50. Rimorso & Adrenalina

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Mi alzai all'alba, come ogni sabato mattina. Sbadigliai assonnata e cercai di stropicciarmi gli occhi pesanti. Mi trascinai fuori dal letto, costringendomi a prepararmi in fretta per raggiungere Margherita e Kate al negozio.

Uscii silenziosamente senza svegliare i miei e venni immediatamente travolta dalla fresca brezza primaverile. Inspirai l'aria pulita, beandomi dei deboli raggi del sole che stavano spuntando dal cielo e mi incamminai a piedi verso la fermata dell'autobus.

Finalmente mancavano le ultime tre settimane e avrei finito per sempre la scuola, mi sarei diplomata e avrei trascorso l'ennesima estate della mia vita.

Le luci fredde dell'autobus che mi portava verso il centro città accentuavano il pallore del mio viso riflesso nel finestrino. Cercai invano di scacciare i pensieri della sera precedente, ma le parole di Stacy continuavano a riecheggiarmi nella mente. 

E poi c'era Pedro.

L'immagine del suo viso appariva nella mia mente in continuazione. La sera prima avevo tentato di ignorarlo, di tenere le distanze, ma il suo sguardo era una calamita, un filo invisibile che mi avvolgeva e mi tirava a sé, ovunque mi trovassi. Anche in mezzo alla folla, ballando al ritmo frenetico della musica, sapevo che lui era lì.

Lo percepivo.

E non potevo negarlo: ogni movimento, ogni gesto, erano per lui. Non per il ritmo, non per la musica, e nemmeno per la voglia di divertirmi.

Ballavo per catturare i suoi occhi, per sentire su di me quel calore silenzioso del suo sguardo, che faceva smuovere dentro di me un'uragano di emozioni. Il cuore mi batteva forte, in uno strano miscuglio di adrenalina e rimorso.

Forse perché sapevo che tutto quello che stavo facendo era sbagliato.
O forse perché sapevo che mi stavo perdendo in qualcosa che non potevo controllare.
O forse perché non era possibile che mi ridicessi in quello stato per un uomo.

La voce dell'autista mi riportò alla realtà, annunciando la fermata del centro. Mi alzai, scendendo dall'autobus. Cercai di mettere ordine nella mente, ma sapevo che quella giornata sarebbe stata lunga. E non solo per il lavoro.

Nel laboratorio di fiori, il profumo dei fiori di stagione riempiva l'aria. Salutai come al solito Kate e Margherita, che si trovavano nel piccolo laboratorio e insieme ci mettemmo al lavoro.

La stagione dei fiori era appena iniziata e avevamo moltissime commissioni da preparare entro la scadenza.

Il rumore costante della televisione accesa faceva da sottofondo, anche se nessuno sembrava davvero prestarci attenzione. Io stavo sistemando un mazzo di gigli rossi, cercando di tenere la mente occupata.

Alzai lo sguardo quando la voce del telegiornale cambiò tono, diventando seria. E il suo nome risuonò nell'aria, più forte del rumore di fondo.

Erik Johnson.

Il reporter parlò del ragazzo che in quel momento si trovava in carcere in attesa di processo.

Il reporter non si fece scrupoli a descrivere nei minimi dettagli il giorno di quella maledetta sparatoria nella mia scuola, del caos, del terrore che aveva seminato Erik e della sua successiva scomparsa di un mese.

Poi seguì una notizia che non mi aspettavo: il processo si sarebbe svolto tra dieci giorni esatti. Rimasi immobile, le mani ancora sporche di terra, fissando lo schermo.

Non potevo credere a quello che sentivo. Non mi avevano detto niente. Nessuno mi aveva detto niente. La notizia mi colpì come un pugno allo stomaco, togliendomi il fiato.

Sentii come se il terreno sotto i miei piedi stesse crollando. Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il momento della verità, ma non mi sarei mai aspettata di scoprirlo in quel modo.

«Amelia, tutto bene?» mi chiese con tono preoccupato Kate, poggiandomi la mano inguantata sulla spalla. Mi girai verso di lei, cercando di sorridere, ma il mio riflesso sul vetro della vetrina tradiva la mia espressione tesa.

«Sì, tutto bene» mentii, la voce più ferma di quanto mi aspettassi.

Margherita, che aveva percepito il mio turbamento, si avvicinò alla tv cercando di spegnerla. «Non è necessario che ascolti queste cose, Amelia. Lascia stare, tesoro»

Ma ormai era troppo tardi. Avevo sentito tutto, e ogni parola era scolpita nella mia mente.

«È tutto okay, ora è meglio se ritorno a sistemare le ultime piante... non vorrei che per colpa mia rallentassimo il lavoro» dissi e in tutta risposta ricevetti il sorriso bonario di Margherita. Il cuore si riscaldò sentendo la sua vicinanza, Margherita era come una nonna per me.

Continuai a lavorare, più per inerzia che per volontà, sentendo il cuore pesante come una pietra. Non riuscivo a smettere di pensare a Erik. Volevo che pagasse per quello che aveva fatto, volevo essere lì a raccontare al giudice e alla giuria quello che avevo vissuto, quello che avevo perso e raccontare il dolore che tutti, me compresa, avevano provato a causa sua.

E ora mi sentivo tradita. Tradita da chi avrebbe dovuto proteggermi, da chi avrebbe dovuto dirmi la verità. Primo fra tutti Pedro, che ancora una volta aveva tradito la mia fiducia.

Quando finì il turno, nel primo pomeriggio, tornai a casa. L'odore familiare di torta appena sfornata mi accolse, ma non mi diede alcun conforto. Mia madre era in cucina, seduta al tavolo con una tazza di caffè fumante tra le mani.

«Perché non mi hai detto niente?» esplosi, entrando nella stanza come una furia, non aspettai nemmeno di calmarmi. Iniziai a parlare come un fiume in piena, senza riuscire a controllarmi.

Lei alzò lo sguardo, sorpresa dalla mia rabbia. «Di cosa stai parlando?»

«Del processo di Erik Johnson! È tra una settimana, e io non ne sapevo nulla! Perché non mi avete detto niente?»

Mia madre sospirò, passandosi una mano tra i capelli. «Ah, stai pensando al figlio dei Johnson...» parlò in tono serio, poggiando la tazza sul tavolo.

«È tutto ciò che hai da dirmi?!»

«Amelia, ascoltami. Non volevo che tu lo sapessi perché... perché volevo proteggerti»

La sua voce calma non fece altro che alimentare la mia frustrazione. «Proteggermi da cosa? Io ho il diritto di sapere, ho il diritto di essere lì! Voglio testimoniare, voglio che lui finisca in prigione!»

«Non è stata una mia decisione,» ribatté mia madre, il tono più duro. «Pedro ha detto che era meglio così, che sarebbe stato troppo difficile per te»

Ma certo... c'era lo zampino di Pedro, come al solito! Strinsi i denti cercando di calmarmi.

«Pedro? Pedro ha deciso per me? Non è lui che deve vivere con quello che è successo!» gridai, sentendo la voce incrinarsi. Mia madre cercò di rispondere, ma non le diedi il tempo. Afferrando la giacca, corsi fuori di casa, senza nemmeno sapere esattamente cosa avrei fatto o detto.

Mi ritrovai davanti alla casa dello sceriffo poco dopo, il cuore che batteva furiosamente nel petto. Pensavo che prima o poi sarei ritornata da Pedro pronta a riappacificarmi con lui, ma mi ritrovai a cercare nuovamente spiegazioni del suo comportamento.

Bussai con forza, il pugno che tremava contro il legno della porta iniziai a sentirlo dolorante.

Quando questa si aprì, mi aspettavo di vedere Pedro, ma mi trovai davanti una figura sconosciuta.

Immediatamente sbiancai e rimasi immobile, non sapendo cosa dire o come comportarmi.

«Hai bisogno di qualcosa?» mi domandò.

Avrei voluto tanto trovare la forza di rispondere, ma improvvisamente la mia gola si seccò.

Whiskey eyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora