pur di portarlo sull'ambulanza senza perdere troppo tempo, fu sicuro di vomitare della roba rossa (sangue, probabilmente).
Ad intervalli regolari, vedeva i capelli biondi di sua madre comparire nel suo campo visivo per scomparire pochi secondi dopo.
Pianse finché il suo mondo non diventò buio ed oscuro.
L'infermiera si chiamava Elizabeth, aveva i capelli scuri raccolti in una crocchia e gli occhi color ambra. Gli cambiò la flebo, controllò che il tubo fosse ben fissato nel catetere portatile*** che gli usciva dal petto e se ne andò lasciandosi dietro un delicato profumo di fiori.
La crisi della notte precedente gli era costata due litri di sangue, i capricci del pomeriggio, invece, una lieve infezione ai polmoni. Ecco cosa accadeva, a chi piaceva strafare.
Tossì cercando di non farsi uscire gli organi dalla bocca e si lasciò cadere sui cuscini.
Si era promesso, all'inizio della terapia, che non sarebbe stato così debole da farsi ricoverare o da farsi mettere un catetere portatile.
L'unica cosa buona di quei tre tubetti che sembravano apparire dal nulla era che non avrebbe più dovuto usare aghi o siringhe.
Frank lo salutò con un gesto della mano stando dietro al finestrone che dava sul corridoio; non poteva entrare perché, essendo i polmoni di Gerard malati, c'era il rischio che peggiorassero uccidendolo.
A fatica, Gee riuscì ad alzare un braccio ed a regalargli un breve saluto.
Tutto il suo corpo era dolorante, ma dopo la terza iniezione di morfina avevano deciso che "era abbastanza" per una giornata e, nonostante premesse il pulsante in continuazione, non cambiava nulla.
-Ti amo- disse Frank, ma a Gerard parve che muovesse solo le labbra.
Come aveva potuto pensare che lasciarlo fosse una scelta giusta?
Chiuse gli occhi. Era stremato.
Ridusse in poltiglia una patata lessa.
Ecco, stronza, così impari ad essere così insipida, pensò mettendo un pizzico di sale su sul purè improvvisato. Mescolò per bene e si mise una forchettata in bocca.
Gerard era stato ricoverato per colpa sua: non lo avrebbe dovuto portare fuori in un pomeriggio così freddo e soprattutto in un posto così sporco.
Anche se gli infermieri gli avevano detto che tutto il sangue perso la sera prima era dovuto all'anemia aggravata dalla chemioterapia, era convinto che fosse anche colpa sua.
Si infilò in bocca una foglia di insalata e la inghiottì quasi intera. Aveva provato ad entrare nella stanza dove era ricoverato Gerard per due volte, ma un'infermiera bruna l'aveva sempre bloccato (era peggio di un cane da guardia, quella donna), così era andato alla mensa ed aveva iniziato ad ingollare cibo cercando di ignorare il nodo che gli stringeva gola e stomaco.
Forse era un bene, che il suo fidanzato fosse praticamente incosciente: quando aveva aperto gli occhi per la prima volta, era saltato dalla paura; tutti i capillari dei bulbi oculari di Gee erano esplosi e non c'era più una singola macchia di bianco vicino all'iride nocciola. Era più simile ad una di quelle caricature grottesche dei personaggi dei film horror o dei fumetti... o magari era a qualcosa del genere che aveva pensato la scrittrice di Harry Potter mentre descriveva Voldemort...
In ogni caso, lui si era sentito raggelare, non aveva mai visto niente di così inquietante in vita sua. Aveva avuto paura e l'istante dopo si era sentito in colpa per averne avuta. Gerard era malato, era normale che il suo corpo stesse cedendo giorno dopo giorno.
Eppure... eppure cercava di scacciare quel ricordo in tutti i modi possibili. Sentiva che non sarebbe più riuscito a dormire, dopo aver visto il suo fidanzato così.
Spinse dietro l'orecchio una ciocca di capelli. Aveva voglia di parlare con qualcuno che non indossasse un camice. Guardò Mikey che mangiucchiava seduto dall'altro capo della mensa e decise che non era il caso: per quanto cercasse di fare l'uomo vissuto, si notava che era ancora un bambino imbronciato e dalle idee poco chiare sul suo futuro, e che la malattia del fratello lo stava confondendo parecchio. Aveva detto di voler diventare un dottore, un giorno, ma Frank era sicuro che non ci sarebbe riuscito, dopo avere visto Gerard ridotto in fin di vita.
Si alzò e gettò tutti gli avanzi della sua cena in un bidone apposito, lasciò il vassoio su uno dei banconi vicini all'uscita e se la diede a gambe.
Attraversò tutto il corridoio del primo piano; seguiva la linea azzurra appiccicata al pavimento lustro.
Le opzioni erano due: o Gee guariva, o Gee... andava dall'altra parte. Per quanto i dottori potessero nascondere la verità, sapevano tutti che ormai era alla fine, che stava morendo. E quella parola era forse la parte più spaventosa di tutto quel che stava accadendo... l'idea di non poterlo vedere più, di non potere più ascoltare la sua voce o di sentire il calore della sua pelle sotto le sue mani prima di addormentarsi lo terrorizzava.
Alzò lo sguardo. Era davanti ad una porta di legno chiaro. Si fece coraggio e l'aprì.
Un forte odore di incenso gli fece girare il capo. Si trovava nella chiesa dell'ospedale. Non ricordava da quanto tempo non mettesse piede in una chiesa... quella era spoglia, nuda, le pareti color crema erano esposte, una piccola statua della Maria Vergine era posata accanto all'altare e un crocefisso occupava la parete opposta all'entrata. La sala era semi buia, priva di finestre e soffocante.
Scivolò negli ultimi banchi ma non si mise a pregare; rimase semplicemente lì, seduto con le mani sulle ginocchia a pensare nel (quasi) imbarazzante silenzio.
Iniziò a chiedersi se fosse una punizione divina, quella. In quel caso, sarebbe stato "divertente" scoprire chi fosse la persona punita. Gee? Donna? Donald? Helena? Lui stesso?
Rabbrividì e una cinquantina di marinai iniziarono ad annodare il suo stomaco.
Ricordava, da una lezione di scienze, che ogni tipo di cancro era causato da una cellula mal funzionante, che impazziva e che faceva il lavoro opposto a quello che avrebbe dovuto fare. Nel caso di Gee, era il cromosoma Philadelphia ad essere impazzito e ad aver iniziato a produrre troppi blasti, i quali, a loro volta, producevano granulociti che aumentavano in maniera esponenziale nel midollo osseo.
Gli avevano detto che era nella fase accelerata della malattia e che quindi il suo organismo era sul punto di collassare sotto ai continui attacchi dei batteri. Come fosse sopravvissuto al tatuaggio rimaneva un mistero.
Inoltre, il dottore che l'aveva in cura incoraggiava tutti a conservare il cosiddetto "pensiero positivo", perché, secondo lui, era una tra le migliori cure. E così gli avevano nascosto che l'infezione al polmone non era così piccola ed innocente, che probabilmente non avrebbe visto l'alba del primo di novembre e che non potevano provare altri tipi di terapia era troppo pericoloso perché non aveva abbastanza difese immunitarie nemmeno per difendersi da un banale raffreddore.
Gli avrebbero messo le cannule per l'ossigeno molto presto. Anzi, forse le aveva già.
Si strofinò le palpebre e guardò attorno. Solo allora notò una testa biondo ossigenato nel primo banco.
Che ci faceva lì Donna? Gerard gli aveva detto che sua madre era molto religiosa, sì, ma non si aspettava di vederla inginocchiata nei banchi della chiesa dell'ospedale comunque.
Facendosi forza e coraggio, si alzò e camminò verso di lei. Forse era con lei che doveva sfogarsi, anche se non era sua madre.
Scivolò sul banco finché non le fu accanto. -B-buongiorno- balbettò sperando di non interrompere una preghiera devota.
Donna alzò di scatto la testa. Appena lo vide, gli sorrise. -Ciao, Frank.
Il suo primo pensiero? Mia madre è molto più bella.
La madre di Gerard non gli era mai piaciuta un granché, in effetti. Non che gli dovessero piacere le signore di mezza età, sia chiaro, ma non l'aveva mai trovava nemmeno lontanamente bella. Aveva l'aspetto di un oggetto consunto dal tempo, come una maglietta dimenticata sotto all'armadio e lasciata alla polvere ed ai ragni.
-Volevo parlarle di Gerard...
Donna annuì con aria solenne, i capelli biondi svolazzarono attorno al suo volto pallido. -Io gli devo parlare... ho un po' di cose da dirgli...
Inarcò le sopracciglia. Oltre alle classiche scuse per essere stato un genitore disattento e stronzate simili, che altro gli avrebbe potuto dire?
Lei si alzò e, senza aspettarlo, uscì dalla chiesa.
Frank la seguì, le scarpe che facevano scricchiolare il legno del pavimento.
-Credo che sarà difficile spiegarglielo...- la madre di Gerard sembrava non parlare a nessuno in particolare.
-Che cosa?
Donna arricciò le labbra (cosa che Gee faceva spesso inconsciamente) e puntò lo sguardo nel suo. I suoi occhi erano neri e tristi. -Gerard non è stupido, lo abbiamo fatto semplicemente vivere in un mondo separato da quello reale.
*lo giuro, esiste davvero, cercatelo su YouTube.
**dall'inglese pansy, parola che significa sia "violetta" che "effeminato".
***catetere portatile: here, un catetere portatile viene applicato ai pazienti tramite un'incisione sotto la clavicola sinistra che porta il tubo portante direttamente al cuore. Serve a praticare trasfusioni di sangue, medicinali (tra i quali anche la chemio) e anche trapianti di midollo.