Nove febbraio

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Quattro e trentotto del mattino, venerdì nove febbraio, piove. Non chiudo occhio per un'altra notte. Non che lo abbia scelto io, sia chiaro, sono proprio incapace di rassegnarmi alla stanchezza. O forse è la stanchezza che non vuole avere a che fare con me. Me ne sto sdraiata nel letto con due cuscini dietro alla testa, occasionalmente un pugno dietro la schiena per alleviare il dolore. Ho preso una brutta botta, il medico dice non non farci troppo caso e che paserà. Accanto a me, sul comodino, il tablet riproduce l'ennesima serie televisiva che non verrà considerata, utile solo come sottofondo e per illuminare la stanza. Lì vicino il tabacco, con filtri e cartine, il posacenere, qualche cartaccia da buttare. Il piumone macchiato di cenere è la carezza di cui ho bisogno in questo momento, ogni tiro di sigaretta un bacio a chi non avrei mai voluto lasciare. I brividi di freddo sulle spalle mi ricordano che per quanto io mi senta morta, per quanto io mi senta apatica e spenta, in realtà sono viva.
Ho un turbinio di pensieri nella testa, una tempesta di emozioni nello stomaco. Giorno dopo giorno ho il cuore sempre più pesante, la punta di un pugnale che mi accorcia il respiro. Ho sempre più bisogno di qualcosa che non posso avere, come un tossico alla ricerca della sua ultima dose mortale. Giurerei di sentire i suoi stessi crampi. Ma non è così semplice, soprattutto per me che non so mai cosa provo. Potrei guardarmi allo specchio per ore e non sapere cos'ho davanti.
Dentro me una voce rammenta di quanto spesso mi sono sentita così. Sola, persa, vinta. E un'altra ancora mi ricorda quante volte sono rimasta impassibile davanti alle peggiori tempeste.
Sono strana io. Mi spavento al provare certe emozioni, ma resto impassibile dove gli altri scappano. Non sono fatta per una vita tradizionale forse. Non dico che mi dispiaccia, ma avrei voluto dei genitori che si comportassero come tali a volte. Gli sono grata comunque, non mi sto lamentando, ma ho perso un pezzo di infanzia che non posso recuperare. La mia psicologa dice che la me bambina è ancora dentro di me, ed è la parte di me che soffre. Cerca di riprendersi quello che le è stato tolto, ma a parer mio è impossibile. Come puoi tornare indietro? Per cosa poi? Sperare che i miei capiscano cos'hanno fatto? Hanno voluto una famiglia e poi l'hanno distrutta, hanno distrutto i loro figli. Ma va bene, non sarei chi sono. Non avrei la forza che ho ora, va bene. Solo a volte mi chiedo chi sarei se le cose non fossero andate così male. Forse sarei stata migliore, o peggiore, chi può dirlo. Ma va bene, va bene così. Sto bene ora. Non cerco più di redimere le colpe che nemmeno avevo. So che non avrei potuto cambiare le cose, che ho fatto del mio meglio. Ora so che c'è chi ha passato le mie stesse pene, e non è più qui per poterlo raccontare, perchè non ce l'ha fatta.
Chi è estraneo da questo mondo la chiama fortuna, ma non lo è. Non è fortunato chi cerca di uccidersi e alla fine non lo fa. Non è fortunato chi sopravvive a se stesso. Non chiamarla fortuna, è forza.
Mi avevano convinta di essere debole, insignificante, una che non vale nulla. -Non sai nemmeno badare a te stessa!- mi dicevano. Ma come potevo farlo a poco più di dieci anni? Non era mia dovere badare a me stessa, eppure ho dovuto farlo e alla fine, nonostante tutto, ce l'ho fatta. Certo, non sono stata una santa, ho fallito decine di volte prima di riuscirci. Ma guardami ora, sono forte e non mi abbatte più nulla. Ho imparato a mandare giù qualsiasi cosa, ho imparato anch'io ad amare alla fine, ad essere spietata e da volte, perchè no, di successo. Non chiamarla fortuna, ho vomitato sangue per riuscire a scrivere queste parole.

Al mio infinito e incompreso dolore,
per sempre tua,
Alita.

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⏰ Last updated: May 02 ⏰

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