Prologo

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ORLANDO


Il soffitto ballava sulla mia testa. Il lampadario dondolava come se fosse stato scosso da un terremoto di magnitudo 7.2, il mio corpo fluttuava in uno spazio senz'aria ma con un odore rivoltante che mi dava la nausea.

Mi toccai la gola secca e dolorante con le dita e mi accorsi di stare tremando, ma non avevo freddo. No, sudavo. Avevo la febbre.

In conclusione, stavo uno schifo.

Uno schifo che però non pensava e non viveva. Ed era proprio quello il mio obiettivo: non pensare, non vivere.

Provai a chiudere e riaprire gli occhi più e più volte, ma le luci psichedeliche non abbandonavano il mio campo visivo. La paranoia crebbe in me. Sentii la necessità di alzarmi e scappare da quel luogo che non sentivo casa.

Forse perché non lo era.

Cercai il telefono che doveva essere nella tasca dei jeans ma non lo trovai. Pensai che forse doveva essermi caduto quando ero crollato qualche ora prima, tra i cuscini logori del divano. Se fosse finito tra le pieghe in mezzo al sudiciume e alla polvere avrei ricevuto l'ennesima punizione universale di quel giorno. A quel punto non avrei potuto fare altro se non aspettare che la stanza smettesse di girare e la febbre calasse da sola.

Fu il telefono, a quel punto, a trovare me. Come a ricordarmi che nemmeno all'universo fregava qualcosa della mia patetica esistenza, che non si sarebbe mai preso il tempo nemmeno di punirmi.

Uno, due, tre squilli. Al quarto riuscii a capire che il cellulare fosse a terra e potei recuperarlo. Non lessi nemmeno il nome del mittente, risposi e basta.

«Lando?»

Riconobbi subito la sua voce. Era impossibile non farlo: Teresa aveva la voce più bella che avessi mai sentito. Calda e gentile, un po' infantile e un po' nasale, ma ascoltarla parlare era sempre un piacere. In quel momento la sua voce fu quasi un balsamo per i miei sensi.

«Tess...», biascicai. «Scusami.»

«Scusarti? Per cosa?»

Richiusi gli occhi, sentendoli pizzicare. I muscoli mi diedero una scossa allucinante che mi costrinse ad alzarmi nonostante il mal di testa. Un'allarmante salivazione eccessiva fu il biglietto da visita per un viaggio in bagno, e riuscii a malapena a sollevare la tavoletta del cesso prima di gettare tutto fuori. E mentre il mio corpo veniva scosso dai brividi e dagli spasmi e tutti i miei errori andavano a finire nello scarico, sapevo che Teresa fosse ancora in linea dall'altra parte del telefono, che avevo perso di nuovo.

Mi ripresi solo dopo minuti interminabili, mi accasciai sul pavimento freddo che mi regalò un po' di sollievo e cercai con la vista – che già stava tornando a essere più stabile – il telefono. Lo raggiunsi: era finito sotto al lavandino.

«Scusa per averti deluso», soffiai. «Per l'ennesima volta.»

«Oh, Lando...», la sentii dire. Piangeva. Certo che piangeva: lo faceva sempre quando mi riducevo così. «Che cos'hai preso questa volta?»

«LSD.»

Ci fu un po' di silenzio durante il quale pensai: "Ecco, questa è la volta buona in cui decide di lasciarmi. Me lo meriterei. Sono solo un peso per lei". Invece, come al solito, Teresa non mi abbandonò.

«C'è qualcuno lì con te?»

Mi venne da ridere ma pensai che non fosse il caso, perciò risposi solo con un "no" secco al quale seguì la risposta pacata e gentile della ragazza: «Riesci a resistere ancora un po'? Sarò da te il prima possibile.»

Fissai le mie gambe divaricate e immobili e realizzai che neanche volendo avrei potuto muovermi da lì senza l'aiuto di qualcuno.

«Vuoi che resti al telefono mentre ti raggiungo?»

Scossi la testa ma poi mi resi conto che lei non avrebbe potuto vedermi, così risposi: «No. La porta è aperta.» Lo era sempre. «Sono nel bagno.»

«Capito. Arrivo.»

Gettai il telefono lontano dall'orecchio e mi lasciai andare contro il muro alle mie spalle. L'odore pungente dei prodotti di pulizia stava facendo a pugni con il mio stomaco, ma di alzarmi da lì non ne avevo la minima intenzione. Pregai solo che Teresa arrivasse presto o, in alternativa, che svenissi e mi liberassi di quell'agonia.

Avevo fatto tanti errori nella mia vita, ma non ricordavo quando avevo cominciato a scendere lungo quella strada autodistruttiva. Sta di fatto che risalire e tornare a vivere era ormai da escludere. La discesa era più facile.

Ma in cima alla salita c'era Teresa. Almeno per lei avrei potuto fare quello sforzo invece di continuare a correre verso il basso. Giù, giù, sempre più giù dove vedevo solo in bianco e nero.

Finalmente stanco, chiusi gli occhi e mi lasciai cadere su un fianco. Avevo raggiungo il punto che agognavo con tanta insistenza: l'incoscienza.

Sapevo benissimo quali fossero i sintomi legati all'LSD, sapevo che il mio corpo, in quel momento, li stesse manifestando tutti. Di sicuro sudavo e tremavo, non dovevo avere un bell'aspetto. Di certo il mio viso non doveva più essere riconoscibile. Non m'importava.

Ero incosciente, finalmente.

E nella mia incoscienza, lo spiraglio di luce che arrivava per salvarmi venne anche quella volta.

«Lando, alzati», mi disse la luce.

«No.»

«Sì, invece. Ti porto a letto. Forza.»

Decisi che se avesse voluto salvarmi avrebbe dovuto farlo da sola, perché io non mi sarei mosso da lì. Quello che successe poi, come al solito, non lo percepii e non lo ricordai, ma mi concentrai solo sulla voce di quella luce che continuava a chiamare il mio nome.

«Ne uscirai, Lando. Me l'hai promesso e so che tu mantieni sempre le promesse.»

L'avevo promesso, sì.

«Senza di te non ce la farò mai.»

«Ma io sono qui. Non me ne vado da nessuna parte.»

«Promettimelo. Promettimi che resterai al mio fianco e che non mi abbandonerai come hanno fatto tutti gli altri.»

«Te lo prometto. Io resto qui con te.»

Fu l'ultima cosa che sentii prima di crollare.

Fu l'unica volta in cui pensai positivo e mi convinsi che sì, ne sarei uscito.

Fu, però, anche l'unica volta in cui Teresa non mantenne la sua promessa.

Sei la mia torturaWhere stories live. Discover now