Capitolo 1

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Trina

Trina guardava fuori dalla finestra. Il suo naso, la sua bocca, si avvicinarono al vetro con lentezza, fin quasi a sfiorarlo. Le dita, tremanti, lambivano i contorni luminosi dei lampioni che trapuntavano la strada come tante piccole candele su una torta di compleanno, pronte a spegnersi sotto il maldestro soffio di un bambino. Aspettava il momento in cui si fossero spente, una dopo l'altra, così come accadeva ogni giorno da tempo immemore, così come sarebbe accaduto il giorno seguente e quelli a vanire. E ancora e ancora. I suoi occhi nocciola erano incollati come spilli su un lampione, il primo di una breve sequenza di spegnimento. Poi, all'improvviso, un rumore stridulo riempì il silenzio. Era la sirena che segnava l'inizio del coprifuoco. Le luci cominciarono a spegnersi, riempiendo la città di numerosi "toc", un rumore molto simile a quello di quando si batte un pentolone con un bastone. Ben presto la strada venne inghiottita nell'oscurità più totale, tanto che Trina non fu in grado di vedere più nulla. Poteva sentire il vetro sotto i polpastrelli come ghiaccio: le temperature, lì fuori, erano scese tutto ad un tratto. Rimase in silenzio a lungo, mentre il rumore del proprio respiro diventava più forte. Quel buio le faceva una paura matta ma, allo stesso tempo, non poteva fare a meno di porsi delle domande. Cosa c'era lì fuori? Cosa c'era in mezzo al buio? Sopraffatta dai pensieri, non si rese conto della porta che si stava aprendo. Non sentì il rumore dei cardini che cigolavano girando su loro stessi. Fu colta alla sprovvista e sobbalzò, come una molla carica. Si girò di scatto e si lasciò sfuggire dalle labbra un urletto stridulo, carico di paura e di sorpresa.

«Sono io»

Era la voce di una donna. In mano sorreggeva una lanterna di Lux, che diffondeva nella stanza un tenue alone bluastro. Il suo viso, illuminato dal basso, creava un curioso gioco di ombre che le regalavano delle fattezze mostruose.

«Sei ancora sveglia?»

Trina non rispose. Sulla pelle percepiva ancora una strana sensazione, i peli che le si rizzavano sulle braccia e il gelo sulla punta delle dita. Non si mosse dal davanzale dove era seduta. Fece cadere le mani in grembo e rimase con le spalle curve ad osservare la madre e il suo aspetto deformato dalla lanterna.

«Sono rimasta in piedi per le luci»

Le labbra di Giana si incurvarono in un tenue sorriso, che diede al suo inquietante aspetto un tocco grottesco.

«Dovresti essere già a letto, lo sai?»

La figlia rispose con un'alzata di spalle. Se lo sentiva dire tante volte. Ormai aveva smesso di fare caso a quel tipo di domande.

«Va' a dormire.»

Giana afferrò la maniglia della porta. Stava per chiuderla, ma Trina la fermò.

«Aspetta...»

«Cosa c'è?»

La ragazza scese dal davanzale con un leggero balzo. I suoi piedi toccavano scalzi il pavimento. Si avvicinò di qualche passo al proprio letto, semplice e spoglio. Non c'erano pediera o testiera ma soltanto una rete con un materasso e delle lenzuola monocolore. Tutti i letti di quella casa erano così e tutte le case della Città erano uguali alla sua.

«Lo sai...»

Giana sospirò. Il suo sorriso si spense e lasciò spazio a un'espressione stanca.

«Ancora?»

«Ho paura.»

«Di cosa?»1

Ci fu un momento del silenzio. Il volto di Trina prese una piega diversa. Abbassò lo sguardo. Percepiva una sensazione che le faceva male al cuore, tanto da costringerla ad abbracciarsi, alla ricerca di conforto. Provava vergogna perché sapeva benissimo che la sua era una paura ridicola, priva di senso. I suoi capelli scuri le scivolarono da dietro le orecchie sulle guance, come per nascondere il rossore che, in condizioni di scarsa luminosità come quella, la madre non avrebbe comunque potuto notare.

Lux PopuliWhere stories live. Discover now