Disaster

By wrongperfectly

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COMPLETA. #1 in Teen Fiction il 7.02.19 #1 in Fan Fiction il 21.04.20 All'apparenza Cassie Anderson e Justin... More

Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Capitolo 52
Capitolo 53
Capitolo 54
Capitolo 55
Capitolo 56
Capitolo 57
Capitolo 58
Capitolo 59
Capitolo 60
Capitolo 61
Capitolo 62
Capitolo 63
Capitolo 64
Capitolo 65
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo 25

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By wrongperfectly

Sono solo le cinque del pomeriggio, ma è stata una giornata stressante e tutto ciò che voglio adesso è il calore del mio letto e magari una cioccolata calda; l'inverno inizierà ufficialmente solo il 21 dicembre, però è un po' come se fosse già arrivato.

«Ehi, che fine avevi fatto?» così mi accoglie Tyler mentre trascino il mio corpo in soggiorno.
Mi getto sul divano accanto a lui, intento a vedere una replica di Friends. «Ho avuto un contrattempo» dico, «Due contrattempi, per la precisione», aggiungo, poi, senza voler andare nel dettaglio.

Il rumore di un paio di chiavi che girano all'interno della serratura interrompe la nostra entusiasmante conversazione, portandomi inevitabilmente a voltarmi in direzione dell'ingresso.
«Papà? Non avevi il turno?» domando stupita all'uomo in divisa che appare dal corridoio. In un altro momento sarei stata felice di vederlo rientrare prima, ma ora come ora avrei di gran lunga preferito che fosse in centrale; non mi sono dimenticata delle sue menzogne, solo che non ho ancora pensato a come dovrei comportarmi a riguardo: se ignorare la faccenda o instaurare una sorta di conflitto tra padre e figlia.
«Cambio di programma», annuncia. Io e mio fratello ci guardiamo confusi, prima di rivolgere nuovamente l'attenzione verso di lui, invitandolo a dirci di più.

«Allora? A chi va un po' di sushi?»

***

«Sembra tutto delizioso, vero?» domanda papà per fare conversazione tra un piatto di riso e uno di pesce crudo.
Non rispondo; non sono in vena di dialogare adesso; per quanto apprezzi il suo tentativo di accantonare, per una volta, il lavoro non posso dimenticare che mi ha nascosto il fatto che mia madre lo chiamasse costantemente dal centro di riabilitazione. Qualcuno potrebbe pensare che siano solo delle stupide telefonate ed infatti lo sono, ma non mi piace che mi si nascondino le cose, soprattutto se a farlo è mio padre, l'unico uomo che, in teoria, non dovrebbe mai mentirmi.
«Allora, a cosa dobbiamo quest'occasione?» chiede Tyler con scetticismo. Prima di salire in macchina mi ha rivelato di temere che possa spedirlo alla scuola militare; dubito che questo sia il motivo, ma, se così fosse, non gli permetterei di farlo.
Il più anziano lo guarda stupito ed inclina la testa di lato. «Un padre adesso non può più passare del tempo coi suoi figli senza un motivo particolare?» gli risponde. Risposta a cui non si può obbiettare, eppure,non so perché, non mi convince.

Cala un momento di imbarazzante silenzio. Poi l'uomo prende nuovamente parola «È da un po' che non ci sediamo ad un tavolo tutti insieme», osserva.
«Già», mormoro senza staccare gli occhi dal mio piatto, anche se vuoto.
«Allora? Che ne dite di raccontare al vostro vecchio come vi vanno le cose ultimamente?»

Davvero sta chiedendo a degli adolescenti di parlare della propria vita con il proprio padre?

Il ragazzo accanto a me alza gli occhi al cielo. «Oh, se vuoi torturarmi, ti prego, sparami ora».
«Sarebbe una soluzione troppo facile», gli dice ironicamente. Si volta verso di me, nel momento in cui alzo lo sguardo e «E tu, Cassie? Hai qualcosa da dire?» domanda cogliendomi di sorpresa.
Mi metto dritta con la schiena sulla sedia e «No, niente di nuovo», asserisco con tono piatto.

«Quindi a scuola è tutto okay?»

Perché mi sta chiedendo proprio questo? Il mio campanello di allarme inizia a suonare invitandomi a stare in allerta; ho proprio il sospetto che sappia più di quanto vorrei che sapesse.

Nonostante i dubbi, però, cerco di sembrare calma e tranquilla. «Sì, perché non dovrebbe?» chiedo con finta ingenuità.

Ed è allora che scoppia la tempesta: «Non lo so, forse perché ho ricevuto una strana telefonata dal preside per scoprire che mia figlia è stata messa in punizione», si assicura di marcare bene quel ''mia figlia'', facendomi cadere le bacchette nel piatto.
«Uh, qualcuno è nei guai e quel qualcuno non sono io», sghignazza, a quel punto, mio fratello sorseggiando la sua soda, guadagnandosi, così, un'occhiata di fuoco dal nostro genitore, «Non intrometterti Tyler».

Successivamente l'uomo torna a prestare l'attenzione sulla mia figura, «Cassie, vuoi dirmi cosa è successo?»
Serro le labbra e «Non è successo niente, è stato solo un malinteso» mi difendo, dicendo nient'altro che la verità.
«Si fa sempre più interessante», borbotta Tyler come uno spettatore intento a vedere il suo show preferito.
Sia io che papà lo ignoriamo e «Malinteso? Sul serio Cassie? Questa è la tua scusa?»

Alzo le spalle. «Beh, che altro vuoi che ti dica?»
Aggrotta la fronte. «Non lo so, ma tu non fai queste cose, tu sei la prima della classe, quella dalla condotta impeccabile».
Ed ecco che incomincia; l'etichetta della figlia perfetta, quella che non può permettersi nemmeno uno sbaglio. È davvero frustrante dover soddisfare sempre le aspettative altrui. Io non sono così, non mi avvicino neanche lontanamente all'ideale di "perfezione"e né voglio farlo. Voglio poter fare tutti gli errori, invece, che si fanno alla mia età ed imparare da essi, voglio vivere senza che il passato influenzi il mio futuro, voglio essere libera dal fardello che mi opprime nel petto.

«Una volta mi raccontavi tutto», osserva con una certa nota di delusione nella voce.

«Anche tu», dico con acidità alzandomi dal tavolo e decretando di averne avute abbastanza per questa sera. «Quando capirai che non sono più una bambina, papà?» gli chiedo puntando i miei occhi nei suoi azzurro cielo che mi guardano come se non sapessero chi abbiano di fronte.

E forse non lo so nemmeno io chi sono, adesso, ma fa male, fa male essere guardata in quel modo da lui.

Non posso sopportarlo ancora, perciò, senza permettergli di replicare, mi dirigo verso l'uscita del ristorante, seguita dal richiamo della sua voce che alle mie spalle diventa sempre più un flebile sussurro.

Una volta giunta all'aria aperta realizzo di non essere venuta con la mia auto e maledico me stessa per non aver previsto che la cena potesse rivelarsi una vera catastrofe. Non ho alcuna intenzione di chiamare un taxi, anche perché non saprei dove farmi portare, di certo non a casa; quello è l'ultimo posto in cui vorrei essere al momento. Spengo il telefono per evitare che mio padre provo a chiamarmi, estraniandomi dal mondo. Decido così di camminare, senza una vera meta, sperando che una passeggiata al chiaro di luna possa calmarmi.

Cammino sul ciglio della strada per venti minuti, fino a quando non incappo in un locale dall'insegna grande ed abbagliante che attira la mia attenzione.

Normalmente eviterei un posto simile, ma il freddo che mi attraversa le ossa e, soprattutto, la rabbia e la frustrazione che mi attraversano il sistema nervoso mi spingono a cercare rifugio al suo interno.

Una vasta sala con numerosi tavoli si apre di fronte a me, non appena varco la porta. L'arredamento è rustico, ma non vi manca certo il lusso della modernità, come il maxi schermo al plasma che trasmette una partita di basket di non so quale squadra. Alla mia destra, invece, si trova il bancone degli alcolici, rigorosamente di legno, dove i camerieri sono impegnati a servire alcuni clienti.

Mi siedo su uno degli sgabelli attendendo il mio turno. Un ragazzo dai capelli castani si avvicina a me «Cosa ti porto?» chiede. Potrei ordinare una cola o una sprite, niente di moralmente compromettente o illegale, ma per non so quale ragione mi ritrovo ad ordinare della vodka andando contro ad ogni mio principio ed abbracciando la filosofia del "sono giovane e me ne infischio".
«Hai un documento?»

Cazzo, il documento.

Ci metto un po' prima di rispondere con la scusa più banale del mondo: «L'ho dimenticato».
Allora il tipo si mette a ridere. «L'unica cosa che posso darti è un succo di frutta», asserisce, prendendosi gioco di me.
«Ehi, quanti anni pensi che abbia?» gli domando, accigliata per i suoi modi.
«Sicuramente non ventuno», sghignazza, però, che occhio che ha.
«Infatti, ne ho ventidue», dico e lo faccio mostrandomi falsamente offesa. «Mi sono laureata quest'anno».
Il ragazzo mi guarda squadrandomi dalla testa ai piedi, forse per valutare se credere o meno alle mie cavolate; ma alla fine, convinto dalla mia credibile recitazione, o forse spinto dalla pietà che gli suscito, non lo so e non mi interessa, mi porta il drink che ho richiesto.

Il primo alcolico della mia vita.

Razionalmente so che non dovrei farlo e che dovrei odiare l'alcol per come ha rovinato la vita mia e di mio fratello, ma ho un disperato bisogno di dimenticare i problemi che mi circondano, almeno per un po', e questo, al momento, mi sembra l'unico modo. E voglio provarlo.
Faccio un respiro profondo per infondermi coraggio e buttare giù il bicchiere e quando lo faccio il liquido brucia nella mia gola e tossisco, non abituata ad un sapore così forte. Tutto sommato, però, è gradevole e perciò mi ritrovo ad ordinarne un altro giro.

E un altro, e un altro ancora. Fino a quando una mano non tocca la mia spalla ed una voce non mi induce a fermarmi. «Cassie?» Anche se rallentata nei movimenti e nei pensieri, riesco a riconoscere quell'accento ispanico e così mi volto nella direzione del mio interlocutore, incrociando i suoi occhi color cioccolato. «Xavier?»

Justin

«È stato fenomenale», commenta Vanessa, ancora stesa sul mio petto.
«Sì, carino», replico io, guardando il soffitto, senza prestarle troppa attenzione.

Decido di liberarmi dalle sue grinfie, alzandomi dal letto alla ricerca dei miei vestiti sparsi per la stanza. «Mi ha stupito ricevere una tua chiamata, onestamente credevo che non ti avrei più rivisto» osserva, ad un tratto, mentre infilo i pantaloni.
«E invece eccomi qui», le dico, sforzandomi di sembrare sfacciato.

Non l'ho più chiamata, semplicemente perché non ne sentivo più il bisogno, non sentivo più il bisogno di scopare per stare bene; ma oggi, oggi non potevo farne a meno.

Avevo bisogno di una distrazione, più precisamente, avevo bisogno di non pensare a lei, la ragazza dai capelli castani che sempre più frequentemente nel corso di questi mesi ha invaso la mia mente. Quello che ho provato ieri, quando l'ho baciata, non saprei spiegarlo. A dire il vero, non saprei spiegare nemmeno l'effetto che mi fa. Non riesco a starle lontano, anche se mi dà sui nervi la maggior parte delle volte, come oggi a scuola; l'espressione sul suo volto quando ha difeso quell'idiota di Aaron non potrò dimenticarla e mi fa arrabbiare il fatto che possa fidarsi di uno come lui.

Se solo sapesse la verità.

Aaron non è affatto il ragazzo dal viso angelico che tutti pensano che sia, che lei pensa che sia. Io lo so; l'ho dovuto imparare a mie spese.

Avrei dovuto dirle che sì, sono stato io a sferrare il primo colpo, ma solo perché lui, dopo averci visto vicino al suo armadietto, è venuto da me, pensando bene di ricoprirmi di insulti e di intimarmi a starle lontano. Ed io ho resistito, facendomi scivolare tutto addosso; ma quella frase, quel "non sei degno di lei" è stata senza dubbio la cosa che mi ha fatto più infuriare. Mi ha fatto infuriare perché, in fondo, so che è vero.

«Chi è Cas?» chiede improvvisamente Vanessa, ridestandomi dai miei pensieri.
«Come?» dico, non sicuro di aver capito il suo quesito.

Come fa a sapere di lei?

La risposta alla mia domanda arriva forte e decisa, come un fulmine a ciel sereno: «Mi hai chiamato così prima, quando, sai...» mormora.

Mi si gela il sangue. Non posso crederci; ho davvero fatto una cosa del genere? Merda, quella ragazza finirà col farmi diventare pazzo prima o poi! In questo momento mi prenderei a schiaffi da solo se potessi. «Tranquillo non me la sono presa», si affretta ad aggiungere quando mi passo una mano tra i capelli, frustrato. Ho sempre adorato questo di lei; il fatto che non abbia mai voluto alcun coinvolgimento sentimentale, proprio come me. Fin da subito sono stato chiaro; "solo sesso" avevamo stabilito insieme, così abbiamo iniziato a vederci di tanto in tanto solo per procurarci piacere reciprocamente.

«Allora, chi è?» domanda insistentemente.
«Nessuno. Non è nessuno», rispondo infastidito.
«Beh, per non essere nessuno sembra davvero importante», afferma con un sorriso sul volto che è tutto dire è che non mi piace. Allora abbasso lo sguardo e per la prima volta nella mia vita mi sembra di non sapere cosa dire, perciò prende lei, nuovamente, parola: «Andiamo, Justin. Tu ed io ci siamo divertiti alla grande insieme e non scherzo nel dire che quello con te è stato il miglior sesso della mia vita...»
«Come mai sono sicuro che ci sia un "ma"?» la interrompo con tono ironico.

A quel punto mi guarda coi suoi occhi verdi e sospira. «Ma non capisco perché tu sia qui con me quando è evidente che il tuo cuore è da un'altra parte», spiega, lasciandomi stupito. Non posso credere che quelle parole siano uscite proprio dalla sua bocca che solo dieci minuti fa era impegnata ad urlare giunta al culmine del piacere, ma non ho nemmeno alcuna intenzione di restarmene qui a parlare dei miei sentimenti con lei.

Fortunatamente, vengo salvato dallo squillo del mio cellulare che mi notifica di avere un messaggio.

Da Xavier:

Vieni subito al Night, abbiamo un problema.

Leggendo quei pochi caratteri, non me lo faccio ripetere due volte: raccolgo immediatamente le mie cose ed esco da quella casa senza aggiungere un'altra parola.

***

Guidando oltre i limiti consentiti e sorpassando anche qualche semaforo rosso, raggiungo il luogo indicatomi ed una volta entrato nel locale capisco il motivo per cui il mio migliore amico mi abbia convocato con tanta urgenza.

Cassie.

La ragazza ha l'aria di divertirsi, seduta al bancone mentre conversa con un paio di idioti che, è evidente, siano alla ricerca disperata delle sue attenzioni.

Posso rompere le ossa a tutti loro ancor prima che se ne rendano conto.

«A chi va un altro drink?» le sento chiedere con entusiasmo, alzando il bicchierino tra le sue mani.
«Non a te», intervengo dalle sue spalle, il suono della mia voce la induce a voltarsi e a guardarmi con stupore. Ha le guance leggermente arrossate a causa dell'alcol ingerito ed i capelli sono un disastro, ma non posso fare a meno di pensare che sia sempre e comunque bellissima. «Hai bevuto abbastanza per oggi, la festa è finita».
«Che ci fai tu qui?» mi domanda con non tanto velato disprezzo.
«L'ho chiamato io», risponde Xavier al posto mio piazzandosi di fianco a me.
«Sì ed avresti fatto meglio a farlo prima», borbotto, fulminandolo con lo sguardo per poi tornare a concentrarmi sulla ragazza e «Sei ubriaca», constato.
«Questo non è vero», afferma, peccato non ci creda e infatti, «Oh, lo vedo», commento con ironia e tornando serio dico: «Vieni, ti porto a casa». Le afferro il polso, proprio sotto quello stupido braccialetto che le ha regalato Aaron, ma si libera con forza. Per essere sbronza ha dei buoni riflessi, devo ammetterlo.
Mi si mette davanti e «Scordatelo, non vado da nessuna parte con te!» esclama furiosa.

A quel punto, uno spilungone con una camicia di flanella si mette in mezzo, «L'hai sentita? Non vuole venire con te, lasciala stare».

Questo coglione sta davvero dando degli ordini a me?

«Grazie Will», gli risponde Cassie con fare dolce. Incredibile! A me per poco non spunta in un occhio ed, invece questo tizio che vuole solo approfittarsi di lei lo ringrazia.
Non resisto, il sangue mi ribolle nelle vene. Stringo i pugni e «Senti Will o come cazzo ti chiami, se non vuoi che ti spacchi la faccia ti conviene starne fuori», lo avverto con tono minaccioso. Il tipo sembra fare marcia indietro tornando al suo posto come un cane bastonato. Saggia scelta, non vorrei macchiare di sangue la mia maglietta nuova.

Poi torno a guardare Cassie. «Adesso porta il tuo culo fuori da qui», dico, invitandola a seguirmi, questa volta in maniera meno educata rispetto alla prima.
Tuttavia lei non molla, non disposta ad ascoltarmi. «Chi credi di essere per darmi degli ordini?» Da ubriaca è ancora più petulante e fastidiosa, grandioso.
Serro la mascella. «Non costringermi a caricarti in spalla».
Incrocia le braccia al petto e «Non lo faresti mai», afferma, sfidandomi.

Non avrebbe dovuto mettere alla prova la mia già limitata pazienza, e così, con una mossa fulminea, la prendo in braccio caricandola in spalla, proprio come le avevo detto, e la porto fuori dal locale mentre lei si dimena, gettandomi contro insulti che non fanno altro che farmi ridere.

Raggiungo la mia Range Rover infilandola nel sedile del passeggero contro la sua volontà. Mi siedo accanto a lei, al volante, ed aziono il motore sotto il suo sguardo furioso. La sento borbottare qualcosa per poi girarsi verso il finestrino.

Per quindici minuti il silenzio regna nell'abitacolo al punto tale che credo si sia addormentata. Ed allora mi chiedo cosa abbia spinto una ragazza come lei, sempre attenta alle regole ed ai limiti, a ridursi in questo stato, lei che mi ha rivelato dei problemi con l'alcol di sua madre ma prima che possa trovare una risposta, mentre percorro l'ultimo tratto di strada che ci separa da casa sua, i miei pensieri vengono interrotti per la seconda volta in questa giornata e capisco che è sveglia.

«Credevo che non ti importasse niente di me», mormora assumendo un tono di voce più consono alla Cassie che conosco.
«Ti sbagliavi», le dico semplicemente, senza togliere gli occhi dalla strada.
«Ma hai detto che...» La interrompo prima che possa terminare la frase, «Ho detto che non mi importa ciò che pensi di me, non che non mi importi di te», preciso.
C'è il silenzio e poi «Comunque, penso che tu sia una bella persona», mi rivela ed io sento qualcosa accendersi nel mio petto. Mi concedo il privilegio di levare lo sguardo dalla strada e guardarla un istante, finendo con incrociare i suoi occhi scuri e profondi.

Io? Una bella persona? Mi viene difficile crederlo.

«Lo dici perché sei ubriaca», osservo, dopo essere tornato a concentrarmi sulla guida.
«Gli ubriachi non dicono sempre la verità?» fa lei.
«C'è sempre un'eccezione», obbietto, tuttavia non posso impedire ad un piccolo sorriso di formarmisi sulle labbra.
«Dovresti darti una possibilità», la sento controbattere, però questa volta non le rispondo.

Impugno saldamente il volante quando «Justin, posso chiederti una cosa?»
«Certo», le dico, anche se non so che pensare.
Allora, Cassie mette una mano sopra la mia, poggiata sul cambio della macchina. Quel lieve, ma intenso, contatto mi induce a riportare l'attenzione su di lei e sul suo sguardo supplichevole. «Non portarmi a casa, per favore».

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