Atto uno.

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(Atto uno) – "Un cacciatore di buon cuore".

Che sogni di tormento mi rubavano il sonno.

Mi si spalancavano gli occhi, una luce forte in mezzo al buio mi offuscava la vista, poi mi prudevano le mani e sbuffavo. Che frustrante. Perché non m'aveva visto? Forse, perché ero soltanto troppo incuriosita? Insomma, chi ero io per avvicinarmi a lui? Come potevo solo fidarmi di qualcuno dall'aspetto – già alla vista – selvaggio e poco raccomandabile? Io ero sola.

Avrebbe potuto farmi del male, e come difendermi, poi. Ma bando alle ciance, qui non si parla di me, ma di ciò che mi è successo.

Quella notte dormii poco e niente, mi ero dedicata al pensiero suo, quella figura rannicchiata che, devo ammetterlo, m'aveva intenerito. Il cuore mi si era sciolto, mi era arrivato ai piedi, ma le ginocchia mi tremavano lo stesso – andiamo, era comunque uno sconosciuto, in mezzo al nulla, tutto sporco. E con i miei non ne avevo fatto parola.

Se mio padre fosse venuto a sapere che c'aveva un ragazzo di cui nemmeno sapeva il nome in mezzo ai frutteti, non avrebbe esitato nemmeno mezzo istante ad armarsi fino alla punta degli stivali per togliere il disturbo, tempo un pomeriggio.

Ma ero decisa a tornarci, in quel posto. Accidenti, sentivo la necessità impellente di farlo! Dovevo. Mi alzai di scatto, tempo di guardare che ora fosse, di infilarmi gli stivali ed ero fuori casa, a correre mentre addentavo un pezzo torta di mele. Arrivai al boschetto in meno di cinque minuti, lo superai in tre e, a passo felpato, mi avvicinavo alla rientranza col cuore in gola.

Mi feci spazio tra foglie secche, rami e muschio, non vedevo a un palmo dai miei occhi, era tutto buio. Era troppo presto per usufruire della luce tiepida dell'alba, dovevo accontentarmi di ciò che avevo – ovvero il buio, fondamentalmente qualcosa di inutile.

Mentre mi avvicinavo scorsi la stessa figura del giorno prima, e m'accucciai, giusto per vedere alla sua altezza. Era disteso, sempre rannicchiato, con le gambe chiuse al petto, i capelli sparsi sul terreno e le piante dei piedi sporche e nere.

Inizialmente fui poco propensa ad avvicinarmi, ma la curiosità che voleva spingermi a conoscere questo strano individuo era maggiore della paura che esso stesso mi incuteva. Quindi, preso un bel sospiro, armatami di coraggio e una buona dose di forza, a carponi – perché era l'unico modo – raggiunsi il suo piccolo nascondiglio.

Non fui così astuta, allora al secondo passo schiacciai con le ginocchia un ramoscello secco che fece un rumore abbastanza lieve, ma l'individuo l'aveva sentito.

L'aveva sentito. S'era mosso, scattante, già stava seduto con le spalle rivolte verso di me e la testa girata, il respiro abbastanza pesante, poiché le spalle facevano su e giù in un movimento abbastanza irregolare. Io m'immobilizzai. Non volevo muovermi, non perché i miei arti fossero bloccati – o forse, solo in parte – ma perché io non volevo, nella maniera più assoluta, fare altri danni che avrebbero finito col mettermi seriamente in brutte arie.

Inutile, perché quello già s'era alzato.

Le spalle ricurve, alto, davvero tanto alto, le braccia lungo i fianchi e gli occhi assottigliati come una linea di matita su una lavagna. Teneva addosso solo un paio di braghe, non aveva scarpe, tantomeno calzini, e una camicia rovinata gli stava moscia sugli omeri. Mi chiedevo da quanto tempo fosse lì, o da quanto tempo non vedesse dell'acqua per lavarsi.

Le braccia erano sì robuste, e pure le gambe, ma era ridotto a solo muscoli, non vedevo – per quanto potevo – nemmeno il più piccolo ed insignificante filo di grasso. E nella borsa tenevo ancora la mia torta di mele.

Un'idea mi piombò come un sasso sulla testa. Avrei potuto attirarlo offrendogli quella torta, avvicinarlo e riuscire a strappargli dalla bocca anche la più stupida frase, o sillaba.

Ma avevo ancora paura, e in quel momento sì, gli arti s'erano bloccati del tutto. Cautamente e con crescente tremarella tentai di mettermi con le ginocchia sul terreno, per addrizzare la schiena e guardarlo meglio in viso. Mi dissi che non poteva essere così cattivo, non lo conoscevo, non avevo la più pallida idea di quali fossero i suoi modi. Poteva essere pure gentile, che ne sapevo.

Ad ogni modo, infilai una mano nella sacca per tirare fuori in fagotto di fazzoletti dove tenevo nascosta la torta. Me la misi tra le mani, la aprii e subito notai il suo sguardo fisso sul cibo che tenevo tra le dita, e con un gesto abbastanza semplice lo porsi in avanti, facendogli cenno di prenderlo.

Ma non lo fece.

Se ne stava fermo, con le mani in grembo e nel frattempo si era seduto. Era ad almeno otto/nove metri da me, in pratica facevo fatica pure a capire dove fosse il suo viso.

Mi feci forza, ancora, e provai a parlargli. "Ne vuoi un po'?", ma non mi rispose.

Passarono minuti, infiniti minuti, e tutto ciò che era cambiato era il sole fuori dalla rientranza. Era l'alba, poco più accennata rispetto a quando ero arrivata in quel posto. E lui non s'era ancora deciso a dire mezza sillaba, a prendere la mia torta o solo ad avvicinarsi!, cominciavo a temere che fosse straniero.

In che mi ero cacciata.

Se lui non veniva da me, andavo io da lui. Mi pulii le ginocchia e feci qualche passo in avanti, giusto per arrivare a qualche centimetro da lui – non mi faceva più così tanta paura.

"E' torta di mele, è davvero-"

Mi ritrovai con la testa a terra, la sua mano grande sulla bocca e i suoi occhi a un soffio dai miei. E mi teneva fissa sul terreno, un piglio pronunciato sul naso.

Allora, mi era tornata un po' di paura.

Non potevo nemmeno parlare, mi aveva letteralmente schiacciato con la sua forza e mi stava impedendo di schiudere le labbra, perché queste erano bloccate tra le sue dita. E mi fissava, tutto attento.

Allora mi permisi di provocarlo – o quasi – tentando di opporre resistenza per alzarmi. Ma non mi mossi nemmeno di un centimetro. Lui se ne stava lì, a fissarmi, quasi non volesse nemmeno farmi muovere o respirare.

Solo dopo che mi fu scesa una lacrima sulla guancia per bagnare la sua mano, si ritrasse, più spaventato di me, mugugnando e fissandosi il dito su cui ancora campeggiava l'orma della mia lacrima. Ne approfittai per lasciare abbastanza vicino a lui la torta e scappare via, sentendo i suoi singhiozzi rimbalzarmi in testa.

La borsa continuava a rimbalzarmi sulla gamba, io correvo e tentavo di allontanarmi da quel posto.

Ma, non illudetevi, lo avrei rivisto.

Quando un cacciatore di buon cuore spara per sbaglio ad una rondine sull'ala, non la lascia a morire tra la vegetazione secca. La prende, l'accudisce e le fascia – se è pure preciso – l'ala. E dopo essersela tenuta per settimane in casa, l'aiuta a volare di nuovo. E quando la rondine impara a volare da sola, il cacciatore dal buon cuore piange. E ricorda quella rondine ogni volta che andrà a caccia.

Perché anche il più infimo dettaglio può influenzare in modo permanente la nostra esistenza. Futile o no, lo fa.

E anche se la mia rondine non lo aveva chiesto l'aiuto ma, anzi, aveva provato a cacciarmi via con le mani e la forza cruenta, i suoi occhi mi stavano supplicando di curare la sua ala.

Ed ero anch'io un cacciatore di buon cuore. 

A\N: tanta ispirazione, nell'aria - ringraziando la primavera.

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