4. Le tue radici

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La giornata iniziò con un ronzio fastidioso che costrinse Dragana a emergere dal mondo dei sogni

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La giornata iniziò con un ronzio fastidioso che costrinse Dragana a emergere dal mondo dei sogni. Aprì gli occhi a fatica, senza capire da dove provenisse la vibrazione costante, e si rese conto che non aveva disattivato la sveglia del telefono. Si alzò svogliata, trascinandosi verso il rumore per frugare tra le tasche dello zaino abbandonato sul pavimento, e spense la fonte del disturbo.

Aspettò che il silenzio tornasse sovrano e si abbandonò con la schiena alla struttura in legno del letto, sedendosi sulla pietra ghiacciata. Ogni nuovo giorno era un passo in più che compiva da sola: l'inizio era la parte più difficile, perché la mente ancora annebbiata dal sonno nascondeva ogni brutto ricordo. La prima settimana era stato insolito svegliarsi senza l'odore del caffè di suo padre e, quando realizzava che l'aroma tostato non avrebbe mai raggiunto la sua camera, si rifugiava di nuovo tra le coperte, decisa a non voler affrontare l'incubo in cui si era trasformata la sua vita. La dottoressa Mottin e Sara avevano impiegato diversi giorni per convincerla a lasciare la sua camera, e parlare con la psicologa le era stato di grande aiuto, ma le sensazioni di estraneità e solitudine non erano ancora riuscite ad abbandonarla del tutto. Non lo faranno mai, pensò mesta.

Poi, però, era andata un po' meglio. In quei momenti, con gli occhi ancora impastati di notte, si sentiva come quando riprendeva a disegnare dopo tanto tempo: all'inizio la mano pareva insicura, ma dopo i primi tratti, quando le dita iniziavano a scaldarsi e a ricordare come muoversi, tutto le sembrava parte di un meccanismo ormai assimilato. Allo stesso modo, le bastava sciacquarsi il viso, prendere un grande respiro e lasciare che il suo corpo conducesse per lei una vita che era ormai diventata abitudine.

Dragana si stiracchiò e decise di concedersi una visita al bagno prima di scendere al piano inferiore. Nel tragitto notò sul pavimento alcuni fazzoletti sporchi di sangue: il colore rosso non la allarmò, poiché fin da quando era piccola soffriva di epistassi notturna. Vista l'assenza di dolori o conseguenze fisiche, i dottori l'avevano sempre etichettato come un sintomo da stress, dal momento che accadeva soprattutto dopo qualche sogno troppo vivido o troppo spaventoso. Con il tempo aveva imparato a non darci peso, si puliva il naso e poi tornava a dormine come se nulla fosse successo, e lo stesso doveva essere accaduto durante la notte appena trascorsa.

Si lavò velocemente il viso e il suo sguardo cadde di sfuggita sull'ammasso di capelli biondo scuro che le contornava il volto, uno degli elementi che tanto avevano turbato le donne della famiglia. Era vero, nel suo aspetto non aveva preso nulla dal padre, né i gelidi occhi, né la chioma corvina. Eppure sua mamma le diceva sempre che riusciva a riconoscerla anche da lontano, perché il suo fisico longilineo e la camminata leggera erano caratteristiche che ritrovava anche nel marito. Afferrò una ciocca bionda, così corta che a stento le sfiorava le spalle. Un pensiero fulmineo si fece spazio tra i rimasugli dei sogni – una sensazione di rabbia e sconforto l'aveva accompagnata durante il sonno, anche se in quel momento non ricordava a cosa fosse dovuta –, ma si affrettò a rimetterlo al suo posto: non sarebbe cambiata per loro. Se un giorno avesse dovuto decidere di modificare il proprio aspetto, sarebbe stato solo e soltanto per se stessa. In più, sospettava che il nero sulla sua testa sarebbe sfigurato rispetto alla fulgida bellezza di Melissa e l'ultimo suo desiderio era dare un ulteriore motivo alla cugina per sentirsi superiore.

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Abbandonò i suoi pensieri e si vestì con un paio di vecchi shorts, a cui abbinò dei collant pesanti, una maglia a maniche corte e una camicia in flanella slavata che risaliva alla gioventù del padre. Coprì le palpebre con l'ombretto nero, senza cui non era più abituata a vedersi, poi finalmente si recò di sotto, guidata anche dallo stomaco che pretendeva di essere riempito.

Quando entrò in sala da pranzo, zio Mac stava già mangiando. La vestaglia da notte rosso cupo gli conferiva un'aria regale, accompagnata dai baffetti scuri che le ricordano i divi anni Trenta e dalle basette curate. Con suo grande sollievo sembrava esserci solo lui.

«Buongiorno, Erica, serviti pure con quello che preferisci» la avvertì, non appena la scorse sulla soglia. Dragana si concesse qualche minuto per ammirare l'incantevole architettura della casa: era quasi certa che fosse in stile tardo gotico, come suggerito dalle altissime finestre, dalle decorazioni pregnanti e dall'immensa tavolata dal gusto anticheggiante, ma sembrava così ben tenuta che sospettava che allo zio – o alla nonna – piacesse quello stile e che avesse voluto ricrearlo.

Si accomodò allo stesso posto della sera precedente, dove Sănder aveva apparecchiato per lei con diversi piatti e un'infinità di posate. Osservando i movimenti di Mac, Dragana alzò la cloche d'argento che teneva al caldo le vivande e, con sua sorpresa, ad aspettarla c'erano pane tostato, della frutta fresca e una tazza contenente quello che presunse essere tè.

«Ci siamo informati sui tuoi regimi alimentari» le spiegò lo zio, che era stato per tutto il tempo a fissarla in attesa.

Dragana alzò le sopracciglia sorpresa: «Da chi vi siete informati?»

«Non pensare che tu sia capitata in una famiglia qualsiasi, copilă. La tua assistente sociale si è occupata di darmi tutte le informazioni necessarie, è brava nel suo lavoro.»

Alle sue parole, un fiore di nostalgia per Sara sbocciò nel petto di Dragana. Lei e la dottoressa Mottin erano state per la ragazza un sostegno fondamentale nelle prime due settimane dopo la morte dei suoi: doveva a loro la forza che da quel momento era riuscita a dimostrare.

Dragana lanciò un'occhiata al piatto dello zio, notando come la sua colazione fosse decisamente diversa da pane e marmellata: uova e carne giacevano al suo cospetto, in attesa di essere infilzate con delicatezza e portate alla sua bocca.

«Grazie» sussurrò solo, riferendosi all'interesse che stava dimostrando di avere nei suoi confronti. Fino a quel momento non ci aveva pensato, ma anche lei per l'uomo era una perfetta sconosciuta. Per diciassette anni aveva condiviso ogni momento della sua vita con i suoi genitori e i pochi amici che aveva lasciato in Italia: mai un trasferimento, mai un cambiamento significativo. Mai nulla di sconvolgente, fino all'incidente di poche settimane prima. Se gli assistenti sociali non fossero risaliti a zio Mac, in quel momento probabilmente sarebbe stata in un orfanotrofio o in una casa famiglia: doveva ritenersi fortunata a poter ancora avere qualcuno che volesse prendersi cura di lei.

«Quando hai finito, ti aspetto sul retro. C'è una cosa che devo mostrarti» la avvisò, pulendosi la bocca e allontanandosi, poi, con la sua tazza di caffè.

Dragana annuì e terminò con calma la sua colazione. Stava impilando i piatti da portare in cucina – ovunque essa fosse –, ma non appena le sue mani afferrano la ceramica fredda Sănder fece il suo ingresso e con un solo sguardo riuscì a gelarla: lasciò che fosse lui a sparecchiare e aspettò che se ne fosse andato prima di rilasciare il fiato. Non sapeva se sarebbe mai riuscita ad abituarsi alla sua silenziosa presenza.

Accertatasi di essere rimasta sola, decise di seguire la richiesta dello zio, abbandonando definitivamente la sala da pranzo prima che altri inquilini la popolassero. Si lasciò la porta alle spalle, accogliendo l'aria frizzante del primo mattino sulle guance scoperte, e senza fretta raggiunse il vialetto in terra battuta che collegava l'ingresso con il cancello d'entrata. Si voltò verso la dimora, un castello dall'aspetto regale circondato da montagne spoglie. Il luogo in cui avrebbe abitato a partire da quel momento era lugubre e desolato: sembrava di stare all'interno di un cuore abbandonato, il cui battito sporadico non era sufficiente a far fluire la vita. Tutto pareva morto e lasciato a se stesso.

La Mietitrice [completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora