L'uomo dell'Ottocento - delirio balneare

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Riconobbi subito il suo volto di folle autentico non appena vidi la maschera che aveva scelto e indossato per celarsi al mondo. Ridicolo e goffo tentativo di ingannare l'occhio con un sotterfugio fallimentare già in partenza. Ammetterò che fui l'unico ad accorgermene. E in effetti, la maggior parte di noi ha ormai dimenticato le facce provenienti da epoche passate, specie quelle più normali e prive di segni distintivi particolari.

Quella mattina d'agosto vidi la pazzia e l'allucinato grido dell'irrazionalità più cieca pulsare sotto i lineamenti burberi, eppur delicati e femminei, di un volto da ferroviere dell'Ottocento che gongolava paffuto lungo il bagnasciuga della spiaggia pubblica.

Grossi occhiali tondeggianti su un naso pronunciato, sotto il quale strisciavano due folti baffoni terminanti in riccioli accuratamente pettinati all'insù. Capelli lisciati e schiacciati da brillantina invisibile, pelle bianchissima e cipiglio severo. Controllava la riva del mare in cerca di passeggeri sprovvisti di biglietto di viaggio e il suo sguardo scorreva pronto da una giovane bagnante in costume intero prona su un fazzoletto azzurro di tela unta, al bambino armato di cannoncino ad acqua compressa, scivolando con una certa pudica velocità su chi sapeva essere certamente in regola con le ultime disposizioni ferroviarie: anziane coppie di canuti e ingobbiti pendolari del mare, logorati dal rollio delle onde e asciugati dall'assenza di vento, gente che doveva aver visto ormai troppe volte lo stesso panorama in corsa e che aveva sicuramente perso il conto dei biglietti obliterati di stazione in stazione.

Il mio uomo chiudeva poi un occhio su chi riposava nel suo umido vagone di sabbia, sdraiato alla meno peggio in una cuccetta che non reggeva il minimo spiffero e che spesso, per giunta, lasciava filtrare rivoli d'acqua salata durante i piovaschi che certe nuvolaglie bigie scatenavano all'uscita delle gallerie più buie. Non è in fin dei conti da escludere che dentro di sé commiserasse non poco la loro sorte, domandandosi cosa li inducesse a persistere in quella condizione di lenta e inesorabile agonia.

Lo vidi nel pieno di una ronda di controllo, quel giorno.

Era calmo, pacifico, sorridente nella sua austerità. La massa di passeggeri scorreva ignara sotto i suoi fulminei occhi di ferroviere ottocentesco, i piedi nel mare.

Nel vetro spesso dei suoi occhiali ancora danzavano i fumi delle ciminiere grigie della seconda rivoluzione industriale, colonne sbuffanti nebbia e pulviscoli sulle teste plumbee di fiumane di lavoratori in cammino.

Era un giorno di routine come tanti, per un sicario acquattato sotto un'immagine antica. Si nascondeva, illuso, dietro un geroglifico di storia recente, intonando forse tra sé quei ritornelli popolari che si alzavano nell'aria soffocante di remote industrie accalcate di operai sudati, avvolti nella polvere del carbone che le locomotive respiravano a grandi boccate. E fu proprio lo stereotipo che trasudava dal suo viso eccessivamente banale e troppe volte già visto a fare emergere quest'uomo, stonato, dal coro piuttosto omogeneo del popolo balneare che stavo osservando.

File ordinate e costanti di viaggiatori in costume procedevano incrociandosi davanti all'uomo dell'Ottocento, inerpicandosi a fatica lungo i sassi pietrosi della riva, arrotondati in punte taglienti e dolcemente acuminate dall'eterno andirivieni delle maree. Guardando a destra, gettando un'occhiata a sinistra, l'ottocentesco ferroviere visibilmente godeva di quel continuo passaggio di esistenze in lenta ma implacabile corsa lungo le rotaie invisibili del tempo. E i granelli di sabbia che l'onda rubava a tutti quei piedi in cammino andavano a poco a poco a riempire il fondo della grande, eterna, clessidra marina.

Ciò che certamente egli apprezzava di più doveva essere la traiettoria che tutti seguivano senza saperlo, condotti da forze cinetiche insondabili e segrete, sottostanti la superficie delle cose. La sua maniacale attenzione verso la perfetta armonia motoria che tutti i bagnanti disegnavano con il loro inerziale incedere mi indusse a ipotizzare che non si sarebbe limitato, nella tragica eventualità di una rottura dell'equilibrio, a multare un possibile anticonformista, ma che sarebbe invece caduto nell'assassinio più feroce pur di conservare quella danza metodica e ossessiva. Era, in fondo, un killer per dolorosa necessità, in perenne attesa di poter entrare in azione per liberare il roco grido soffocato di un mostro sepolto sotto i baffi da almeno duecento anni. Un polveroso drago ottocentesco, forse, imprigionato in una caverna di traversine e binari di carbone.

Ed eccolo, l'errore. L'amara incongruenza, la terrificante disattenzione intenzionale e cercata, l'aborrita distonia lungo la geometria rigidamente perfetta dei binari: un bambino sdraiato in una folle obliqua, delirante angolatura, di traverso lungo l'andirivieni della carovana umana, cigolante tranvai stillante salsedine sotto l'arroventato riflettore solare.

Giammai, impostore avventato!

Sbiancò istantaneo, poveretto, l'uomo dell'Ottocento, ferroviere sicario camuffato da controllore marino. Come se non fosse già malauguratamente niveo a sufficienza.

Nella mia testa vidi con alcuni secondi di anticipo quanto sarebbe accaduto di lì a poco.

Presa una pietra possente dal bagnasciuga, l'uomo si slanciò d'un fiato verso il ragazzino, con la bocca tirata dallo spasimo e le gambe traballanti, deboli, contratte in un gravissimo e teso gesto atletico. Con la furia d'un treno precipitò sul fanciullo e con un fendente secco e arcuato gli calò la roccia sul capo, aprendolo in due come un melone.

Lo vedevo inginocchiato sulla sabbia sassosa, intento ad assaporare con fare da gourmet il cervello sfrigolante, mentre una signora di passaggio, distrattamente attratta dalla promessa di uno stuzzichino diverso dal solito, s'informava con fare sornione se le fosse per caso concesso ottenere un assaggio della presunta prelibatezza. E dopo aver detto questo, vidi la donna estrarre dal costume una forchetta di plastica bianca e con questa servirsi dalla capoccia craterica del suddetto bambino. Il tutto avveniva in un clima di serena e collettiva contemplazione.

Ma no, nulla di questo era accaduto al di fuori della mia mente rosolata al sole.

L'uomo dell'Ottocento, persa ormai la durlindana fino a tempo da destinarsi, vagava confuso e spaventato tra la gente, lanciando occhiate terrorizzate al bambino steso a guardare il sole con le gambe tra le onde, temendo che potesse essere inavvertitamente travolto dall'afflusso di viaggiatori. E si muoveva, il ferroviere, come a scatti, elettrizzato, esaltato, in pena. E un sorriso scialbo gli sbocciava a tratti sulle labbra, scomparendo di tanto in tanto sotto la superficie della maschera, per riaffiorare solo qualche secondo dopo, attraversato da una lieve increspatura di dubbioso giubilo.

Il sole s'inerpicò allo zenit. La canicola sorse sul trono del giorno: era il suo turno, del resto.

Molti bagnanti si assieparono sull'onda, immergendosi nell'acqua fino a metà vita soltanto: a mollo la metà dell'esistenza, necessaria una parziale pulitura dell'Essere.

Richiamati i bambini al suono di pentole e cartoni animati (ma solo dopo l'inevitabile supplizio del sussidiario scolastico) le famiglie balneari rincasavano accaldate.

E d'un colpo, il bagnasciuga si fece vuoto.

Nessuno sferragliante transitar d'anime, per il momento era indetta una pausa nell'aggrovigliato procedere di piedi e di vite lungo l'orlo dell'abisso marino.

E l'uomo dell'Ottocento rimase solo. Solo con se stesso e le proprie manie omicide.

Privo di passeggeri da tener sott'occhio, si fissò sull'orizzonte lontano, stabilizzandosi su una frequenza nota a lui solo, da cui sembrava trarre una desolante e profonda tristezza.

Rimase così per alcune ore, immobile, a guardare il mare avanzare indietreggiando e le nuvole rincorrersi lungo i fili invisibili che muovono le scenografie del mondo.

Poi chinò la testa e si arrese. Gettò la maschera, frustrato, e come gli altri si voltò per andarsene. Per un solo secondo lo potei guardare per davvero, oltre il frastuono dei mille travestimenti sedimentati giorno dopo giorno sulla sua faccia. Vidi che quell'assassino non differiva dalle altre persone, capii che non era nemmeno molto diverso da me. Soltanto, aveva una maniera tutta sua, di uccidere.

Un modo personalissimo eppure mediocre e datato di ammazzare il tempo e sentirsi meno solo: guardare gli altri.

L'uomo dell'Ottocento (racconto breve)Where stories live. Discover now