L'ansia era sempre stata una presenza oscura nella mia vita. Talvolta si nascondeva negli anfratti dei miei pensieri, incupiva un poco i miei sorrisi. Altre volte, invece, divampava come un fuoco nero, si aggrappava alle mie spalle e mi tirava giù con lei, giù, sempre più giù...sino a sciogliermi, sino a spolparmi anche le ossa. Lei, quella puttana, rideva nel sapermi accalappiata, si dibatteva nelle mie vene, feroce e intransigente,
e in quel momento, in quell'istante più che mai, era tornata a ringhiare.
Mi urlava nelle orecchie, tirava i miei capelli, graffiava la mia pelle. La sentivo addosso, appiccicata al mio corpo come afa estiva, avvolta in mille spirali attorno al mio collo. E pregava che io mi sbrigassi. Che accelerassi il passo, o che tornassi indietro, o che pianificassi qualcosa, qualsiasi cosa. Mi tormentava, mi struggeva, si dibatteva con veemenza inaudita, mordendo, graffiando combattiva.
E io non potei che assecondarla.
Sgambettai ancora a lungo col cuore in gola, il respiro affannato, gli occhi umidi, rilucenti di mille emozioni liquide che pregavano di riversarsi sulla mia pelle fustigata dal vento.
Poi c'ero io che tentavo di lasciar correre. Che tentavo di non riportare alla mente quello sguardo ruvido e intransigente. C'ero sempre io che, pur col battito a mille, mi sentivo sprofondare nel cemento ad ogni passo.
Era strano, se non incomprensibile: non si poteva descrivere quella sensazione, ché il panico ha un modo tutto suo di irradiarsi nel sangue.
Dunque vagai senza seguire una meta prefissata. Me ne stavo lì, a lato delle strade, cheta e muta, con i tremiti a farmi sussultare le spalle.
Finché non arrivò l'ora di pranzo, e decisi di accendere il telefono.
Non seppi definire con accortezza il pericoloso cocktail di emozioni esplosive che mi parve di ingurgitare, eppure quel mix velenoso mi infiammò le pareti della gola, estirpò il respiro dai miei polmoni.
Le chiamate perse di mio padre erano 28. Mio padre, Alexander Dekker, mi aveva cercata per 28 volte. 28 tentativi, ma nessuno risultato, nessun mio avvicinamento. 28 fottute telefonate.
Controllai i messaggi ricevuti in parallelo: da docili richieste di risposta a insulti violenti, minacce masticate a fatica. Ingoiai quella che mi sembrò essere una vischiosa palla di colla, e risposi in maniera scostante
(le mie dita tremavano)
Io sto bene. Ma tu...tu non cercarmi più.
Lo buttai lì così, senza pensare alle conseguenze - ché il mio cervello si era fatto da parte quando avevo abbassato il capo, ormai fuori di casa, e mi ero lasciata ingurgitare dalla notte.
Dunque spensi di nuovo il telefono.
Lo riposi in tasca, lì dove nessuno avrebbe potuto toccarlo, lì dove lo avrei sentito contro la carne - come se esso avesse rappresentato l'unico legame che mi ancorava gelosamente alla realtà, e allo stesso tempo una bomba in procinto di esplodere. Magari entrambe.
Trascorsi le due ore successive seduta sul bordo di un marciapiede. Sguardo vuoto puntato a terra, mento poggiato sulle ginocchia, mani contratte contro il ventre. Tentavo e ritentavo pateticamente di non pensare a ciò che sarebbe accaduto di lì a poco - ignoravo quella consapevolezza, ma essa si appesantiva mano a mano, si faceva più densa e scura come una coltre di lacrime grigie.
Ché i soldi sarebbero finiti presto. Ché sarei stata costretta a rubare, o a tornare indietro, o a dormire per strada, o a morire di fame.
Quell'impasto amaro colò lentamente sulla mia lingua, si espanse in gola, mi rese complicata l'insulsa azione di respirare. Nel frattempo lo stomaco mi si annodò - facendosi gonfio e pesante - si dimenò sotto la carne. Il terrore gli chiuse la bocca, lo costrinse al silenzio.
Io provai a rimangiare il rimorso che sentivo. Percepivo la mia mente correre ferocemente, aggrapparsi ad appigli virtuali, illudersi che lo scorrere degli eventi avrebbe evitato che tutto finisse in tragedia...ma sapeva che così non sarebbe stato mai, perché ero sola in una città che non conoscevo, con duecento sterline in tasca, con le voci stridule di sconosciuti che già masticavano insulse storielle su di me - una strana ragazza con un pesante borsone al collo e un brutto taglio sul labbro, con gli occhi gonfi di terrore e di spaventosa tristezza.
Avrei rubato. Prima o poi sarei diventata come ciò che avevo sempre giurato di disprezzare. Mi sarei trasformata in una ladra, perché i soldi sarebbero finiti, e non avrei più avuto vie di scampo, e sarei stata sola, così, ad affrontare un mondo che non avevo ancora conosciuto.
Mi alzai col cuore che pesava come un mattone. Spazzolai con calma il retro dei miei pantaloni, trascinai dolcemente la guancia contro la spalla per darmi conforto. Mi persi a guardare il vuoto, poi chiusi gli occhi per un attimo.
Quando spinsi pacatamente la porta di un piccolo market a ridosso di un quartiere familiare, mi accolse un docile tintinnio di campanello.
I miei occhi si riempirono di numerosi sprazzi di colore: diversi scaffali ricolmi di prodotti davano mostra di sé, eppure mai come allora mi procurarono la nausea.
«Buongiorno.» Così mi salutò il proprietario del negozio. Quel suono mellifluo mi graffiò le orecchie e mi costrinse a voltarmi verso il bancone dietro al quale il signore si nascondeva, le mani già poggiate sulla cassa, il sorriso ad incavare le sue guance paffute. Lo osservai un momento, ingorda di dettagli, come riscossa da un sonno profondo.
Impressi bene in mente il lampo di terrore che gli attraversò lo sguardo quando quest'ultimo si posò sulla brutta spaccatura che decorava le mie labbra. Si fermò lì, gelato dalla confusione, incerto sul da farsi.
Non doveva avere più di sessant'anni, e portava con sé la dolce traccia dello scorrere del tempo. Dunque rimase immobile, coi capelli appena spettinati sulla nuca e le labbra sottili strette in una linea priva di sbavature.
Poi parlò.
«Signorina, va tutto bene?»
Oh, l'apprensione nella sua voce. Oh, quel dolce sentore di preoccupazione - quella deliziosa consapevolezza d'essere importante.
Io annuii un poco incerta, ché una stretta al ventre rischiò di farmi capitolare. Stavo per rubare, stavo per rubare. Stavo per ferire quel povero signore dagli occhi buoni, portandomi via il frutto del suo lavoro, e quindi abbassai gli occhi, sentii il senso di colpa ruggire e graffiarmi la nuca, e mordere, affondare i denti affilati nel mio ventre contratto dalla disperazione.
Sparii prima che potesse vedere il mio mento tremare. Mi infilai di fretta nel primo reparto, nascondendomi furtiva dietro quegli alti scaffali. Poi iniziai a pensare.
Più il tempo si dissipava in deboli nubi di fumo, più io mi convincevo di dovermi sbrigare, ché non è mai una buona mossa tenere i piedi bloccati in due fosse separate. Avrei dovuto pensare in fretta ad una decisione - i soldi mi servivano, erano più indispensabili a me che a lui. Quale pensiero egoistico...
Nel silenzio di quella giornata ventosa, afferrai quatta quatta una confezione economica di crackers. Poi aprii il borsone con le mani che tremavano, che si inceppavano, le cui falangi si incrociavano dispettose. Sembravano rifiutarsi di compiere un tale scempio.
Gettai dentro ciò che afferravo. Prima ancora di pensarci! Fu poi il turno di un pacchetto di barrette ai cereali. Frettolosa, scattante, ma incerta. La mia mente continuava a interrogarsi.
Nel giro di quattordici ore ero scappata di casa, avevo abbandonato una vita intera di abitudini e routine fossilizzate, ero giunta in una città che non conoscevo, e avevo preso la decisione di rubare in un market pressoché vuoto e spoglio.
Un sorriso amaro mi incise le guance e il cuore, ma i miei occhi rilucevano di pura delusione. Emozione che parve ardere e strillare nell'osservare le mie mani afferrare avide, i miei piedi spostarsi veloci da un punto all'altro del reparto.
La plastica delle confezioni che afferravo scricchiolava piano tra i miei palmi, eppure - eppure dopo non percepii più niente. Non vi era suono, lì, oltre al mio affannarmi. Ciò mi colpii con la forza di una percossa, e il senso di colpa si annodò intorno al mio collo pallido. Finii per paralizzarmi di fronte ad una confezione di merendine zuccherate.
Poi il nastro fu interrotto dal docile scampanellio della porta che si apriva, portando con sé un fastidioso accavallarsi di voci maschili.
«Harry, Jake! Che piacere vedervi, ragazzi.»
Con questa frase il nastro si riavvolse. Un solo scaffale ricolmo separava me da quel gruppo di conoscenti, da quel dolce negoziante e da quei due ragazzi che davano mostra delle loro voci melliflue e sguaiate. Mi bloccai col cuore in gola, con le mani paralizzate a mezz'aria. E rimasi in ascolto, come se respirare precludesse l'essere uccisa.
«Siete venuti a trovarmi?»
«In realtà siamo passati a fare acquisti.» Percepii il sorriso nella sua voce. Una smorfia gioiosa che gli masticava le guance e che si poteva cogliere facilmente da quelle parole strascicate piano tra i denti.
«Acquisti di che genere?»
Qui arrivò il privo brivido lascivo.
«Beh-» rise il ragazzo con voce incredibilmente profonda, «andiamo, vecchio, ci conosci.»
Ignorai il sentore di preoccupazione che mi percorse la spina dorsale e strinsi tra le dita un pacchetto di patatine. Eppure...eppure rimasi in ascolto. La mia curiosità si nutriva di quella strana conversazione.
«Ancora alcool, Jake? Quando la finirete?»
«Mai, mai e poi mai.»
Un sospiro seguì quelle parole, poi il silenzio calò nel piccolo negozio di Tadcaster.
E fu come veder calare la notte. Come osservare uno spesso lenzuolo nero posarsi su neve gelida e candida, ché quell'assenza improvvisa di suono mi fece tremare le membra. Le percepii inzupparsi di veleno, di arsenico marcio e puro, e far scattare tutti i miei campanelli d'allarme - che il silenzio preclude il caos. Sempre. Sempre.
Dunque ingoiai a fatica un grumo di saliva spesso e appiccicoso come colla, che si strinse in gola e si dilatò di secondo in secondo. Pensai che avrei dovuto essere più accorta e sveglia, o che almeno avrei dovuto prevederlo. Che avrei dovuto immaginare ciò che la mia follia mi avrebbe presto causato.
Perché quando mi sporsi curiosamente oltre gli scaffali, quando posai i miei occhi spalancati sul bancone del negozio, quando le mie pupille si nutrirono di quei numerosi dettagli, mi ricordai che i ragazzi entrati nel piccolo negozio dovevano essere almeno due. E lì, immobile e rigido come un fuscello, ve n'era soltanto uno.
Solo allora mi sentii annegare nella mia stessa disperazione. Perché finalmente li percepii ancora,
quegl'occhi,
li avvertii sulla mia pelle una seconda volta. Con più forza di prima, con maggiore bruschezza. Più distintamente mi corsero addosso, premettero sul mio corpo come artigli pronti a lacerarlo.
Mi voltai verso la parte opposta del reparto, e lo trovai lì. Lì dove la mia pelle lo aveva già percepito, prima ancora che i miei occhi ci si schiantassero addosso.
E colsero nell'immediato il terrore e la sorpresa che quella visione mi provocò, come se fossi in procinto di essere estirpata da un'onda titanica blu pece.
Dunque mi infransi in mille scheggie di vetro, eppure rimasi immobile, con i palmi ancora stretti intorno alla prova tangente della mia colpevolezza.
Smisi soltanto di respirare. Il fiato mi si arrestò in bocca, sotto la lingua, e sulla mia pelle si cristallizzarono brividi feroci. Quella pelle d'oca...la traccia esibita del suo sguardo, che mi rendeva vittima di una strana sensazione di assoggettamento, di...sottomissione.
Tuttavia...tuttavia lui non si mosse.
Divenne presto il mio riflesso, una statua di sale raggelata sui propri passi, incerta, incredula, sconvolta.
Mi riconobbe nell'immediato - lo percepii. I suoi occhi si inchiodarono sul mio viso con una familiarità che nessuno dei due poteva nascondere o rifiutare. Eppure lui parve mettere da parte quella strana sensazione formicolante, e puntò feroce ciò che le mie mani tremanti stringevano disperatamente. Capì.
In quel momento, nell'istante in cui la realizzazione gli distorse i lineamenti, potei percepire con chiarezza il muscolo cardiaco contrarsi dolorosamente, dibattersi disperato nel petto, affondare con vergogna nello stomaco, corrodersi, disintegrarsi. E gridare.
Il mio cuore gridò grondando sangue avvelenato, ché gli occhi del ragazzo tornarono nei miei - come se avessero avvertito l'impellente necessità di specchiarvisi. E vi lessi un odio che mai avrei potuto dimenticare. Mi si appiccicò addosso quel disgusto malcelato, quel biasimo umiliante.
Dunque feci l'unica cosa che il mio corpo pregava disperatamente di fare: mi abbandonai al panico e, dopo essermi voltata - dopo aver rotto, strappato, stracciato quel sottile filo invisibile che univa i vostri sguardi - mi lasciai trascinare dai miei stessi passi: iniziai la fuga.
Ho diviso il capitolo in due parti per non renderlo troppo lungo e pesante. Nel prossimo avremo il primo vero incontro tra Harry e Maia. Hehe.