Poi s'era fatto tutto confuso.
Ne conservava vaghi ricordi, e a sprazzi. Rammentava di non esser riuscito a mandar giù che due bocconi di minestra, perché lo stomaco gli si contorceva. Rammentava d'essersi levato - lo sguardo stupito di tutti, attorno al tavolo - e di aver sentito il bisogno di fare qualcosa, di muoversi, ma non essere riuscito a farlo. Rammentava il Bettino che s'era alzato e s'era affrettato a sorreggerlo. E il letto, alto e rifatto, e le tante coperte che s'era fatto mettere addosso. E quella sensazione di freddo e d'oppressione, che nulla riusciva a cavargli di dosso.
S'era fatto silenzio, tutto intorno. Anche le voci al piano di sotto s'erano zittite, e tutto pareva immerso nella calma delle lunghe notti d'inverno. Chissà se era presto, o se mancava solo poco all'alba. Aveva smarrito il senso del tempo.
Aveva la gola secca, la bocca riarsa. Avrebbe potuto far voci e chiamare la Cecilia, certo, perché gli portasse dell'acqua, ma non s'era sentito di farlo. Era una notte difficile, per lui come per gli altri, e non valeva la pena di guastare il sonno di chi aveva faticato e pianto. A stento - ché le coltri gli parevano divenute pesanti, troppo pesanti perché riuscisse a sollevarle -, s'era alzato in piedi. Un lungo attimo immobile, a ritrovare l'equilibrio, e qualche passo incerto, verso la porta. Senza candela, a braccia tese in avanti. Vi era nato e cresciuto, in quella casa. Ne conosceva ogni angolo, ogni distanza. Aveva trovato la porta, rimasta dischiusa, l'aveva tirata a sé per uscire nel corridoio.
Aveva inteso un rumore, da basso. Singhiozzi, parevano. Qualcuno che piangeva, sicuro. E aveva fatto le scale abbastanza in fretta, ché vi era una luce vaga e soffusa, al piano di sotto, che rendeva i contorni meno vaghi.
Il Mino, era. Ma non piangeva.
Era seduto dando le spalle alla porta, una candela a metà, il capo chino sulle braccia. Non piangeva. A tratti, sembrava ridere. No, rideva proprio. Rideva isterico, la schiena che sussultava, un verso stridulo.
Il Cecco s'era sentito stringere il cuore. Mai lo aveva visto così, e dire che l'aveva sempre avuto sotto gli occhi, fin da che aveva messo piede nel mondo. Gli s'era accostato, calcando un po' di più il passo affinché l'altro lo udisse, per non spaventarlo. Ma era stata una premura vana, ché il Mino non pareva in grado di intendere nulla, né i rumori, né le presenze.
Ed era rimasto lì per un po', a guardarlo, senza saper che fare. Ci sarebbe voluta la Carola. Lei avrebbe capito, avrebbe fatto le cose giuste, i gesti giusti, quelli che servivano.
«Mino», lo aveva chiamato.
Ma non aveva dato segno d'averlo inteso. Restava lì, e la sua risata stridula si faceva di tanto in tanto strada nel silenzio.
Gli si era avvicinato ancora, aveva allungato appena una mano - e aveva esitato, ché non sapeva se fosse il caso di toccarlo -, gli aveva sfiorato la schiena. Ma nemmeno quel gesto aveva sortito alcun effetto; pazzo, pareva, folle. E il Cecco ne aveva perfino avuto paura, di quel suo figliolo, prima di riuscire a rammentare che doveva essere stato il dolore a ridurlo così, il dolore spietato di chi ha perso qualcuno che amava, e in un modo immondo.
Gli s'era seduto accanto, in silenzio. E il Mino s'era calmato, un po' alla volta - il riso che si mesceva col pianto, che si tramutava in un lamento sordo.
«Mino», aveva ripetuto allora.
E il figlio aveva levato il capo, gli aveva mostrato il viso - stremato e invecchiato e disfatto.
«Babbo», aveva risposto, la voce fioca che sembrava grattare la gola e che si udiva appena.
«Suvvia, suvvia». Le parole gli erano venute fuori goffe e ingiuste, cariche di compassione e perfino un po' seccate, ché quel modo d'agire non era quello di un uomo.
«S'è perso tutto, babbo, la rimessa e la stalla.»
Erano così assurde, così fuori luogo, quelle cose. «Si sistema, tutto si sistema.»
«Non c'è rimasto nulla. Nulla, babbo, parevano tocchi di carbone.»
Parlava distante, il Mino, con un tono spaventoso, privo di empatia. Il cuore del Cecco s'era fatto più stretto per davvero, ancora più stretto. Aveva alzato una mano, l'aveva portata intorno alle spalle del figlio, e l'aveva sentito come sgretolarsi sotto il suo tocco.
«Lo so, lo so.»
«Era così bellina, l'Agnese. La ricordate, babbo?»
«Certo che la ricordo.»
Era solo due giorni fa, avrebbe voluto dirgli. Non era che due dì avanti, che gli aveva messo davanti il suo pane unto, che aveva pigliato in braccio il bambino. Due giorni, non di più. Ma il tempo doveva aver perso il suo senso, per il Mino. Doveva essere tutto sfuocato.
«Non ve n'era un'altra così bellina, in paese, quando ci maritammo.»
«È vero.»
«Ed era brava. Li aveva imparati in fretta, i mestieri, e mai l'ho udita fare un lamento.»
«Era una brava donna.»
«Vi adorava, lo sapete? Vi portava sempre a esempio. Dovresti fare come il babbo, mi diceva. Il babbo ti ha dato un buon consiglio, mi diceva. Chiedi aiuto al babbo, mi diceva.»
Il Cecco s'era sentito di nuovo pungere gli occhi. Gli sembrava quasi di sentirsela nelle orecchie, la voce allegra dell'Agnese, come se quelle cose le stesse dicendo davvero. Ce ne aveva la figura nitida in mente, come se l'avesse avuta davanti. E gli era parso di prendere coscienza soltanto in quell'istante che sarebbe vissuta solo nei ricordi, da quel momento in avanti, nei ricordi suoi e di chi le aveva voluto bene. Ed era un pensiero soffocante, un pensiero terribile.
Aveva veduto accanto a sé il viso della Carola per anni. Giorno dopo giorno, le si era svegliato accanto. Aveva visto il suo viso giovane e vivace, le occhiaie delle notti insonni, i capelli ingrigire e poi imbianchire. Bella, nel senso vero del termine, non lo era mai stata. Ma c'era sempre stata quella dolcezza grande e serena, nel suo sguardo, quel modo tutto suo di raddolcirsi, quando gli parlava. E anche quei ricordi, pian piano, gli sfuggivano. Già non era più capace di disegnarsi nella mente il profilo che aveva visto migliaia di volte, già gli sfuggiva il tono calmo e lento della voce. Il tempo aveva inghiottito tutto, i ricordi e le abitudini, e non gli era rimasto altro che qualche immagine sfocata di cose che forse nemmeno erano avvenute come lui le rammentava. E forse era questo il destino di chi se ne tornava al Signore, diluirsi, scolorire a poco a poco. E questa riflessione pure gli doleva.
«E dire che voi non la volevate, eh, babbo.»
Non l'aveva voluta, l'Agnese, era vero. Ma era stato un altro tempo, quasi un'altra vita, ed era convinto di fare il bene dei suoi figlioli, non il male. S'era chiesto se al Mino non sarebbe andata meglio una donna più avvezza alla fatica, più docile, meno delicata. Ma non aveva potuto scegliere, e s'era fatto convincere, ed era stato un bene, forse.
«Noi si voleva che tu fossi convinto. Dove si mangia in tanti, si mangia tutti.»
«E dire che avevate ragione, babbo, e che io non vi ascoltai, pigliato com'ero. Ma l'avrei dovuto riconoscere anche allora, che siete saggio. Ve l'avrei dovuto riconoscere», e il Mino aveva battuto un pugno sul tavolo, «ma si è così quando si è giovani, ché si pensa di aver già compreso tutto, ma non si capisce niente.»
«Non è certo colpa dell'Agnese», aveva incominciato, ma le parole gli erano morte sulle labbra. Colpa? E che colpa poteva avere? Ma era evidente che il Mino non era lucido, che parlava senza sapere che diceva, senza pensare.
«È la natura, che ha colpa, e questo io non l'avevo capito, babbo.»
«Che dici, Mino?»
«Che altro devo dirvi? Avevate ragione, siate soddisfatto!»
Parlava a vanvera, diceva cose insensate. E lo guardava come spiritato, gli occhi spalancati, arrossati dalla stanchezza e dal dolore. Ne aveva avuto pena, una pena infinita. S'era chiesto come sarebbe stato, se la Carola fosse morta a quel modo, se l'avesse perduta con i figli ancora bambini, se fosse accaduto a lui. E s'era sentito mancare.
«La ragione è la consolazione degli sciocchi», aveva commentato, e aveva scosso le spalle, come a dire che non gli importava.
Il Mino l'aveva fissato ancora per qualche istante, senza dire altro. Sembrava perso nei pensieri, distante, altrove. E non aveva più parlato. S'era chinato di nuovo sul tavolo, la faccia affogata tra le braccia. Immobile, pareva che dormisse.
Solo in quel momento il Cecco s'era ricordato di avere ancora la gola riarsa, e di essere sceso per bere. Si era alzato, badando di far poco rumore per non disturbare il figlio, aveva bevuto qualche sorso d'acqua direttamente dal ramaiolo. E se n'era tornato di sopra, a passo lento, stanco più di quanto non credesse possibile.
Giunto a metà delle scale, l'aveva di nuovo inteso.
Il Mino. Rideva.