Capitolo 10: Arthur

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Arthur proseguì il suo tragitto su uno stretto percorso sterrato, che si diramava tra le fronde ed i cespugli. Camminava con sicurezza, mantenendo un'andatura piuttosto spedita, dettata da un certo senso di urgenza che gli veniva dal profondo del suo animo.
Poi, improvvisamente, il suo cammino fu interrotto da un'altissima montagna che s'innalzava, ai piedi della foresta, scura e minacciosa. Per qualche momento Arthur rimase immobile, cercando di capire cosa fare. Valutò anche l'idea di tornare indietro per cercare un'altra strada; tuttavia, dato che sino a quel momento si era rivelato piuttosto affidabile, preferì continuare a seguire il suo istinto, e decise di arrampicarsi.
S'avvicinò, dunque, al monte e tastò la superficie ruvida, cercando un buon appiglio. Quando pensò di averlo trovato, s'avvinghiò ad esso e, facendo forza con le braccia, si sollevò da terra di all'incirca di due piedi da terra. Aspettò qualche istante e, tenendosi saldo con una mano, allungò l'altra alla ricerca di un appiglio più in alto. Così si tirò sù di altri due piedi.
Ancora e ancora ripetè la medesima procedura e in questo modo riuscì a scalare tutta la montagna.
L'arrampicata, comunque, non risultò per niente facile; diverse volte il giovane, non riuscendo a trovare nessuna sporgenza alla quale aggrapparsi, tentennò, rischiando di perdere la presa e di rotolare giù. Perciò, quando infine giunse sulla cima della montagna, oltre ad avere profondi tagli che bruciavano tantissimo, a causa dello sforzo Arthur era stremato, dolorante e privo di forze.
Boccheggiò per qualche tempo, quindi alzò la testa e osservò il crinale del monte; fu sorpreso nel constatare che, contrariamente a quanto aveva creduto, esso non era scosceso e ricordava quasi una collina.
Notò subito, inoltre, che poco più avanti cominciava un piccolo viottolo che conduceva dall'altro lato della vetta. Deciso ad arrivare quanto prima al cospetto del Grande Albero, anche se esausto, si sforzò di camminare, mentre un vento gelido e tagliente gli sferzava il viso. Riuscì a fare a malapena due passi, quindi, senza più nemmeno un briciolo di energia, inciampò e cadde; a quel punto un nero sudario si chiuse su di lui.

Quando rinvenne era sdraiato su un piccolo giaciglio di paglia, mentre una leggera copertina di lana lo teneva al caldo. Per diverso tempo restò in un sottile limbo fra il sonno e la veglia, finché, ripresa coscienza, si mise a sedere e si guardò intorno. Inizialmente vide solo una fitta e opprimente oscurità; poi, quando i suoi occhi si furono abituati al buio, riuscì a scorgere delle sottili pareti che delimitavano il perimetro di quella che, probabilmente, sarebbe dovuta essere una casetta. Velocemente si tolse la coperta di dosso.
"Fa piano, ragazzo" disse in quell'istante una vocina rozza alle sue spalle.
Arthur si voltò immediatamente cercando di individuare l'essere che aveva parlato. Tuttavia i suoi occhi, anche se si erano ormai abituati alla totale oscurità, non riuscirono a scorgere nessuno.
"Chi sei? Dove mi trovo? E come sono arrivato qui?"
"Sei a casa mia, giovanotto. Ti ho trovato mezzo morto e, dopo averti caricato sulla mia piccola carriola, con fatica ti ho trasportato fino a qui" esclamò con un tono strano la voce, rispondendo solo al secondo e al terzo quesito "Eri conciato piuttosto male. Ti ho medicato e fasciato le ferite e ti ho fatto ingerire, quando di rado hai ripreso coscienza, qualche radice curativa. Dovresti essermi riconoscente!"
"Grazie" affermò il giovane uomo, che successivamente rimase in assoluto silenzio, cercando di capire se fosse in pericolo oppure no.
Per diversi istanti nessuno fiatò, e l'unico rumore che si sentiva era quello causato dal forte vento. Poi, di fronte ad Arthur s'accese una fioca fiammella, ed il giovane, abituatosi ormai all'oscurità, fu costretto, in un primo momento, a chiudere gli occhi. Dunque li riaprì e riuscì ad osservare il suo bizzarro interlocutore.
La figura che gli stava innanzi era piccola, minuta e ricurva sulle spalle. Presentava una pelle olivastra ed aveva un'espressione leggermente arcigna. La calva testa era piccola ed ovale, caratterizzata da lunghe orecchie appuntite. Pareva inoltre avere una davvero veneranda età: doveva essere molto, molto vecchia.
"C-chi sei?" chiese nuovamente Arthur, socchiudendo leggermente le palpebre.
"Sono Tsitsi"
"E precisamente cosa sei, Tsitsi?"
"Sono uno gnomo"
"Uno gnomo?" Arthur spalancò la bocca.
"Si, proprio uno gnomo. Hai presente quelle creaturine minuscole che abitano nel bosco?"
Non credevo che gli gnomi esistessero veramente; mia nonna, quando ero piccolino, mi raccontava delle favole su di voi, ma ero convinto fossero solo fantasie" replicò Arturo.
Tsitsi sorrise, quindi spiegò "In passato, quando ancora c'era l'Armonia, il mondo pullulava di gnomi. Noi vivevamo nei boschi vicino alle città degli uomini, ed avevamo frequenti rapporti con loro. Poi cominciammo ad isolarci, perché gli esseri umani iniziarono a diventare ostili. Così ci costruimmo modeste dimore in zone molto appartate, inoltrandoci sempre di più nel cuore delle foreste. Vivevamo in pace, tranquilli e sereni, fino a quando non arrivò il Morbo" s'interruppe bruscamente ed esalò lentamente il fiato.
"Che morbo?" volle sapere Arthur.
"Una magia maligna colpì le foreste, contagiando tutti i suoi abitanti, compresi gli gnomi. A milioni ne morirono, patendo terribili tormenti. Poi ci fu lo scontro finale tra Magia Bianca e Magia Nera, tra Luce e Oscurità, e tutto il Male venne imprigionato. Allora le foreste poterono riprendersi, ma per gli gnomi era oramai troppo tardi; essendo creature esili e deboli, non riuscirono ad adattarsi al mutamento dell'Equilibrio e così morirono tutti. Io sono l'ultimo sopravvissuto" terminò con una profonda nota di dolore nella voce. Sospirò tristemente, dunque continuò "Decisi allora di isolarmi ancora di più: volevo vivere lontano da tutto e da tutti. Dopo un lungo viaggio e una lunga ricerca, trovai questa montagna".
Arthur ascoltò in silenzio la storia di Tsitsi, e capì subito che quando lo gnomo aveva parlato della lotta fra il Bene e il Male in realtà stava parafrasando lo scontro di suo nonno con Abda Ru'.
Per qualche istante calò il silenzio, quindi Tsitsi chiese "Parlami un po' di te, adesso".
In breve Arthur gli raccontò la sua storia ed il suo viaggio. Spiegò per quale motivo era giunto sin sulla vetta della montagna e terminò affermando "Devo a trovare il Grande Albero al più presto, altrimenti nessuna speranza ci sarà per le Terre Emerse"
"Dunque il male è tornato!" affermò con occhi fissi lo gnomo.
"Sì, ed è inarrestabile, feroce, furibondo!" Sì dicendo Arthur si alzò dal giaciglio e disse "Non finirò mai di ringraziarti, Tsitsi, per avermi trasportato qui e avermi dato la possibilità di riposarmi un po'" sospirò "Ma ora devo riprendere il mio cammino"
Il vecchio gnomo annuì, quindi con la piccola mano frugò per qualche istante nella tasca del suo vestitino. Trovato ciò che cercava lo porse ad Arthur: si trattava di uno strano ciondolo. "Prendi, ragazzo. È un portafortuna, ed ha la capacità di farti ritrovare la giusta strada quando ti sei smarrito. È stato tramandato nella mia famiglia di generazione in generazione. L'avrei dato ai miei figli se non fossero morti; ora lo dono a te, sperando che riuscirai a fermare il Male. Prendilo, sono certo che ne avrai bisogno"
"Grazie, ancora mille grazie Tsitsi" Arthur prese il talismano e se lo appese al collo, quindi, ringraziando nuovamente lo gnomo si congedò da lui"
"Ed ora che ho assolto il mio compito" affermò l'anziana creaturina quando fu nuovamente sola "Posso finalmente morire in pace". Spense il lumino che aveva acceso, si sdraiò sul giaciglio di paglia, esalò un ultimo respiro, e, chiudendo gli occhi, si dissolse nella profonda oscurità.

Il freddo sulla cresta della montagna era molto intenso, ma Arthur sembrava inarrestabile. Nulla poteva fermarlo; dopo aver sentito la storia di Tsitsi continuava infatti a chiedersi quante altre creature, di cui neanche conosceva l'esistenza, erano state sterminate a causa del Male. Una pressante domanda gli turbinava nella testa: quanti esseri sarebbero periti, quante specie viventi si sarebbero estinte se lui non avesse fermato in tempo Abda Ru'?
Tale domanda lo spingeva ad andare avanti, lo spronava, donandogli una forza che mai avrebbe pensato di possedere.
Ma quanto tempo era passato da quando si era separato da Mhur? Potevano essere trascorse poche ore, o addirittura diversi giorni; Arthur non lo sapeva. Di tanto in tanto guardava il cielo cercando di capire se fosse notte o giorno, ma una coltre di fitte nubi rendeva impossibile stabilirlo. Il fatto che non avesse né troppa fame né troppa sete gli portava a credere che fosse passato al massimo un giorno, ma non poteva esserne certo. Con tutti questi dubbi continuò a trascinarsi avanti, fino a quando non giunse di fronte ad una rigogliosa cascata che, dal punto più alto del monte, cadeva a giù a fiotti. Guardandola Arthur capì istintivamente che avrebbe dovuto attraversarla. Così si mise di fronte allo specchio d'acqua, e stava per oltrepassarlo quando, osservando la sua immagine riflessa, si pietrificò. Quella che si rispecchiava nella cascata di certo era la sua figura, però vi era in essa qualcosa che non andava; qualcosa, un particolare che Arthur non riusciva a comprendere, la rendeva oscura, contorta, maligna. Era sempre lui, il giovane uomo magro, con dei capelli arruffati color nocciola, e degli occhi sinceri; ma oltre questi tratti fisici c'era dell'altro, qualcosa di spaventoso, che avrebbe fatto paura a chiunque.
Arthur allora istantaneamente comprese.
Quella cascata era la terribile terza prova di cui Kronos aveva parlato. In essa si rispecchiava la Vera Essenza di colui che prima era stato Jukhnn e che adesso era Arthur. Allora il giovane capì che, superata quella cascata, ancora una volta tutto sarebbe cambiato. Ricevendo il suo Randello, avrebbe liberato il suo vero Potere; ma ciò avrebbe potuto corromperlo, rendendolo schiavo della magia. Sarebbe diventato perfido e cattivo, proprio come Abda Ru'. Avrebbe imboccato una strada dalla quale non sarebbe più potuto tornare indietro; si sarebbe perso per sempre. Poteva dunque superare la cascata sapendo tutto ciò.
Fu quando la consapevolezza stava per portarlo a rinunciare all'impresa, che le parole di Tsitsi gli rimbombarono in testa 'Prendi, ragazzo. È un portafortuna, ed ha la capacità di farti ritrovare la giusta strada quando ti sei smarrito...'.
Arthur portò la mano verso il collo, e strinse forte l'amuleto che vi teneva appeso. Trasse un grandissimo conforto da quel talismano. Quindi chiuse gli occhi e, stringendo sempre forte il dono di Tsitsi, senza pensarci più, superò la cascata. Nel preciso istante in cui l'attraversò, si rese conto che lui e lui soltanto aveva il potere di decidere il suo destino e evitare di diventare il malvagio riflesso che aveva visto nello specchio d'acqua. Tutto dipendeva solo da lui; avrebbe potuto decidere se opporsi alla sua presunta indole e rimanere pertanto nella luce, oppure se cedere e finire nella fitta oscurità. Ma lui chi era in realtà?
"Arthur, io sono Arthur!" disse ad alta voce, rispondendo alla domanda retorica che si era posto

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