Uomini e Dei - La luna di nes...

By Thimm_Nuruodo

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Nati da Dei egoisti e imperiosi e umani sempre a caccia di potere e denaro, i Semidei affrontano la vita sott... More

Introduzione.
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By Thimm_Nuruodo

Per le strade aleggiavano puzza di carburante e detersivo.

Le città di Culmon non erano decisamente un bel posto per passeggiare, ,a a Dlomar l'inquinamento ambientale si univa a quello acustico ai limiti del sopportabile; per la gente che viveva lì, doveva essere una situazione abituale, ma per i visitatori, era qualcosa di insostenibile.

Un paio di Mendicanti all'entrata di un portone tendevano le braccia verso i passanti, mugolando richieste incomprensibili.

Quando uno dei due vide una moneta cadergli sulla mano, restò decisamente sorpreso: alzò gli occhi per vedere chi fosse stato, ma non riuscì a distinguere il benefattore tra la gente. Questo, infatti, aveva continuato a camminare col capo reclinato e le mani nelle tasche, in maniera decisamente anonima.

Svoltò in una traversa, la percorse fino in fondo, poi girò a sinistra, passando sotto l'insegna di un ristorante che emanava puzza di fritto.

La via in cui si trovava era molto stretta, permettendo a malapena il passaggio di un'automobile. Una coppia stava pomiciando sull'uscio di un portone; quando lui passò alle loro spalle, si interruppero, lo osservarono allontanarsi, e ripreso la propria attività.

Arrivò a una scalinata che scendeva a lato della strada. Scese rapidamente i gradini consumati, sui quali erano state abbandonate un paio di bottiglie di alcolici; in fondo, un vicolo in cui i lampioni erano spenti si apriva minaccioso.

L'uomo proseguì il suo percorso senza neanche accendere una torcia, procedendo come se conoscesse la strada a memoria; eppure, non era di Culmon.

Sentì qualcosa muoversi a pochi passi da lui, al che si fermò. Riconobbe la sagoma di un uomo che, barcollando, si stava avvicinando. «Ehi, tu» biascicò. Un acre odore di alcol arrivò alle narici dello straniero.

Siccome non riceveva risposta, il bevitore parlò di nuovo: «Amico, ci sei? Faresti un favore per un povero bisognoso?»

«Che vuoi?»

«Mi bastano pochi spiccioli, devo comprare un'altra bottiglia, questa è finita» fece, indicando l'oggetto che aveva in mano.

«Risparmia i soldi e smetti di bere».

«Dai, amico, ne ho bisogno!» biascicò quello facendosi sempre più vicino; ormai, lo straniero poteva quasi vederne i lineamenti.

«Lasciami stare». Il suo tono era calmo, fermo, autorevole.

«Ti prego, amico!».

L'uomo riprese il suo cammino, passando accanto all'ubriaco; udì uno scricchiolio e con la coda dell'occhio colse un movimento, il che gli bastò per capire di essere in pericolo. Si voltò di scatto e sollevò una mano, con la quale afferrò la bottiglia che era diretta alla sua testa.

«Dammi i soldi!» gridò, come trasformato, il bevitore. Lo straniero gli strappò la bottiglia di mano e la lanciò contro un muro, frantumandola.

L'ubriaco gli si scagliò contro urlando, cercando di colpirlo in faccia. Lo straniero si riparò dai pugni senza reagire, finché l'altro non gli sferrò un calcio vicino all'inguine.

«Adesso basta». Alla voce autorevole, ma un po' meno calma, si accompagnò una ginocchiata che prese l'ubriaco all'altezza dello stomaco. Rimase senza fiato e, tossendo, si accasciò lentamente a terra, tenendosi la pancia.

«Vai a infastidire qualcun altro. Non ho tempo per te».

L'uomo si allontanò silenzioso, lasciando il bevitore a terra.

Non avveniva di rado di incontrare individui del genere nei bassifondi di Dlomar, per cui le persone, in quelle zone, usavano girare armate, a meno che non fossero in grado di difendersi a mani nude. Era questo il caso dello straniero il quale, ripreso il suo cammino, era praticamente arrivato a destinazione. Si era, infatti, fermato presso un palazzo a tre piani pieno di crepe e con pezzi di intonaco mancanti.

Estrasse una chiave dai pantaloni e la infilò nella serratura della porta d'accesso, la quale si aprì con un cigolio.

Un odore di muffa e di legno fradicio arrivò fino alla strada. L'uomo entrò, arricciando il naso, e si ritrovò in un corridoio angusto, in fondo al quale c'erano delle scale. Scese al piano inferiore, dove un corridoio speculare ospitava ben quattro porte.

Accesse la luce, prese un'altra chiave, e con questa aprì la prima entrata a destra, scivolando rapidamente in una stanza di dimensioni infime. L'arredamento si limitava ad un paio di armadi polverosi, un tavolo e due sedie a sdraio; nessun oggetto sembrava essere stato toccato o usato negli ultimi mesi.

L'uomo si richiuse la porta alle spalle, quindi schiacciò l'interruttore arrugginito sul muro, illuminando lentamente la stanza. Rimase in ascolto qualche secondo, poi poggiò le mani su uno dei due armadi e iniziò a spingerlo lontano dall'altro, cercando di fare poco rumore.

Alle spalle del mobile si trovava una nicchia nella parete, in cui era alloggiata una radio. L'uomo la accese e cercò una frequenza che trovò subito; dall'altro capo rispose una voce maschile: «Allora?» chiese, come se stesse aspettando solo quella chiamata.

«Tutto secondo i piani».

«Bravo, Stormev, sono molto soddisfatto. Ci sono stati intoppi?»

«Nessuno».

«Perfetto. Da ora in poi, ogni passo andrà fatto con estrema cautela».

«Lo so».

«Sai cosa fare».

«Certo. Cosa devo fare con gli Agenti?»

«Sono arrivati alla stazione, giusto?»

«Esatto».

«Non te ne curare più».

«Mi cercheranno». Stormev non era granché preoccupato, ma non voleva correre rischi inutili.

«Non sanno niente di te».

«Mi hanno visto».

L'uomo dall'altra parte ridacchiò. «Come se bastasse un identikit per trovarti. So quanto sai essere furtivo: ti basterà stare lontano dalle pattuglie».

«Come sempre».

«Quanto ti hanno chiesto al porto?»

«Quarantamila».

«Il tuo contatto sta iniziando a diventare esigente» si lamentò l'altro.

«Magari perché le mie richieste sono sempre più frequenti, ultimamente» commentò Stormev senza celare una sottile critica.

«Di qui a poco non ci servirà più e potrai dargli il benservito».

L'uomo sorrise, immaginando il momento in cui avrebbe spaccato la faccia a quel verme di Gintelle. «Non vedo l'ora».

«Aggiornami quando ci sono novità. Ora vai, o ti farai scoprire».

Chiusero il canale e Stormev si sbrigò a rimettere l'armadio al suo posto. Poi, dopo essersi assicurato che non ci fossero rumori di passi, uscì dalla stanza, guardandosi attorno circospetto; il corridoio era deserto, come prima, perciò imboccò le scale e tornò in strada.

Fece il percorso a ritroso, fino a tornare alle vie più frequentate. Aveva già una meta in mente, ma volle fare comunque una deviazione: disponeva di un po' di tempo, e stava a lui scegliere come utilizzarlo.

Passò di strada in strada, giungendo, alla fine, a un vicolo in fondo al quale c'era un edificio sul quale appariva la scritta: Corpo di Sicurezza Interplanetario.

C'era un solo Agente all'ingresso, rivolto verso il portone. Stormev avanzò con disinvoltura, tant'è che quello, voltatosi a guardarlo, tornò subito alla propria occupazione.

Stormev notò che da un palazzo vicino alla stazione stavano uscendo due donne; raggiunse l'ingresso affrettando il passo e, salutate le due come se le conoscesse, si infilò all'interno.

Prese l'ascensore fino all'ultimo piano, dove c'era una grossa finestra che si affacciava proprio sul vicolo. Si appostò lì, prestando attenzione a eventuali rumori che potessero rivelare l'uscita di qualcuno dagli appartamenti sul piano.

Non dovette aspettare molto: dopo circa mezz'ora tre uomini con divise diverse dagli altri Agenti di Dlomar uscirono dalla centrale. "Sono loro".

Usò di nuovo l'ascensore per scendere al pianterreno e uscì fuori, riuscendo a vedere i tre svoltare l'angolo a destra. Raggiunse in fretta la fine del vicolo e li vide camminare tranquillamente, guardandosi intorno curiosi. "Non li seguire" si impose.

Decise di darsi ascolto, e così cambiò strada, rimanendo comunque desideroso di sapere dove stavano andando. "Sembravano sereni, quindi vuol dire che sono stati riconosciuti. Probabilmente affideranno loro qualche compito poco importante".

Adesso doveva concentrarsi sul piano.

Si mosse a piedi, camminando rapidamente per le strade. Man mano che il tempo passava, il viavai di pedoni iniziò a diminuire, a causa della ripresa dei turni lavorativi dopo la pausa pranzo; ciò gli permise di andare più spedito, raggiungendo alla fine il suo obiettivo.

Si trattava di un ristorante piuttosto chic, all'attico di un palazzo del centro. Dalla strada non era possibile vederne l'interno, ma numerose insegne ne segnalavano la presenza.

Entrò nel palazzo e si diresse subito all'ultimo piano; uscito dall'ascensore, però, venne fermato da un cameriere in abito elegante: «Il ristorante è chiuso» gli disse in maniera quasi brusca.

Stormev spinse lo sguardo alle spalle dell'uomo, e intravide subito un uomo armato di pistola che osservava la scena. "Devo farlo venire qui".

«Sono disposto a pagare di più pur di mangiare qui: erano mesi che volevo assaggiare la vostra cucina» inscenò abilmente.

Il cameriere sbuffò e, voltatosi, si scambiò dei gesti con l'uomo armato. Questo si avvicinò con calma, quindi si rivolse a Stormev: «Al momento l'area è riservata. La preghiamo di tornare stasera o in un altro momento».

«Vi prego, farei di tutto pur di mangiare qui!»

«Purtroppo non è possibile: ora deve andarsene» lo incitò.

Stormev era a un paio di spanne dall'uomo armato, il quale teneva la pistola bassa, all'altezza del bacino. "Perfetto". Con un gesto fulmineo afferrò la mano dell'uomo che stringeva l'arma e la spinse contro le sue parti intime; al contempo, con l'altro braccio, lo colpì al volto con estrema forza, sbilanciandolo.

Nell'arco di un secondo, Stormev si era appropriato della pistola, e l'uomo giaceva a terra dolorante. Il cameriere era visibilmente shockato: tremava e non riusciva a muoversi.

«Mi dispiace» disse Stormev un attimo prima di premere due volte il grilletto. Il cameriere si accasciò a terra col sangue che si spargeva rapidamente sui suoi vestiti bianchi. Sparò un altro colpo, dritto alla testa dell'uomo armato, quindi avanzò verso i tavoli del ristorante.

Erano accorse altre due persone armate che, sentiti gli spari, puntarono subito le proprie armi contro l'omicida; lui rovesciò un tavolo con un calcio e vi si accovacciò dietro, proteggendosi dai proiettili.

Attese che arrivassero al punto di dover ricaricare, poi scattò fuori e riempì entrambi di colpi per assicurarsi che fossero morti. Prese da terra uno dei caricatori che stavano per usare e arrivò finalmente alla sua preda: un uomo dai capelli bianchi che teneva le mani in alto e singhiozzava.

«Non abbia paura: non intendo farle alcun male» esordì Stormev con un inappropriato sorriso beffardo stampato in faccia. «Sono qui per recapitarle un messaggio da parte di Firsa: non opponete resistenza e unitevi a noi. A breve Skara verrà conquistata, e se Culmon non sarà dalla nostra parte, farà la stessa esatta fine».

L'uomo annuì ripetutamente.

«Siccome non mi fido delle promesse» continuò Stormev guardandosi intorno, «preferirei che comunicaste questo messaggio adesso».

Fece segno all'uomo di alzarsi, quindi lo condusse fino a un mobile sul quale era montata una radio. «Faccia lei. Vorrei che il messaggio arrivasse a tutti i politici della città e, se possibile, di Culmon» disse Stormev con voce calma e pacata, come se stessero chiacchierando amichevolmente.

L'uomo selezionò una frequenza con le mani tremanti, e con la voce che vibrava vistosamente si identificò: «Qui parla l'Assessore Bofioli».

«Salve, Assessore».

«Ho un messaggio per i miei colleghi e per il Sindaco». Stormev gli fece segno di includere più gente. «E anche per il resto di Culmon».

«Dica pure».

«Dobbiamo allearci con Firsa. Skara verrà conquistata a breve, e se Culmon non si alleerà con Firsa, subirà la stessa sorte».

«Come scusi? Può ripetere?» fece la voce dall'altra parte, probabilmente pensando che l'Assessore stesse dando di matto.

«Dobbiamo unirci a Firsa, altrimenti sarà la fine».

Bofioli fece appena in tempo a vedere lo sguardo compiaciuto di Stormev che un proiettile gli sfondò la fronte, spargendo sangue ovunque.

Dal trambusto in strada, era facile dedurre che gli spari erano stati notati: a breve sarebbero arrivate le forze dell'ordine; anzi, secondo Stormev dovevano trovarsi a pochi isolati di distanza. Non aveva molto tempo.

Corse fuori dalla sala del ristorante e iniziò a percorrere rapidamente i gradini fino al piano sottostante, quindi rallentò. Sentì numerosi passi provenire dal basso, insieme alla voce autoritaria di qualcuno che dava ordini. "Perfetto".

Controllò che avesse del sangue addosso: grazie all'ultima uccisione, i suoi vestiti presentavano vistose chiazze rosse un po' ovunque.

Verificato ciò, iniziò a urlare: «Aiuto! Aiuto! Vi prego aiutatemi! Ci ucciderà tutti!»

I passi si avvicinavano rapidamente, e passato qualche secondo vide comparire quattro agenti. «È ferito?» gli chiesero abbassando le armi.

Stormev scosse la testa. «Io no, ma quella gente...»

«Quale gente?»

«Al ristorante»

Partirono imprecazioni da tutti e tre. «Va bene, lei vada di sotto, ci pensiamo noi». Salirono in fretta un paio di rampe, quindi Stormev li senti rallentare il passo e farsi più cauti in prossimità dell'ultimo piano.

Lui continuò a scendere, e una volta fuori trovò una discreta folla tenuta a bada da una squadra della polizia. Quando lo videro uscire, in molti sfuggirono al controllo degli agenti e gli si fecero incontro per fare domande.

«State indietro! Indietro! Potrebbe essere ferito!»

Stormev approfittò dell'inserimento dei poliziotti per fingere di inciampare e tirarsi il cappuccio in testa. Si voltò come a guardare nel punto dove si trovava fino a poco prima, quindi indietreggiò rapidamente per far passare gli agenti.

Dovette spingere alle proprie spalle ancora per poco, poi sbucò finalmente fuori dalla folla. C'era comunque gente intorno che osservava la scena, e di certo non gli sarebbe bastato un cappuccio per passare inosservato, ma come sperava che avvenisse, in quel momento due degli agenti all'interno si affacciarono alle finestre del ristorante: «Ha ucciso cinque persone, ma adesso non è più qui! Chiamate rinforzi per cercarlo!»

All'udire la notizia, la folla impazzì: iniziarono tutti a urlare e a scappare lontano dal ristorante, senza badare a niente e nessuno. Era l'occasione perfetta per fuggire.

Stormev si unì alla corsa generale, certo di non essere notato; infatti, riuscì a lasciarsi alle spalle svariate centinaia di metri viaggiando al fianco dei cittadini impauriti. Quando questi si fermarono per riprendere fiato, ormai tranquilli, lui prese un'altra via, cercando di evitare aree troppo illuminate in cui qualcuno potesse notare il sangue sui suoi abiti.

"Devo cambiarmi" pensò preoccupato. In teoria avrebbe dovuto sporcarsi solo la giacca, in modo da poterla levare, ma purtroppo le macchie si erano espanse anche sulla maglietta sottostante, ed erano impossibili da non notare.

Non aveva una casa dove andare, né amici a cui chiedere. Era perciò costretto a procurarsela in qualche modo.

Si avviò verso i sobborghi, in una zona lontana dalla cantina dove nascondeva la radio; iniziò a guardare ai lati della strada, dove tra i cumuli di rifiuti ogni tanto emergevano degli indumenti.

Ne controllò svariati, e alla fine trovò un impermeabile color verde scuro che poteva fargli comodo. Lo indossò sopra la giacca, sforzandosi di non respirare troppo intensamente per non farsi sopraffare dalla puzza nauseante. Con quello addosso, avrebbe potuto trovare con calma qualcosa di pulito e comodo.

"Anche questa parte del piano è compiuta" si fermò a pensare dopo aver indossato l'impermeabile. "Manca poco prima che tutto abbia inizio".

Ripensò ai tre Agenti. Forse, in fondo, un po' gli dispiaceva di averli delusi: aveva salvato loro la vita, li aveva portati su Culmon e poi li aveva abbandonati di nascosto. Come potevano non odiarlo?

"Sono tasselli di un grande mosaico: non importa cosa pensano".

Spesso ragionava così: non si curava delle singole persone, pensava all'insieme. Le morti dell'Assessore Bofioli, della sua scorta e del cameriere erano state necessarie per un piano più grande, perciò non ne sentiva il peso. Sapeva che avrebbe dormito tranquillo, libero della morsa dei sensi di colpa, consapevole di essere l'autore di qualcosa di davvero importante, qualcosa di rivoluzionario.

"Dovrò sparire per un po', agire assolutamente nell'ombra, finché non sarà tutto iniziato. A quel punto sarò libero".

Non aveva pianificato altre azioni eclatanti come la strage del ristorante. In origine non voleva uccidere nessuno, per riuscire nella sua missione: ma i tempi si erano stretti, e l'unico Assessore che poteva trovare in un posto quasi deserto era Bofioli. Infatti, ad eccezione della scorta e del personale del locale, il ristorante era deserto.

Aveva dovuto indagare, e non poco, per scoprire quelle informazioni. Aveva dovuto fare ricerche anche sulla scorta del politico, sui suoi orari, sul luogo, sulle possibili vie di fuga. I suoi colpi erano sempre pianificati al minimo dettaglio: non falliva mai.

L'unica cosa che gli dava fastidio e della quale si accusava, era la poca cura che aveva avuto per non farsi riconoscere. Certo, aveva ucciso tutti i testimoni oculari, ma i poliziotti, alla fine, potevano arrivare alla conclusione che l'uomo incontrato per le scale doveva essere l'assassino; magari avrebbero potuto cercarlo anche solo per interrogarlo.

In ogni caso, sarebbe stato obbligato a stare ancora più alla larga dalla polizia, e la cosa non gli piaceva affatto, in quanto i suoi movimenti sarebbero stati limitati più del solito.

Rassegnato a dover vivere, per un po', da latitante, si avviò verso la periferia più estrema, in prossimità del lago Herveic. Sarebbe passato facilmente inosservato nell'area del porto navale, in mezzo al ladruncoli che si aggiravano lì.

Si tirò il cappuccio sulla testa e si avviò a capo chino con un sorrisetto a increspargli le labbra: era soddisfatto di sé.

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