capitolo 7

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Osservavo la mia caduta nel vuoto, avevo procrastinato fin quel momento, probabilmente tardi. Sapevo che una parrocchia si occupava di organizzare incontri tra chi aveva una dipendenza, farli confrontare e augurarsi che questo avrebbe potuto aiutarli. Quando chiamai in canonica rispose la perpetua, mi disse che proprio la sera stessa ci sarebbe stato un incontro, avrei potuto assistere se lo desideravo e me la sentivo magari anche partecipare. La mattina e anche il pomeriggio, li passai a letto, non mangiai nemmeno, non volevo vedere nessuno, nemmeno il mio stesso riflesso nello specchio. Ero combattuto, volevo curarmi ma avevo paura di quello che avrebbe comportato, sacrifici e tutto il resto poi, mi serviva davvero? Ora ero solo, avevo perso lei, il lavoro, cosa sarebbe mai potuto cambiare? Fino a poche ore prima di presentarmi la ma, onestamente anche quando il mio dito si stava avvicinando al campanello per suonare esitai un poco. Quando varcai la soglia della stanza in cui si svolgevano queste sedute accompagnato dalla che si occupava di dare un tocco femminile, quindi ordine, alla casa del signore, tutti i presenti si voltarono a guardarmi. Il parroco aveva degli occhi verdissimi, tanto da sembrare artificiali e quando pronunciò alcune parole per cortese accoglienza provai una strana sensazione. Il suo sorriso era eloquente. Gli altri, due donne e quattro uomini invece mi accolsero cantilendando un semplice saluto, nella loro testa avrebbe dovuto farmi piacere a me ricordò invece il lamento dei dannati che racconta Dante nel primo libro della sua commedia. Quel giorno parlarono tre persone, la storia del terzo che raccontò il motivo per il quale si trovava lì, mi colpì particolarmente. Aveva sulla coscienza la colpa di essersi sbronzato, aver guidato in modo tutt'altro che prudente e aver avuto un incidente da cui era uscito praticamente illeso. La mamma e il bambino con cui la sua macchina si era scontrata però non erano stati così fortunati. La donna era morta dopo giorni di agonia in ospedale il bambino aveva per sempre perso l'uso delle gambe. La mia coscienza mi consigliava di odiarlo ma il cuore, spesso si sostituisce al cervello e non mi fu possibile farlo, mi commossi. Quando il microfono arrivò a me decisi che non era ancora il momento di aprirmi e lo passai subito a un altra persona, balbettando, letteralmente solo il mio nome e che bevevo troppo. Da quel momento in poi, dopo essermi reso conto quanto bene mi avesse fatto quell'incontro decisi che si, quello poteva essere un buon modo per cambiare. Provai anche a parlare di più ma, mi vergogno un po' a dirlo, almeno per il primo mese e forse anche fino a metà del secondo non avevo mostrato molta onestà. Avevo tralasciato molti particolari importanti della mia storia cucendomi addosso un'aria da vittima che mi sembrava molto confortevole. Però sentivo la colpa, come un sasso che dopo essere stato ingerito si fosse depositato nello stomaco, rendendo impossibile la digestione. Mi dissi che dovevo assolutamente essere onesto con gli altri e soprattutto con me stesso, che se per un'altra volta avessi mentito la "salvezza" non sarebbe stata altro che un illusione. Volevo curarmi, essere un uomo nuovo, un brav'uomo, quindi mi presentai all'incontro successivo pieno di coraggio

ed entusiamo mi sedetti sulla mia sedia e avevo ben chiaro in mente cosa avrei detto.

MILLE, IL FIORE DI LOTODove le storie prendono vita. Scoprilo ora