Stupida.
Questa parola risuonava prepotente nei miei pensieri.
Arrivava bisbigliata da voci sconosciute, fredda e infida, colmando il vuoto che si era formato nella mia testa.
Mi colpiva ripetutamente, dura come fosse una pietra, creando lividi e cicatrici nel mio cuore che, oramai, era ridotto ad un piccolo ammasso deforme e rigido.
Mi sembrava di non provare più nulla, mentre delle lacrime fredde e salate sgorgavano dai miei occhi, percorrendo la linea del mio volto. Esitavano un paio di secondi sul mento, quasi chiedessero un'autorizzazione, oppure un ipotetico segnale di ritirata che le avrebbe fatte tornare al loro posto.
Né l'uno né l'altro sarebbero arrivati: dopo quei pochi, brevi, attimi avrebbero ceduto, si sarebbero arrese. Perché come ogni cosa, per quanto uno possa opporre resistenza, ci sarà sempre un momento in cui si dovrà arrendere. Di lì a poco, quelle lacrime sarebbero cadute, pesanti come macigni, e si sarebbero depositate da qualche parte sull'asfalto gelido del marciapiede, per poi scomparire alla stessa velocità con cui erano apparse, cedendo il posto a delle altre, che avrebbero fatto la stessa, identica cosa.
Nel giro di pochi minuti, nessuno avrebbe potuto sapere che ero stata lì.
Le mie lacrime sarebbero evaporate e 'bye bye', il mio passaggio sarebbe stato solo un momento sfocato depositato nella mia memoria, in un cassettino solitario.
Nessuno si sarebbe ricordato della ragazzina riccia che correva sgraziata e disperata lungo i marciapiedi di San Francisco, perché avrebbe dovuto? D'altronde, lei era solo una povera, piccola, stupida e chiunque avrebbe preferito cambiare strada se l'avesse intravista in quello stato.
Non era una di quelle ragazze che sono meravigliosamente belle anche quando piangono, oh, no che non lo era. Appena le si inumidivano gli occhi, il naso diventava rosso e pareva enorme; il mascara le colava creando certi aloni scuri sotto gli occhi paragonabili a occhiaie di una settimana e formando varie ragnatele grigie lungo le sue guance, che diventavano paonazze e piene di macchie. Inoltre iniziava a sudare e i capelli biondi le si attaccavano alla fronte, aumentando la sensazione di calore opprimente. Le labbra le si ingrossavano e iniziava a singhiozzare forte, emettendo gemiti strazianti e versi soffocati. Quando piangeva erano queste le sue caratteristiche, e la rendevano tutto, fuorché bella.
Ma lei non era bella, io non ero bella.
O almeno non lo ero abbastanza.
Non lo ero abbastanza per nessuno, o meglio, non lo ero per lui.
Lui, che era sempre stato protettivo, gentile, disponibile. Lui, che mi era stato accanto nei momenti peggiori, offrendomi una spalla su cui piangere e qualcosa a cui aggrapparmi mentre stavo precipitando. Colui che era stato per me Primo Amore e primo bacio e che mi aveva stretto la mano il primo giorno di scuola superiore promettendomi che sarebbe andato tutto bene, che non importava in quanti mi avrebbero ignorato o trattato male e in quanti mi avrebbero rifiutato, perché lui sarebbe sempre rimasto al mio fianco. Lui non mi avrebbe voltato le spalle, mai. Perché in lui avrei sempre trovato un amico fedele, disposto ad aiutarmi, ma, soprattutto, avrei sempre trovato una famiglia. Lo aveva promesso.
Lo aveva promesso, perché non è stato fedele alla parola data? Sono così sbagliata, per caso?
Ho così tanto di male, Luke? E se la risposta è no, allora perché mi hai fatto questo?
Non era giusto, non era fottutamente giusto! Come aveva potuto farmi questo?
Appena mi fui accertata che nelle vicinanze non ci fosse nessuno mi bloccai. Ero in un parco, su una collinetta, ai piedi di quella che credo fosse una quercia.
Il fiato corto, il busto chinato in avanti, le gambe stanche, i piedi doloranti, il volto prosciugato dallo scorrere delle lacrime.
La testa mi girava e non riuscivo a vedere chiaramente, tanto avevo la mente annebbiata. Intorno a me tutto vorticava, il buio di quella notte senza stelle mi avvolgeva, ma non come una calda coperta, piuttosto come una camicia di forza.
Mi doleva il petto, ma non era per la corsa. Provavo una sensazione frustrante, opprimente. Qualcosa mi stava schiacciando e non riuscivo a capire cosa fosse o cosa volesse.
Stavo implodendo, impazzendo.
Agitai le braccia nel nulla e strinsi i denti così forte da sentire dolore alla mascella. Ciondolai da un piede all'altro mentre le mani si infilavano fra i capelli e strinsi abbondanti ciocche tra le dita, finché le nocche non divennero bianche per lo sforzo e mi rannicchiai leggermente su me stessa.
E finalmente lo feci. Di scatto mi eressi, buttai la testa indietro e gridai. Gridai con tutto il fiato che avevo, mettendo in quell'agognante suono tutta la frustrazione che stavo provando. Sbattei velocemente i piedi a terra e persi leggermente l'equilibrio.
Mentre il mio urlo usciva mi chinavo lentamente in avanti, seguendo il movimento dei polmoni che si sgonfiavano. Con gli occhi stretti, gridai ancora. Tentando inutilmente di liberarmi da quel peso terribile.
Strinsi ancora di più i pugni, al punto che non sentivo più le dita, e mi abbandonai di peso sul possente tronco dell'albero che avevo a fianco.
Sbattei la spalla sinistra, ma non provai dolore.
Colpii il tronco col pugno serrato e poggiai stancamente la guancia contro la dura corteccia.
Le lacrime non si fermavano, il cuore più veloce di prima, il fiato più corto che mai.
«Perché?» Sospirai. Solo allora, completamente a pezzi, mi lasciai cadere sul prato, rabbrividendo mentre la sua fredda temperatura entrava in contatto con le mie gambe, lasciate scoperte dai pantaloncini.
Se qualcuno avesse visto quella scenata, probabilmente mi avrebbe preso per malata psichiatrica e avrebbe chiamato la polizia o direttamente il manicomio più vicino.
Se qualcuno mi avesse visto correre disperata per la strada mi avrebbe guardato confuso o con compassione oppure anche pena.
E se qualcuno avesse saputo che casino c'era nella mia testa, probabilmente avrebbe chiamato uno psicologo o un terapeuta.
Mi sentivo così stupida e vuota, ma peggio di tutto, mi sentivo delusa. Delusa da Luke e delusa da me. Ero delusa da me stessa, perché non sarei dovuta cedere così. Non dovevo essere così vulnerabile. Non era giusto.
Non era maledettamente giusto.
Non era giusto che io, la studentessa migliore del mio anno, colei che era sempre pronta a tutto, che non si lasciava colpire da niente, che schivava ogni proiettile, mi trovassi a piangere ai piedi di un albero chissà dove per colpa di un egoista del cazzo.
«Perché?» Chiesi nuovamente al buio, per poi socchiudere stancamente gli occhi e guardarmi intorno.
Persi anche l'ultimo barlume di speranza, mentre tutt'attorno si espandeva il vuoto.
Niente.
Intorno a me non c'era niente.
Nessun appiglio, nessuna sporgenza che mi salvasse dal baratro. Nessun ciuffo biondo rigorosamente spettinato e nessun paio d'occhi blu a rassicurarmi. Nessuna cicatrice suggestiva e d'effetto. Nessuna spalla su cui piangere e nessuna mano a cui aggrapparmi.
Qui, compresi: ero sola, completamente sola. Nessuno mi avrebbe aiutato.
E fu allora che persi l'ultima goccia di pudore che avevo in corpo.
Per la prima volta in tutta la mia vita, smisi di lottare. Smisi di lottare contro quella sensazione e lasciai che si instaurasse dentro di me.
Per la prima volta in tutta la mia vita, mi arresi.
Io sono Annabeth Chase, ex ragazza di Luke Castellan.
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Hey || Percabeth [IN REVISIONE]
Fanfiction[IN REVISIONE] [AU : NON SONO SEMIDEI] 'Hey' da ora in poi sarà la mia parola preferita. Percy è il solito, mangia, ride, nuota, ma è leggermente un piantagrane... Il suo piantagrane. P.S. prima o poi riscriverò anche la descrizione ma un satiro mi...