Cammino per questi corridoi immacolati con passo cadenzato. La mia mente vortica fra le strade di riflessioni insidiose ed estenuanti.
«Dottoressa Sullivan!», sento urlare all'improvviso.
Mi desto dai miei pensieri e mi volto.
«Richard, cosa succede?», mormoro, notando il ragazzo correre nella mia direzione.
È un giovane tirocinante, interessato alla branca della psichiatria, che ha scelto me come suo mentore.
«Deve venire assolutamente con me, si tratta del paziente della camera 201», esordisce con il fiatone.
Sgrano gli occhi. «Victor...».
Annuisce e, senza più indugi, lo seguo.
Arriviamo nei pressi della sala comune, dove sono presenti delle enorme vetrate dai disegni stilizzati. Quando le ammiro mi sembra di camminare in una vecchia chiesa gotica. I colori imprigionati in queste lastre cristalline sono a dir poco stupendi.
Sono state realizzate con l'aiuto dei pazienti, ognuno doveva dar sfogo al proprio Io, riversandolo su quei piccoli frangenti colorati.
Una cerchia di persone si riversa attorno ad una di queste, tutti fissano dinanzi a sé con sguardo preoccupato.
Mi avvicino anch'io e noto la figura di un giovane, dai capelli corvini e gli occhi color ghiaccio, mentre è in equilibrio sul davanzale in marmo chiaro. Sta piangendo. Le sue iridi sono protese a guardare verso il basso, si sbilancia in avanti, lasciando che una gamba penzoli nel vuoto.
Gli infermieri, adibiti alla sua cura, cercano in tutti i modi di avvicinarsi e bloccarlo, ma lui prontamente li allontana, urlando.
Noto la figura di un mio collega, Robert, che lo esorta a stare tranquillo, sperando di riuscire a farlo allontanare da quella sporgenza.
Mi faccio strada fra la piccola folla che si è formata, parandomi dinanzi a tutto.
«Victor», esordisco, facendolo voltare.
La sua espressione è sconvolta, i suoi occhi sono confusi, offuscati da pensieri negativi e dolorosi.
«Dottoressa... non si avvicini! Se lo fa, mi butto senza nessuna esitazione», biascica, guardando verso il basso.
«Victor, ascoltami», mormoro, attirando la sua attenzione.
Mi sbarazzo del camice, gettandolo al mio fianco. Faccio un passo in avanti.
«Si fermi!», sussurra stordito.
Alzo le mani e annuisco. «Tranquillo, va bene, non cercherò di ostacolarti in nessun modo. Se è questo quello che desideri, non mi opporrò».
Lui sussulta dinanzi a questa mia rivelazione.
«Però, prima che tu prenda tale decisione, potresti concedermi lo straordinario onore di perdermi un'ultima volta nella tua anima. Sai, forse per te sarà indifferente, perché fra qualche minuto cesserai di essere, ma, invece, per me tale frangente potrebbe dimostrarsi estremamente significativo», dico, fissandolo intensamente.
Lui resta senza fiato, le sue intenzioni iniziano a vacillare.
«Senza nessuna pretesa, possiamo parlare solo come Elisabeth e Victor, nient'altro».
Gli sorrido e mi appoggio al davanzale della finestra adiacente, in modo tale da averlo di fronte. Il suo sguardo resta in attesa, vuole che io gli doni quello di cui ha bisogno per non farlo.
«Signori, gentilmente, potreste lasciarci soli?», affermo diretta al gruppo di persone che si è formato attorno a noi.
Dopo qualche istante di esitazione, tutti si muovono in direzioni diverse, pronti a tornare alle mansioni connaturate alle proprie vite.
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Le iridi di un suicida
Short StoryVi siete mai soffermati ad ammirare le iridi di un suicida? Si, esatto, quei due frangenti nei quali la gente comune scorge solo vuoto e motivazioni vane, mentre un buon osservatore, invece, sa che non è così. Se si presta attenzione, in quegli occh...