In questo momento non vedo né sono visto. Il mondo è opaco, dove sta lui.
Dove sto io, alcune gocce di vapore acqueo non hanno ancora smesso di rincorrersi, imperlano di sudore le pareti a mattonelle e increspano l'aria con imperfezioni puntiformi. Increspano. Mi domando se sia il termine che sto realmente cercando in questo caso. Ci sono dei rivoli d'acqua che mi scorrono distrattamente lungo le gambe, come sovrappensiero; mi solleticano i peli, ma io li lascio fare perché sono più sovrappensiero di loro. È forse meglio deformano? Torno a osservare le ultime gocce sospese attorno a me, trasparenti come nei perlacei su un manto etereo, mentre vengono assorbite dall'immobilità dello spazio. No, increspano è un vocabolo più calzante, suona meglio. Mi riporta alla mente mia nonna, e le rughe sottili che appaiono ogni volta che un timido sorriso increspa il suo volto. Mi piace pensare che queste imperfezioni rendano la realtà molto più simile a chi la abita. Ed è in una vivace increspatura che si può cogliere l'umanità dei difetti, non in una tetra deformazione. D'altronde, un sorriso non toglie forma a un volto; lo arricchisce.
Lui mi sta fissando, come al solito. Sempre attento, guardingo. Non lo colgo mai assente, o assorto nei suoi pensieri; lui, al contrario, deve sempre fare i conti con le mie continue disattenzioni. Ora che l'aria ha assorbito tutto il vapore e lo scorgo chiaramente, al di là dello specchio, rammento che, fra i due, sono io il vero riflesso opaco. Lui è nitido, stoico, impassibile. I suoi capelli neri sono incollati alla fronte, e gli incisivi sporgenti sono nascosti e quasi invisibili dietro le labbra secche. Adesso nessuno, a parte me, sa che ci sono. I suoi fianchi adiposi muoiono dalla voglia di essere strappati, ma non hanno potere in quella realtà parallela. Lui, oltre quel vetro, ha la libertà di potersi ignorare, il lusso di non dover fare i conti con sé stesso. Lo invidio. Io devo sempre convivere con la mia inadeguatezza. Lui è l'unico a cui non debba giustificarla.
Ci asciughiamo guardandoci, io e lui, ad una distanza fissa. Non parliamo mai di niente. La nostra intimità, a differenza di qualsiasi altra, non è schiava della parola, né figlia del tocco. È una creatura indefinita, silente e inebriante che ridefinisce il concetto stesso di conforto. Gli sorrido, lui ricambia; la nostra dentatura ingombrante fa capolino per la prima volta senza imbarazzo. Noto che anche lui ha un livido purpureo sull'avambraccio, ma immagino che in quella realtà ovattata sia meno doloroso. Mentre lo esamino, mi domando cosa accadrebbe se rompessimo il vetro che ci separa. Sento mia madre urlare il mio nome dal piano di sotto. Un brivido mi percorre la punta delle dita. Distolgo lo sguardo, indosso il mio accappatoio e mi allontano, curioso di sapere se lui si sia chiesto la stessa cosa.
Le scale che sto scendendo sono tutto ciò che mi rimane prima di sentirmi vulnerabile. Questa consapevolezza riaffiora sempre, per una frazione di secondo, ogni volta che le percorro. Sono così abituato ad essa che oramai mi viene facile fingere che non sia davvero così, che io sia ancora in grado di essere a mio agio mentre accorcio la distanza fra me e mia madre. Ma la verità è che non c'è qualcosa di cristallizzabile in questa mia fragilità. Non ne so dare una definizione, né stabilire una sua fonte d'origine. So solo percepirne i mutamenti incessanti sotto la pelle, i risvolti indesiderati nel tempo. I miei sensi si acuiscono, i nervi vibrano all'erta, ma la mia mente è ottenebrata. Mi rendo conto, in fondo, di non essere granché diverso da una preda; anch'io barcollo, in territori ostili, su piedi impotenti.
In cucina la realtà è gialla come al solito. Mia madre mi dà le spalle, china sui fornelli, industriosa come un'ape regina; e questo pare il suo alveare in cui io, mosca vagabonda, sono tragicamente precipitato. Irritante, inconcludente, parassitario: sono certo di non essere altro che una mosca ai suoi occhi. Non mi considera mentre riempie i nostri piatti, e io fingo di non considerare lei. Occupo le mie mani sistemando i tovaglioli gialli sulle tovaglie gialle. Sono terribilmente a disagio. Sul muro di fianco a me ci sono sempre le gigantografie di Gaia, e io trascorro quasi ogni cena impegnando gli occhi sui loro dettagli. Mia madre deve pensare che io soffra tremendamente della sua mancanza, ma in realtà è solo un meccanismo che ho adottato per non dover incrociare il suo sguardo. Gaia, sulla parete, è solare come tutti gli altri giorni: la sua camicetta a fiori è stropicciata, ma lei non sembra preoccuparsene mentre sorride all'obbiettivo coi suoi perfetti incisivi. Quel giorno il sole splendeva, e lei era raggiante allo stesso modo.
Diluviava, invece, il giorno in cui è morta. Caduta di due rampe di scale, frattura dell'osso del collo. Vorrei poter dire di conservarne una visione d'insieme confusa, edulcorata, stuprata dal trauma; ma la mia mente sa recitare fin troppo vividamente quegli attimi di tragedia. Evita solo di soffermarvisi, nel tentativo di proteggermi dal ricordo di essere stato io a spingerla. In quel momento, esanime e deforme per l'impatto, i suoi incisivi si erano fatti molto più simili ai miei, ma nessuno a parte me parve accorgersene. Abbruttirsi diviene legittimo, quando non sei in grado di giustificarti. Come mi giustifico io? Gaia amava il giallo e i pastelli a cera, e ora a parte le sue foto incorniciate tutto è giallo pastello. «Prima o poi ingialliranno anche quelle, ma lei ne sarà felice» dice sempre mia madre. «C'è della bellezza nell'ingiallimento. È Gaia che me l'ha insegnato, lo sai?» Ci sono voluti anni perché smettesse di apparecchiare il suo posto a tavola, ma la sua sedia gialla è ancora lì, fra noi due. Monolite monumentale di questo cimitero famigliare. A volte l'assenza di Gaia è la presenza più asfissiante di tutte; sa appesantire anche il più leggero dei gesti, rendere assordante l'azione più silenziosa. Non mi manca tanto lei, quanto la realtà in cui lei mi lasciava vivere, e quel benessere effimero che ora mi scivola dai polpastrelli delle dita. Immagino di dovermi vergognare pure di questo. Oramai il senso di disonore mi si cuce addosso.
«Papà?» biascico. Sembra quasi una domanda di circostanza quella che mi esce dalla bocca. Fa bel tempo domani? Hai steso il bucato? Il tono disinteressato è il medesimo, e vige la stessa urgenza di colmare un mutismo logorante. Mi concentro sul mio bicchiere mentre le due sillabe aleggiano nell'aria. Ha il fondo giallo, e gialle sono le venature che si ramificano rampicanti verso l'alto. Un occhio disavvezzo potrebbe concludere che sia stato usato per spaccare un uovo marcio, e nessuno si sia preso la briga di ripulirne la base dal tuorlo sulfureo. È un bicchiere pacchiano e stupido. Mi accorgo di essere già quasi a metà portata. Mangiare è l'unica attività verso cui la mia indole distratta sia un'agevolazione piuttosto che un impedimento; per questo è così pericolosa. Assottiglia il confine fra il deleterio e l'assuefacente nei momenti di assortimento. Si fa infausto catalizzatore per le menti più deboli. Eccomi qui, una mosca debolissima.
«Ormai sembra quasi lo stesso di prima, dico davvero» risponde. Mi sta indorando la pillola, ovviamente. Lo capisco dal modo in cui la sua voce si acuisce a fine frase. Questo vizio la tradisce ogni volta. La mia forchetta inizia a raschiare contro la superficie cava del piatto che sto svuotando. «Il dottore mi ha detto che domani probabilmente lo dimetteranno dalla terapia intensiva. Non vede l'ora di vederti, lo sai?» Non distolgo lo sguardo dal cibo, ma la conosco abbastanza da sapere che in questo momento sta sorridendo a mani giunte. Non so bene come reagire. Fa così caldo qua dentro. Tutto ciò che voglio è ingurgitare l'ultimo boccone che mi separa dalla via d'uscita. La sento sbattere le mani sul tavolo. «Mangi troppo velocemente, santo cielo. Non è normale!» Ho la bocca ancora piena ma sono già in piedi. Non mi so giustificare. Ogni cosa che faccio infastidisce. Ogni cosa che sono è inadeguata. Se mio padre fosse qui ora probabilmente riderebbe. Di me? Di lei? Non so bene dirlo. Ma non c'è. Sta su un letto d'ospedale con una ferita d'arma da fuoco all'addome, a fissare il soffitto e ammazzare il tempo. Questo pensiero mi dà sollievo, mi fa quasi ridere. Si impara ad apprezzare l'ironia di certi modi di dire, con un padre che fa il poliziotto. «Mi ascolti o che cosa?» urla, ma per me è un ronzio. Sbuffo per farle capire che non deve alzare ulteriormente la voce, ma la ignoro. Sono già con un piede fuori dalla cucina quando dice: «Domani dopo scuola vieni in ospedale con me».
Salgo i gradini a due a due e mi chiudo la porta di camera mia alle spalle senza fare il minimo rumore. È un gesto che ormai faccio inconsciamente, una necessità istintuale che mi fa credere di avere del potere. Ho realizzato che ogni porta ha un suo suono, una sua traccia identificativa. Disattivare questo allarme impedisce di rendere nota la mia posizione. Ogni giorno proibisco alla mia porta di fare la spia. Potrei essere ovunque in questo momento. Sento quasi di avere controllo su dove sono. È senza dubbio una piacevole illusione in cui perdersi.
Prima ancora di rendermene conto mi ritrovo accovacciato per terra. Sento il mio respiro affannoso e irregolare che increspa – no, deforma l'aria. Davanti a me ci sono due letti vuoti. Sono quattro anni che Gaia non dorme qui; questo mi dà il lusso di poter scegliere, e il privilegio di non sentire più russare durante la notte. Ma anche questa scelta è un'illusione. Mi rialzo lentamente, modulando i battiti del mio cuore. Da che ho memoria, ogni letto mi è bara.
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Cariddi
Short StorySe il presupposto di ogni storia sta nell'elevazione della materia trattata ad una forma d'Arte, allora questa non è una storia. Ne è anzi l'opposto. Ciò di cui solitamente si narra in toni sublimi è qui degradato nella sua forma più primigenia. Tut...