Prologo

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Dalla sua cella, Francesco li sente gridare, i fiorenti in strada che si spartiscono la sua casa, le sue vesti, i suoi libri, dall'oro della banca alle più misere pietre di palazzo Pazzi. Se chiude gli occhi li vede persino, mentre corrono con le fiaccole in mano, invocando Lorenzo. Lorenzo giusto, Lorenzo salvatore, Lorenzo che porta arte e porta pace. Li vede, ma è solo uno scherzo crudele della sua mente stremata: non ci sono finestre, né luce o speranze nel buco in cui è rinchiuso.

Non gli è concesso riposo, tuttavia, perché l'umidità e il freddo — di quelli che impregnano le ossa e congelano gli arti — lo tengono sveglio, e il sangue di Giuliano, come acido, gli brucia ancora sulla faccia. Non gli è concesso riposo perché non è tempo; perché Lorenzo può strappare la sua vita quando vuole, ma lui non è certo di essere pronto a morire. Non così, tra i ratti e la polvere di quella gabbia, mentre Firenze maledice il nome della sua famiglia e lo cancella per sempre dalla storia.

Il frastuono dalla strada viene meno alle prime luci dell'alba, Francesco però non sa che ore sono, o quanto è passato. Sul letto duro che lo accoglie — privo di coperte, perché non sono un lusso per traditori — scivola continuamente tra coscienza ed incoscienza, sogni orribili di un cappio ruvido che gli taglia la gola, del suo corpo esangue che penzola con Jacopo, dove tutti vedono, ed il popolo strappa loro le carni, ma lui non può gridare, e pure se potesse nessuno ascolterebbe. Neanche il risveglio porta sollievo.

È la pena che gli ha riservato Lorenzo: l'attesa, l'incertezza, ed è peggio che morire. Niente placa l'angoscia.


Di doman non c'è certezza - Francesco PazziDove le storie prendono vita. Scoprilo ora