Ho sempre amato gli aeroporti. Hanno un non so che di romanzesco e romantico. Le cose lí finiscono e iniziano. Si parte e si arriva. Ma soprattutto, le destinazioni possono essere di ogni tipo.
Uscii dal taxi respirando a pieni polmoni, per l'ultima volta l'aria di Londra. Dio, tre settimane alle Bahamas. Mi sembrava un sogno.
Afferrai il manico della mia valigia, e affiancata da mio padre che si trascinava insieme al signor Nelson i dieci borsoni di Genivieve Adler, la quale aveva deciso categoricamente di non rivolgermi la parola per i prossimi giorni.
Il che era una cosa positiva, contando il fatto che non avrei dovuto ascoltare le sue lamentele.
-Alloggeremo al Royal Grand Hotel, visto che qualcuno non vuole viversi le vacanze in santa pace in una maledetta villa lontano da tutti-, e detto questo l'uomo accanto a me scoccò un'occhiataccia che mia madre ricambiò a testa alta. Si sistemò i capelli castani già perfettamente curati e continuò a camminare come se nulla fosse.
Ridacchiai. Il signor Nelson sbuffò.
Quando finalmente trovammo un carrello libero, vicino all'entrata mio padre sembrò esclamare qualcosa come "Libertà", prima di farci cenno di andare verso il check-in, mentre lui sbrigava qualche commissione.
Ficcai le mani nelle tasche dei miei pantaloni di cotone leggeri, mentre mia madre esprimeva il volere di prendersi un tè al bar. Roteai gli occhi e lasciai che il nostro maggiordomo andasse con lei.
Non avevo assolutamente intenzione di passare in silenzio con lei qualcosa come più di dieci minuti.
Mi guardai intorno, da sola nello spazio enorme e decisi di accomodarmi nel posto accanto all'enorme vetrata che dava su Londra. Scrissi un messaggio a John chiedendogli se poteva tenermi compagnia, ma non gli arrivò. Aveva il telefono spento.
Sbuffai.
Stranamente in quella parte dell'edificio non c'era praticamente nessuno, se non un piccolo via vai di persone che ben presto cessò.
Alzai distrattamente lo sguardo, e solo allora mi accorsi che c'era un ragazzo con le spalle ricurve e gli occhi fissi sul cellulare, di fronte a me. Nelle cuffiette c'era della musica metal sparata talmente forte che riuscivo a sentirla persino io.
Senza pensarci due volte mi spostai nella sedia di metallo accanto a lui.
Non accennò alcun movimento.
Il ragazzo storse semplicemente il naso dritto, come se avesse il raffreddore, e continuò a tamburellare con i pollici sullo schermo.
Sembrava concentrato.
Di tanto in tanto muoveva il piede sinistro in una specie di tic nervoso. Tutto questo senza ad accennare alcun altro movimento.
-Nessuno ti ha mai detto che fissare la gente è segno di maleducazione e possibile malattia mentale?-
Sobbalzai sul posto, e sentii le mie guance diventare dello stesso colore dei capelli che avevo fino a qualche giorno prima. Inaspettatamente volli che fossero ancora lunghi, così che potessi nascondere il mio imbarazzo.
- Non ti stavo fissando-
- Mhm-
- E poi non è carino insultare gli altri-
- Esattamente come non è carino fissarmi come una psicopatica-, concluse calmo scrollando le spalle con nonchalance.
Finalmente alzò gli occhi su di me, che scoprii essere di un magnifico colore grigio, e inarcò un sopracciglio. -Hai finito?-
-Finito cosa?- sbottai, incrociando le braccia al petto. Non rispose, tornando a rivolgere la sua attenzione sullo schermo.
-Anche tu prendi l'aereo?-, domandai a un certo punto. Al mio quesito, il ragazzo sembrò reprimere l'istinto di strangolarmi, per poi tornare alla sua espressione che non esprimeva proprio un'emerita fava.
-No, la crociera- poi indicò il paesaggio oltre la vetrata. -Non lo vedi l'oceano?-
Roteai gli occhi. -Ah. Ah. Molto divertente-
-Lo so, grazie-, e aumentò il volume della musica.
Sistemai lo zaino sul grembo, reprimendo uno dei miei soliti sorrisetti. Il sole era alto nel cielo, illuminando perfettamente l'intera città, mentre solo qualche nuvoletta si disperdeva nella vastità del cielo.
-Dove vai?-
-Sicuramente lontano da te. Ora taci, adolescente.-
Sgranai gli occhi, mentre probabilmente la mia mascella si staccava dalla faccia e si frantumava in mille pezzi al suolo.
- Ma come ti permetti?!-
-È un paese libero, fino a prova contraria-
Strinsi i pugni. -Tu che cosa saresti, allora? Un uomo?-
Mi lanciò una lunga e penetrante occhiata piena di scetticismo. Sembrava pesare le mie parole e capire se doveva ignorarmi o meno.
-Non ancora-, finalmente disse. -Ma ho sicuramente un quoziente intellettivo più alto del tuo-
Prima che potessi mettermi a strillare, una voce familiare mi giunse alle orecchie. -Irene! Ti stavo cercando-, mi voltai verso mio padre, che correva trafelato nella mia direzione.
-Hanno anticipato il nostro volo, veloce!-
In quell'esatto istante con la coda dell'occhio vidi la testa del ragazzo scattare verso il tabellone elettronico e imprecare. Si alzò e cominciò a camminare nella direzione opposta, verso i check-in.
Rimasi a guardare ancora per un attimo il suo corpo magro allontanarsi, prima di raggiungere mio padre con il cuore in gola.
Ero peró ignara di aver appena fatto conoscenza con non solo con il futuro più grande investigatore di tutti i tempi, ma anche con uno dei miei migliori amici.
***
Raggiunsimo mia madre con il fiato corto, e fecimo velocemente il check-in, per poi raggiungere il punto d'imbarco.
Il sudore mi scendeva per tutta la fronte, nonostante l'aria condizionata che sembrava entrare fin dentro le ossa.
In aggiunta a tutto questo, una strana emicrania cominciò a diventare la mia nuova seccatura preferita della giornata, mentre il signor Nelson continuava a lanciarmi strane occhiate di tanto in tanto.
-Vi sentite bene, signorina Irene?-, chiese quando, gli restituirono il passaporto e il biglietto e dovevamo dirigerci verso l'aereo.
Digrignai i denti, e con forza chiusi la zip dello zaino. -Benissimo-, sbottai.
Orazio alzò un sopracciglio con fare scettico. -Non sembra, prima quando siete tornata eravate tutta rossa-
A quel punto penso che avvampai ancora di più.
- È il caldo, Orazio. Il caldo-
-Ma se ci sono a malapena venti gradi...-
-Ho. Detto. Che. È. Il. Caldo-
Non so esattamente del perché io risposi con tanta veemenza, ma il fatto stava che quel tipo, mi aveva fatto letteralmente saltare le ovaie con tutti i suoi discorsi sull'intelligenza.
Che odio.
Ma probabilmente non avrei dovuto pensarci. No, certo che no. Io, Irene Adler, avrei passato qualcosa come vent'un giorni alle Bahamas, lontano dalle preoccupazioni e ragazzi asociali come lui.
Sí, sarebbero sicuramente state state le vacanze più tranquille e rilassanti della mia vita. Altro che quoziente intellettivo. Ma io dico, chi si credeva di essere?!
Pensa al mare, Irene. Pensa alle spiagge enormi e ai fighi senza maglia che giocano a volley. Forse a quelli non troppo. O forse sì.
Caraibi, tremate. Sto arrivando.