Cap 1 - Aria

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È possibile trovare un senso a tutto ciò che accade? Ogni avvenimento, gli incontri casuali, le decisioni che prendiamo... è possibile che sia tutto destinato a incastrarsi in un disegno più ampio in grado di dare un senso a quei tasselli in apparenza sconnessi e privi di significato? Mi sentivo come una barca alla deriva, dispersa su un'immensa tela ancora da riempire, in attesa che qualcosa, o qualcuno, iniziasse a connettere il tutto attraverso un filo invisibile.

Mi domandavo se, un giorno, avrei mai potuto guardarmi indietro e ridere della semplicità con cui quei puntini si erano congiunti tra loro, formando un disegno chiaro e comprensibile. Forse era solo il mero desiderio umano di trovare ordine nel caos, di dover dare un senso a tutto ad ogni costo. Avevo bisogno di pensare che fosse così: era l'unico modo per tenermi a galla in mezzo a una corrente che non accennava a placarsi. Era l'unica spiegazione per giustificare il male che mi era stato fatto. Mi ero convinta che nulla accadesse per caso e che perfino il male più grande giungeva a noi con uno scopo. In alternativa, sapevo che quel dolore avrebbe finito per disintegrami.

Ma i giorni passavano, e io continuavo imperterrita a osservare quei puntini, in attesa. Come quando aspetti che l'acqua inizi a bollire nella pentola, ma non accade. E tu aspetti, la fissi come se quel semplice gesto servisse ad accelerare il processo di ebollizione. Poi, non appena distogli lo sguardo, ecco che quelle bolle iniziano a scoppiettare sulla superficie, liberando un denso vapore caldo sopra di esse. Ma la mia acqua non bolliva. E io ero stufa di aspettare. Volevo lasciarmi quel passato alle spalle. Se non potevo dargli un senso, avrei almeno cercato di dimenticare tutto, di non permettere più a quel macigno di appesantirmi con dei ricordi che non mi appartenevano, che non volevo con me. Quelle immagini mi seguivano come un fedele compagno, a tratti alleato, a tratti nemico. Mi proteggeva da sofferenze nuove e inaspettate che non sarei stata pronta a gestire, tanto quanto mi privava della possibilità di vivere appieno quelle emozioni che mi ero costretta a dimenticare. Mi sentivo sola. Mi mancava la mia spensieratezza, la mia innocenza che mi era stata strappata via dalle mani senza alcun preavviso, né consenso. Mi mancava la luce che traspariva dai miei grandi occhi, un tempo così felici, prima di conoscere quanto male potesse esistere nel mondo. E nelle persone.

Mi mancava essere felice, volevo tornare a sentirmi così, volevo di nuovo la gioia che un tempo colmava il mio animo, ora tormentato. L'avrei ritrovata e questa volta me la sarei tenuta ben stretta.

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Minneapolis non era famosa per avere un clima torrido e afoso, ma quella giornata sembrava l'eccezione che confermava la regola. Aveva smesso di nevicare da un paio di mesi e l'aria gelida di fine inverno sembrava ormai un ricordo lontano. Il Loring Park si era naturalmente riempito di gente, che approfittava di quel primo caldo estivo. Le risa dei bambini riempivano l'aria e mi persi a osservarli giocare, correre accanto al lago, arrampicarsi sulle giostre in legno e correre via di nuovo. Era uno dei miei posti preferiti della città. Poco distante da lì vi era il Walker Art Center, uno dei luoghi più famosi di tutto il Minnesota, dove si poteva osservare la nota scultura del cucchiaio gigante con la ciliegia. Ignoravo il significato che si celava dietro quel simbolo, ma a me piaceva. Quando la guardavo mi sentivo a casa, nella mia città, la mia Minneapolis. Mi dava una sensazione di completo benessere stare lì, e per pochi, ma preziosissimi, istanti ogni preoccupazione sembrava alleggerirsi, dandomi una breve tregua. Ma il contributo più grande di quella tregua era grazie a loro: Josephine teneva il viso chino su un grosso libro di chimica, lo sguardo fisso sulle pagine colme di scritte e immagini che faticavo a comprendere. Di tanto in tanto scostava una ciocca di capelli dorati dal viso, infastidita dal solletico che le provocava. Una ragazza tutta acqua e sapone, dai lineamenti leggeri, il viso sottile, seppure le guance cosparse di rade lentiggini fossero inspiegabilmente morbide e tonde. Aveva gli occhi colore del cielo. Non scherzo: proprio quel cielo azzurro e terso che ti sorprende col suo calore in giornate come quella: calda, estiva. Avevo sempre considerato gli occhi azzurri freddi e distanti, ma non i suoi. Quelli di Josephine sapevano di casa, di sole e di estate. Sollevò la mano dalla panchina per scarabocchiare qualcosa sul bordo della pagina, posò di nuovo la matita sul tavolo e tornò a concentrarsi su quanto stava leggendo. Pareva che tutto ciò che facesse fosse estremamente dolce e delicato. Lei lo era. La dolcezza con cui Josephine ti guardava, quel silenzio colmo di amore che si creava quando le parole sarebbero state di troppo. Capiva anche ciò che io stessa faticavo a comprendere, come un traduttore diretto tra me e i miei pensieri contorti. Gli dava un senso, dava un senso a tutto e il solo fatto di averla accanto mi garantiva pace in quella tormenta che mi portavo dentro.

L'effetto che mi faiWhere stories live. Discover now