DICIOTTO

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Giorno

Quella mattina decisi di riprendere in mano il quaderno.
Troppe erano state le sensazioni opprimenti che mi aveva causato quell'oggetto le prime volte quando, sudicio di sudore, mi alzavo dal letto e correvo a vedere se si fosse aggiunto qualche altro disegno agli angoli delle pagine. Inconsciamente, ero però perfettamente consapevole che il vero motivo di quell'allontanamento fosse proprio l'intrinseco terrore della situazione che mi ero ritrovato a vivere contro la mia volontà: in fondo, finché attraversi un sogno, tutto ciò che vivi è finto e te ne accorgi quando prendi coscienza di te stesso al risveglio; in questo caso, invece si trattava di un oggetto che era stato in grado di valicare il confine fra finzione e realtà e anche il solo toccarlo mi dava l'impressione di compiere un gesto dissacrante, un sacrilegio verso l'ordine prestabilito del mondo, che separa nettamente la dimensione del sogno da quella reale.
In più, si trattava di versi scritti diversi anni prima, di cui spesso non ricordavo neanche il testo: e se avessi scritto anche qualcosa di macabro o avessi rischiato descrizioni più spinte, pronte a farmi visita al sogno successivo? Ero sicuro di non volerlo sapere prima del tempo e di voler affrontare la sfida con la giusta dose di istinto e incoscienza. Insomma, evitare il problema facendo finta che non ci fosse.
Quel giorno però, decisi di voler fare diversamente, provando a mettere in pratica ciò che Ulisse mi aveva consigliato.
Mi svegliai che il tiepido sole estivo dell'alba già si mostrava fra le fessure della tapparella, proiettando sul muro di fronte a me piccoli puntini di luce. Vedere la stanza in parte già illuminata mi metteva di buonumore, il segnale che sarebbe stata una bella giornata di sole. Strizzai più volte gli occhi per svegliarli dal sonno e vidi sul letto di fianco a me ribaltato sul materasso il libro che stavo leggendo in quel periodo, un romanzo distopico sulla forza dell'amicizia e dell'amore che sconfiggono una società tirannica. Lo girai verso di me: ero arrivato a pagina 72 e probabilmente in quel momento mi ero addormentato, dimenticandolo vicino a me. Ancora intontito, scrollai con gli occhi le due facciate, finché non notai una frase sottolineata in matita:

Nessuno sa dove finiscono i palloncini quando li lasci al cielo, se si godono il vento fresco dell'Universo o ricordano tristi gli abbracci caldi dei bambini. L'unico modo per sentirsi forte è scoprirlo.

Ho voluto immaginare di essermi addormentato un secondo dopo aver sottolineato quella frase e che Ulisse fosse un po' anche il prodotto di quell'azione, trasportata come ricordo nel sogno insieme a me. Sorrisi e lo riposi chiuso sul comodino con il suo immancabile segnalibro. Terminai in mezz'ora la quotidiana ruotine mattiniera e, una volta finita la doccia, ancora in accappatoio entrai nuovamente nella stanza e osservai il pomello dorato del cassetto, che tanto mi aveva fatto tribolare nelle ultime settimane, come se dentro nascondesse un mostro oscuro pronto ad attaccarmi.
Oh Ulisse, Ulisse... Guarda cosa hai combinato. Hai risvegliato qualcosa che il mio egoismo voleva rimanesse nascosto e adesso mi stai costringendo a sentirmi forte e a non aver paura. L'ho già sperimentato in passato e ha sempre peggiorato il modo di affrontare questa situazione, perché dovrebbe funzionare ora? Io non sono così bravo come te a superare il limite delle cose, a disobbedire...
Il dialogo interiore con Ulisse ovviamente non ebbe una risposta, almeno nel modo classico in cui si è soliti intenderla. Il responso, infatti, arrivò direttamente dalla mia mano destra che, quasi presa da una volontà propria, si allungò per aprire il pomello, come se qualcuno le avesse detto di farlo senza stare a pensarci troppo. Ovviamente, il quaderno era lì, immobile come l'ultima volta che l'avevo toccato, con un po' di polvere in più. Lo tirai fuori con lentezza, come se il mostro fosse ancora lì dentro addormentato, e scorsi ad una ad una le pagine. Come immaginavo, non era cambiato nulla dall'ultima volta, tranne che per gli ultimi adesivi aggiunti. Il flusso di ansia che ricordavo partisse in quel momento nei corridoi della mia coscienza giunse ugualmente, ma questa volta con una potenza meno distruttiva del passato. Sentivo, infatti, una sorta di scudo dentro di me che stava resistendo per arginare la sensazione di panico che quel ponte fra onirico e realtà mi aveva sempre causato.
Quando riuscii a leggere le mie stesse poesie senza provare terrore, mi sentii ancora più fiero di loro e di come le avevo scritte. Decisi poi di contarle: si trattava di una trentina di componimenti scritti a penna e spesso corretti in molti punti, che non occupavano l'intero quaderno e che racchiudevano momenti specifici e intensi della mia adolescenza. Mi vennero in mente i dieci bottoni sul pannello dell'ascensore, ai cinque illuminati e al sesto che si sarebbe aggiunto la volta successiva. Non avevo modo, quindi − e non credo lo avrei voluto avere, in realtà − di scoprire quali sarebbero state le poesie mancanti fra quelle senza disegno, sempre immaginando che, completati i dieci bottoni, sarebbe tornato tutto alla normalità.
Sospirai, chiusi il quaderno e mentre lo riponevo nel cassetto, qualche granello di polvere dalla copertina si alzò in volo, finendo sotto il mio naso e facendomi starnutire. La sua piccola rivincita per essere stato rinchiuso così tanto tempo.
Feci una smorfia e uscii.

Aprii la libreria al solito orario, accesi il solito computer, sistemai il solito magazzino impolverato; a salutarmi c'erano sugli scaffali i soliti libri.
Ma quello non sarebbe stato il solito giorno.
Durante tutto il periodo estivo, i momenti nei quali di solito la libreria si affollava maggiormente erano la tarda mattinata − attorno alle 11, dopo le prime ore di caldo passate ad abbronzarsi − e il tardo pomeriggio − verso le 18, quando il cielo si volgeva alla sera e l'aria si rinfrescava abbastanza per una passeggiata.
Andò così anche quella mattina di fine luglio, giorno in cui però sarebbero dovuti arrivare anche i pacchi con i titoli nuovi: nonostante i miei insistiti reclami alla compagnia di trasporto che mi portava i libri ordinati settimanalmente, il corriere continuava ad arrivare sempre più in ritardo e ad ogni consegna spesso capitava che in negozio ci fosse talmente tanta gente da non potergli dedicare il giusto tempo.
Quella mattina fortunatamente i clienti erano tranquilli, nessuno di loro si trovava alla cassa quando arrivò il furgone, quindi decisi di uscire. Osservai l'orologio: 11:52. Sospirai, cercando di mantenere la calma e sperai si trattasse di poca roba.
In realtà, di pacchi destinati a me ce n'erano ben dieci, alcuni da sistemare nei banconi dello sconto al 50%, altri invece con le novità del momento o i classici. Appena vidi il corriere nascosto dietro le pile di pacchi accatastati sul carrello, quasi sbiancai.
− Salve, − dissi acerbamente.
− Buongiorno, − mi rispose l'uomo asciugandosi il sudore dalla fronte con un guanto di stoffa.
− Quanti altri reclami dovrò mandare via e-mail per chiedervi di non consegnarmi i libri a quest'ora? Sono da solo, fra poco chiudo e ho il negozio pieno.
Mi stupii del tono seccato che riuscii a mostrare, ma effettivamente alla vigilia del mese più intenso dell'estate, volevo che quella situazione cambiasse. Il corriere fece spallucce.
− Mi dispiace, ma per il percorso di consegne che devo fare, in questa zona arrivo sempre a quest'orario, non posso farci granché, − disse e nel mentre alzò con forza il carrello.
Allargai le braccia.
− Apro alle 9 e la libreria è quasi sempre vuota per le prime due ore, perché non passate in quell'intervallo? Non posso ogni volta lasciare i clienti dentro e venire a sistemare i libri, è anche pericoloso.
Il corriere rimase irremovibile e aspettava che gli indicassi dove lasciare i pacchi. Sospirai, infastidito.
− Me li lasci qui fuori che dentro non c'è posto, − gli dissi e lo portai nella zona esterna, vicino ai banconi dello sconto, lungo il lato che affacciava sulla piazzetta dove mi ero seduto poco prima di conoscere il ragazzo giapponese. Da dentro avrei potuto controllare eventuali furti attraverso le vetrate e una volta che la libreria si fosse svuotata, li avrei sistemati all'interno.
− E fate in modo almeno una volta di arrivare ad un orario decente, per favore. Oppure spalmate la consegna in più giorni, perché dieci pacchi sono tanti.
Il corriere fece spallucce, poco convinto; salì sul suo furgone e ripartì. Io tornai dentro e sbrigai tutti i clienti rimasti, alcuni dei quali, nel frattempo, si erano raggruppati al bancone per pagare; poi, si fecero le 12.30, orario della pausa, ma non avrei mai potuto lasciare dieci pacchi di libri fuori dal negozio e tornare dopo due ore.
E anche oggi si salta il pranzo pensai.
Sospirai e uscii: l'aria calda di mezzogiorno aveva fatto fuggire tutti dalla spiaggia, da cui ora si sentiva lontano lo scroscio delle onde sugli scogli. Fortunatamente, il perimetro esterno della libreria era coperto da una sottile tettoia, quindi potevo godermi quei momenti di pace e relax all'ombra. Prima di sollevare il primo pacco, mi fermai un attimo: c'era una strana sensazione nell'aria, come se, escluso il mare, tutti i rumori del mondo si fossero inspiegabilmente fermati, dopo che la spiaggia e le strade erano state abbandonate dalle persone. Il silenzio, in realtà, non era nuovo in quei momenti: ogni giorno percorrevo in bici il tragitto verso casa, attraversando strade deserte e con la spiaggia libera dal furore della gente. Eppure, in quell'attimo era come se percepissi addensato ogni dettaglio attorno a me, ogni elemento appesantito in una coltre di quiete quasi inquietante; la sensazione era mitigata soltanto dalla luce del Sole, che mi consolava un poco da queste ambigue fantasticherie.
Fu in quel momento che, mentre contemplavo il mare, cullato dal suo dolce suono, lo sentii sorpassarmi. Inizialmente, avvertii per qualche secondo il suo verso gracchiante sfondare la barriera del silenzio, poi sopraggiunse l'ombra slanciata e smilza che si proiettò alta e veloce sopra di me. Alzai rapidamente lo sguardo e vidi un gabbiano superarmi a folle velocità nella direzione del mare. Immerso in quella pace dorata, immaginai che la eco del suo verso avesse raggiunto gli angoli più remoti del pianeta, come un limpido richiamo di libertà. Supportato da un lieve vento, il gabbiano cominciò la sua elegante danza in cielo, spinto dall'istinto del volo e dal coraggio ignoto per una meta inesplorata. Era come se avesse aspettato che il mondo si svuotasse del chiasso terreno per poter venir fuori liberamente e assumere con delicatezza il comando del cielo. La sua ombra lo seguì decisa fino al punto in cui la spiaggia cede il posto al mare, entrando nel regno dell'oscurità, dove le ombre perdono il loro volume e non ha più senso che la luce si proietti sui corpi. Da quel momento in poi le trame lineari del suo volo si sciolsero nell'acqua salata e le traiettorie si trasformarono in autentiche scie di comete fulgenti. E nulla in quel momento poteva distogliermi dal pensare di aver rincontrato il mio caro vecchio Jonathan Livingston.
Poi, l'animale interruppe le virate, si proiettò verso l'alto e rimase sospeso in volo per pochi istanti, come le foglie, che geneticamente non possiedono il dono del volo, ma volano ugualmente. Si abbandonò per un attimo al flusso lento del vento, sperimentando con mano la sensazione di perdere il controllo sul mondo e diventarne un ospite comune. Infine, riprese possesso di sé e si proiettò all'infinito verso la deriva, istintivo come il tocco di un pennello.
Quando il verso del gabbiano si confuse definitivamente con il sibilo del vento e la sua figura scomparve all'orizzonte, mi ridestai dall'estasi e cominciai a trasportare uno ad uno i pacchi dentro al negozio.

Terminai di sistemare i libri nello stesso silenzio di quando avevo cominciato, assoluto e imbevuto di meraviglia. Paragonai quella quiete senza precedenti in cui ero avvolto alla stessa sensazione che si prova quando si crede di essere spiati: come un attore sul palco di un grande teatro che recita di fronte al buio della platea, ero convinto che quel silenzio in fondo stesse nascondendo le tracce di centinaia di sguardi che mi stavano spiando di nascosto da ogni parte del mondo, come se fossi uno spettacolo a cui assistere.
Il silenzio mi piaceva tanto, era il modo migliore che avevo per passare del tempo con me stesso senza che il mondo esterno mi obbligasse a tenere il suo rapido passo; riuscivo a focalizzarmi esclusivamente su di me, come se assorbissi interiormente l'energia di cui avevo bisogno attraverso le radici profonde della mia anima: il sistema di un organismo complesso che si autosostiene da solo per un periodo limitato di tempo. Quello era un habitat in cui sentivo di poter crescere e maturare in tutta tranquillità senza il bisogno di nient'altro, anche se in quei mesi mi ero reso sempre di più conto di quanta magia potesse risiedere nell'attimo di un incontro.

Dopo poco, tornai al bancone della cassa e mentre osservavo il pezzo di strada deserta di fronte all'ingresso della libreria, notai che si rabbuiò. Mi parve strano perché per tutta la mattinata il Sole non aveva mai smesso di splendere e le previsioni avevano annunciato che il bel tempo sarebbe durato anche per tutto il pomeriggio. Uscii e di colpo una forte folata di vento mi investì in piena faccia, mentre il Sole era già stato oscurato. Il tutto, però, durò una frazione di secondo: non ebbi neanche il tempo di comprendere cosa stesse succedendo, che la corrente si placò del tutto e il cinguettio sereno degli uccelli accompagnò il ritorno caloroso della luce. Una parte di me pensò si trattasse di un'allucinazione, tanto era stato veloce: il forte vento mi distrasse anche dal capire come avevano fatto le nuvole ad apparire e scomparire in così poco tempo.
Tanto meglio che non piova pensai, almeno non devo chiudere i banchi esterni, pensai istintivamente.

Lui arrivò dopo circa un'ora.
Si fermò immobile sulla soglia con il passo impercettibile tipico della specie protetta dei danzatori, quell'insieme eterogeneo di esemplari in grado di passare incondizionatamente dalla forma di creature della terra a quella di creature del cielo; gli unici della famiglia degli umani, insieme ai poeti, a saper trasformare il sogno del volo in realtà pura e autentica.
Quando alzai lo sguardo e mi accorsi che la sua dolce planata lo aveva condotto lì da me, fu come essere scoperti in flagranza di misfatto: il cuore, preso alla sprovvista, cominciò a battermi forte, cercai di balbettare qualcosa nel tentativo di trovare una frase d'accoglienza adeguata, ma non mi venne niente. Provavo lo stupore del trovarsi di fronte ad una situazione non prevista, la stessa sensazione che mi aveva coinvolto nei primi sogni quando, senza un motivo chiaro, mi sembrava di affrontare qualcosa di molto più grande di me.
Indossava la stessa maglietta gialla della prima volta, i capelli gli erano leggermente cresciuti, ma avevano mantenuto il colorito lucido di un legno prezioso. Notai con grande ammirazione che i suoi occhi non avevano perso i lineamenti tipici dello sguardo della libertà che mi aveva mostrato qualche mese prima: il taglio spigoloso e sensuale delle sue ciglia continuava a gocciolare di vita autentica, come la scia di colore fresco e denso che cola dalle setole di un pennello e l'Universo depositato sul fondo delle sue iridi azzurre non aveva smesso di reclamare qualche timido raggio di luce che rendesse onore ai propri angoli più oscuri.
Dopo poco, il bambino alzò timidamente la mano destra in segno di saluto e mi accorsi che questa volta era lui a stringere forte al petto un quaderno.
− Ciao, − risposi in preda alla confusione. − È... da tanto che non ci incontriamo.
Il bimbo mi regalò un timido sorriso.
− Posso entrare? − mi chiese con la sua solita voce dolce.
− Ma certo, vieni pure.
Il bambino si incamminò piano e arrivò alla cassa, a volte roteando su sé stesso e guardandosi in torno canticchiando qualcosa, ma non abbandonando mai il quaderno che aveva in mano. Era alto poco meno del bancone.
− Stai cercando qualcosa di particolare? Posso darti una mano?
Il bimbo corrugò la fronte e fece no con la testa, poi quasi in punta di piedi poggiò il quaderno sul tavolo. Sulla copertina era raffigurato Spiderman intento a girovagare fra i tetti della città con le sue ragnatele. In alto a destra era stata incollata un'etichetta, sulla quale con una calligrafia semplice e irregolare, forse dello stesso bambino, c'era scritto Poesie.
− Che cos'è?
Anche se era facilmente intuibile, ero curioso di sapere la sua risposta.
− Ti ricordi quando ci siamo incontrati sulla spiaggia, un po' di tempo fa?
Annuii.
− Quando sono tornato a casa mi era venuta voglia di scrivere, come mi avevi fatto vedere tu.
Ma io non gli ho mai fatto leggere le poesie scritte sul mio quaderno pensai aggrottando la fronte. Volevo farglielo notare, ma lui continuò.
− E tutte le volte che torno sulla spiaggia mi viene voglia di scrivere una poesia; quindi, ho chiesto alla mamma di comprarmi un quaderno, così le posso tenere tutte insieme. Ho fatto bene, secondo te?
La domanda mi stupì.
C-certo, hai fatto benissimo. Se ricordi, anche io ne avevo uno di quaderno quel giorno.
− Sì, me lo ricordo. Tu mi avevi detto che eri riuscito a volarci dentro, mentre io ho provato ma non ci sono riuscito, − disse e abbassò lo sguardo.
Provai a prenderla un po' alla larga.
− Tu vuoi fare ancora il pilota da grande?
− Sì.
− Allora è normale che non sei riuscito a volare dentro, − dissi enfatizzando l'ultima parola. − I piloti volano sopra, − e mimai il gesto di un aereo che vola con la mano destra.
Il bimbo parve riflettere un poco sulle mie parole.
− Ma se sto sopra non riesco a toccare le cose. Ho scritto qualcosa, ma volevo farlo come eri capace tu. Te l'ho portato per sapere se ti piace.
Accarezzai la copertina del quaderno.
− Ti senti triste per questa cosa?
Il bimbo annuì.
− Non devi, però. Ricordati che un pilota le tocca a modo suo le cose.
− E come?
− Con lo sguardo.
Non mi parve così convinto della risposta.
− Pensaci. Tu dall'alto potresti vedere tutto ciò che noi da quaggiù non vediamo. Quando tu sei l'unico che conosce qualcosa che gli altri non vedono, è come se la stessi toccando con le mani, perché è tua e solo tua. Noi dovremmo solo affidarci a quello che vedi tu. Per toccare una cosa la devi prima vedere, no?
Il bimbo sbuffò sconsolato.
− Sì, ma mi dispiace non essere bravo a fare quello che hai fatto tu.
Sorrisi.
− Senti, quanti anni hai?
− Quasi nove.
− Hai ancora molto tempo davanti, non devi dispiacerti già da ora...
Ripensai per un istante al momento in cui mi aveva fatto avvicinare alla sua mano chiusa e poi aveva soffiato la sabbia, facendola disperdere in volo. Venni colto dalla tentazione di ricordargli dell'episodio, sottolineandogli quanto la sua potenza poetica fosse stata per me molto più rivoluzionaria della mia per lui, ma decisi infine di non parlare: ritenni che prendere coscienza di ciò che era stato in grado di fare potesse diventare un rischio per la sua pura e incontaminata forza espressiva.
− E poi ricordati che per fare il pilota ci vuole coraggio, non è un lavoro per tutti, − dissi nel tentativo di consolarlo.
− I miei amici dicono che non sono coraggioso, perché non amo fare i giochi che fanno loro al parco e preferisco stare da solo al mare.
− Che giochi fanno?
− Capriole, salti con la corda, poi salgono lo scivolo, si appendono al muro e penzolano... − rispose, poi rifletté un attimo e concluse: − Perché vogliono far vedere chi è il più forte.
− E tu pensi che facciano bene? 
− Boh, credo di sì. Io non sono capace di fare tutte quelle cose, − rispose compiendo con le mani ampi giri per sottolineare la difficoltà di quelle attività.
− Quindi tu pensi che essere coraggiosi vuol dire essere capaci di fare quei giochi?
Fece spallucce, confuso.
− Secondo me, sei molto più coraggioso tu di loro quando scrivi o passi del tempo in spiaggia.
− Perché?
− Perché con dell'allenamento saresti capace anche tu di fare quello che fanno loro, mentre per fare quello che fai tu serve qualcosa di innato.
Il bambino divenne pensieroso.
− Cosa significa innato? − mi chiese.
− Vuol dire "nato dentro". Per te la poesia è innata, perché è come se ce l'avessi sempre avuta dentro di te da quando sei nato. E questo è un dono che nessuno potrà toglierti mai, ed è molto difficile ottenerla con un allenamento.
Attesi qualche secondo, nel caso le mie parole fermentassero in lui delle domande, poi gliene rivolsi io una: − Questi sono gli amici a cui non piace il mare, vero?
Il bimbo annuì.
− Secondo te è solo perché poi si sporcano di sabbia e le loro mamme li sgridano?
− No... − disse il bambino. − È perché non vogliono ascoltare.
− Ascoltare? − chiesi incuriosito, tentando di tirar fuori delicatamente il piccolo germoglio di poesia che quell'essere umano custodiva dentro.
− Sì. Dicono che stare fermi ad ascoltare il rumore del mare o gli adulti che parlano o qualche gabbiano che ogni tanto passa nel cielo è come perdere tempo, perché non ti muovi.
− E tu cosa rispondi quando ti dicono queste cose?
Per il bambino sembrò una domanda stupida.
− Dico che non è vero. Ci sono tanti giochi che si possono fare in spiaggia, come quello delle ombre dell'altra volta, o nascondino, oppure fare un bagno. Però non li convinco mai...
− È difficile che tu possa farcela ed anche sbagliato.
− Perché? − mi chiese corrucciato.
− Perché dovreste accettarvi così come siete. Poi sono sicuro che loro penseranno sempre che il mare sia un ostacolo, mentre tu sai che potrebbe regalarti tante cose nuove.
Abbassò lo sguardo, sconsolato dalla mia conclusione pessimista.
− Quindi non c'è un modo per far vedere quello che voglio io a qualcuno? La spiaggia è il posto dove sto meglio... − disse e con un ampio gesto del braccio disegnò un cerchio, come a voler racchiudere la vasta gamma di luoghi esistenti nel mondo, fra i quali per lui trionfava la spiaggia.
− Certo che c'è e tu l'hai già usato, − risposi.
Presi il suo quaderno dal bancone e glielo sventolai davanti.
− Ma io non sono contento. Nessuno leggerà mai quello che scrivo... − mi rispose deluso.
− Vogliamo fare una prova? Leggi tu, dai, − e sorridendo gli restituii il quaderno. Il bimbo sembrò riprendersi un po'.
Ammetto che vederlo stringere fra le mani quel quaderno mi incuteva un po' d'ansia: ero appena uscito da un trauma psicologico che mi portavo dietro da mesi e di cui ancora dovevo prenderne piena consapevolezza. La situazione in cui mi trovavo ora era troppo incastrata di coincidenze perché io potessi ignorarla; inoltre, non riuscivo a sostenere lo sguardo triste e demoralizzato del bimbo di fronte a me, che percepivo stesse bruciando dalla voglia di ottenere risposte sensate sul mondo là fuori, nel suo puro e ingenuo desiderio di speranza. La prima volta in cui l'avevo incontrato, poi, mi aveva fatto vivere una delle esperienze più poetiche di sempre, un'esperienza che gli scrittori del primo '900 avrebbero definito epifanica. Non potevo, quindi, esimermi.
Glielo dovevo.
Quindi aprì il quaderno e lesse la prima pagina con voce sicura:

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora