2. I cancelli dell'inferno

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𝑳𝒂𝒏𝒂

Quando avevo scoperto di non essere entrata nella facoltà di medicina, prima di essere ammessa con il pescaggio dalla lista di attesa, la prima cosa che mio padre mi aveva detto era stata: «sei stata fortunata».

Ero stata fortunata. Così fortunata che avrei finalmente potuto scrollarmi di dosso quello strano ronzio nella testa che mi incitava a buttarmi a capofitto in una professione di cui non avevo mai realmente compreso i difetti.

All'inizio ci ero rimasta male, perché un padre laureato in medicina che ti dice che sei stata fortunata a essere stata scartata è alquanto incoerente e demoralizzante.

Adesso, a distanza di anni da quel giorno, e dopo essere stata così sfortunata da essere riuscita a intraprendere quel percorso di studi tanto agognato, comprendevo appieno che cosa intendeva mio padre con quel semplice e banale termine. Fortunata.

Perché ci avevo provato e non ci ero riuscita, avrei potuto dare la colpa al destino o al fatto che forse il fato avesse deciso che doveva proprio andare così e poi sarei uscita con gli amici a farmi una birra, pronta a cercare un futuro differente, più semplice.

Perché la verità era questa: tutti i ragazzi che non erano entrati a medicina, erano stati fortunati. Non avevano passato gli ultimi cinque anni come li avevo passati io: nell'inferno. Almeno, avevo creduto che l'andare a dormire tardi per studiare, soffrire d'ansia da prestazione a causa dei professori che non si risparmiavano mai una battuta derisoria a una risposta sbagliata e il rischiare la depressione per via dei troppi giorni rimasta chiusa in casa fossero una buona variante del regno degli inferi. Ovviamente, mi sbagliavo.

Avevo ingenuamente creduto che la mia sfortuna si fermasse allo studio matto e disperatissimo degli anni passati tra i banchi universitari e avevo preso troppo alla leggera cosa significasse specializzarsi, credendo fosse più un punto di arrivo, quando invece era la reale linea di partenza. Perché se durante l'università mi ero ritrovata a fare le ore piccole per recuperare parti di programmi non spiegate dai professori, adesso a dormire non ci andavo proprio e non si trattava più di ansia a causa di una risposta formulata male o della paura di diventare pazza nel non vedere anima viva per settimane intere, ma si trattava di stare dietro a tutto. Ai medici, agli infermieri, ai pazienti. Tutti.

Noi specializzandi eravamo gli ignobili schiavi dell'oltretomba e continuavamo a essere torturati e torturati e torturati, anche sfruttati, quando ci restava tempo tra una tortura e l'altra. E se Dio era una donna, si poteva dire che il suo angelo più bello creato a sua somiglianza, ormai caduto, fosse un'arpia di donna dai lunghi capelli corvini. Margot Collins era Satana in persona.

E non importava quanto attraente fosse, con le sue gambe lunghe, le gote alte e gli occhioni scuri da cerbiatto. La dottoressa Collins aveva le fiamme celesti a scorrergli nei vasi sanguigni che gli bruciavano ogni sprazzo di empatia rimasto in corpo e il suo cuore si alimentava della sofferenza delle giovani fanciulle indifese come me e di caffè amaro, al quale aggiungevo sempre un pizzico di zucchero perché sapevo che lo evitava per restare in forma e sapevo anche che non era lo zucchero il problema dei suoi inesistenti chili di troppo. Il problema era che faceva fare a me tutti i giri dei piani per prenderle caffè e fare fotocopie, quando si sarebbe potuta risparmiare una gran quantità di caffeina amara se solo si fosse impegnata lei stessa a percorrere quelle lunghe scale inutilmente.

«A lei, dottoressa», le sorrisi, osservandola sistemarsi alla svelta i capelli lungo la spalla, mentre senza neanche ringraziarmi afferrava la bevanda dalle mie mani e iniziava a camminare verso l'entrata del reparto di pediatria con sicurezza.

Quella prima settimana di specializzazione avevo avuto modo di tornare a casa a lavarmi a giorni alterni e attendevo con ansia che il mio turno potesse terminare, così dopo quella stressante nottata in pronto soccorso avrei finalmente potuto mettermi a dormire. Non mi sarebbe neppure importato di fare colazione, mi sarei semplicemente coricata a letto con ancora tutti i vestiti addosso.

Chemical HeartsWhere stories live. Discover now