Atto ventuno / seconda parte.

914 102 21
                                    

Atto ventuno - Perché anche un solo sospiro di distanza tra di noi era esasperante.


Per non rischiare di rendere quell'aria di tensione più pesante che mai decisi, con grande disappunto devo ammettere, di concederle il silenzio ancora per qualche tempo.

Secondo buon senso, è la cosa più giusta da fare in situazioni simili – e conoscendo Bo, credetemi, era la cosa più sensata che avessi mai potuto decidere. Ma, insomma... Per quanto razionale, ai miei occhi, coscienza e cuore (specialmente quello) non pareva nient'altro che una sconfitta da parte del malinteso.

Ché alla fine quello fu l'artefice di quella giornata penosa: il puro ed inspiegabile fraintendimento. L'equivoco magistrale che per molte volte riuscì a rendermi muto dinanzi alla semplice e fastidiosa voglia di ragione di cui un uomo può essere capace.

Ma è risaputo, d'altronde, che in amore e tra amanti, quali io e Bo eravamo, la razionalità non esiste. Il buon senso è il peggior nemico del sentimento, e mai capitò, nemmeno una volta, che questi due si combinassero, perché, vi ripeto, è semplicemente impossibile che tale situazione possa verificarsi.

Dunque, secondo tale logica, il silenzio che le fu concesso durò qualcosa che andava dai tre ai cinque minuti; poco dopo, in preda al panico e con mille discorsi pronti sulla lingua, la richiamai.

"Bo" – e non ricevetti risposta. Pensare che stesse dormendo era pur plausibile, ma non volevo arrendermi a quella che poteva essere la scusa al suo mancato chiarimento.

"Bo, sei sveglia?" – provai ancora, restando girato sul fianco nel caso in cui lei volesse guardarmi.

"Che vuoi" – borbottò d'un tratto, e la sua voce non aveva il minimo sentore di sonnolenza. Stava soltanto cercando di ignorarmi.

"Hai detto che dovevamo parlare" – mormorai, girandomi supino col braccio destro appoggiato sull'addome e quello sinistro sopra la testa.

"Sono stanca Harry, parliamo domani" – mi liquidò presto, aggiustando il cuscino sotto alla sua guancia e circondandolo con le braccia.

Sospirai, guardandomi in giro prima di alzarmi e scendere al piano inferiore. Mi accomodai su una delle sedie vicine al bancone, sorseggiando pensieroso un bicchiere d'acqua mentre fuori dalla finestra schiamazzi qualsiasi di ragazzini facevano eco per le strade piuttosto strette.

Non ricordo precisamente quanto, ma restai per parecchio seduto su una delle sedie in vimini sistemate sul ballatoio decorato da piante rampicanti e altre in lunghi arbusti in vasi di terracotta o metallo. Le luci giallastre erano disposte ordinatamente sul tutto il perimetro della strada sottostante al terrazzo, non c'erano auto parcheggiate e le finestre delle diverse case adiacenti erano spalancate – probabilmente per il caldo.

Dei passi frettolosi si mangiarono le scale, e le stesse gambe – scoperte e fin sotto il sedere – con altrettanti passi furiosi mi raggiunsero, la bocca si piegò in un sospiro e gli occhi verdi ed enormi mi scrutarono con enorme contentezza e appagamento, direi.

La fissai per qualche secondo. "E' successo qualcosa?" – le domandai, aggrottando la fronte.

Lei scosse la testa, appoggiando una mano sul suo petto. "No, no" – rispose dopo qualche momento. "Non ti sentivo tornare, così sono venuta a dare un'occhiata" – fece in un mormorìo, guardando il pavimento piastrellato.

"Avevo intenzione di bere un po' d'acqua ma poi mi sono trattenuto un po' qui. C'è un venticello piacevole"

Annuì. "Capisco"

LatĕbraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora