1. Corrosione

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Chanyeol


1.   Il morbo si propaga tramite il morso

È solo concentrandomi che riesco a ricordare com'erano le cose prima che tutto questo accadesse, prima che il tempo sbiadisse i ricordi, ora vaghi e indistinti. In pochi attimi, il mondo che avevamo amato come familiare era svanito davanti ai nostri occhi, e non ci era rimasto nulla di conosciuto. I ricordi rinvengono sempre in un certo ordine, ormai, come se ci fosse in essi un ordine causale. Come prima cosa ricordo sempre l'odore di sapone al pino, rosa e citronella che usavamo tutti in casa per lavarci; poi la mia agenda blu, le mensole piene di libri, le unghie mangiucchiate dallo stress e tutti i miei vestiti buttati a terra in un ammasso informe perché la mattina ero sempre in ritardo e non riuscivo mai a scegliere come vestirmi; la luce avvolgente delle lampade, la biancheria stesa ad asciugare... la voce della mamma.

All'epoca vivevo in una bella casetta a schiera, piena di soprammobili a forma di gatto perché la zia continuava a regalarcene e mia madre non aveva il coraggio di dirle di smetterla. La mia camera era il sottotetto—spazioso, luminoso e caldo—e controvoglia passavo lì interi pomeriggi di studio, e nelle sere d'estate disteso sul letto guardavo le stelle sfavillare deboli dal lucernario.

La vita scorreva pressoché monotona, tra discussioni più o meno serie con i genitori, fughe silenziose da casa la sera e partite talvolta vittoriose con la squadra di basket della scuola. Tornavo a casa la sera e mi buttavo sul letto, senza che niente di più serio del compito di chimica dell'indomani mi preoccupasse. Spegnevo la luce. Dormivo.

Trovavo nella mia routine sia un appiglio sia un peso, e così sia tentavo di fuggirla sia la inseguivo qualora le novità che tanto avevo cercato mi avevano portato solo guai.


***


Anche quella mattina presi il bentō dalle mani di mia madre e me lo infilai distrattamente nello zaino, lamentandomi, puntiglioso come sempre, del fatto che metteva troppo riso e troppo poco dei contorni. Lei come sempre mi rispose che era perché dovevo crescere. «Sono già il più alto della classe,» dissi a metà tra la lamentela e il vanto. «Quindi puoi mettere meno riso.»

Lei alzò gli occhi al cielo. «Ti conviene andare o arriverai in ritardo,» mi rammentò, ignorando come sempre i miei lamenti.

«Non ne posso più della scuola,» dissi infilandomi in fretta le scarpe. Ero dieci minuti più in ritardo del solito—anche correndo fino alla scuola, sarei comunque arrivato in ritardo. Persi ancora qualche minuto per cercare un ombrello che funzionasse, poi uscii di casa e inspirai l'aria giusto un po' freddina di ottobre. Quell'anno era stato particolarmente caldo, dicevano alla televisione, a causa dell'uso sempre peggiore che l'umanità stava facendo del pianeta. Io lo sapevo bene. A scuola facevamo in continuazione temi sul surriscaldamento climatico, ma nonostante tutto in classe non avevamo ancora i bidoni per fare la raccolta differenziata, e tutto finiva nello stesso cassonetto.

Il nostro giardino era verde come sempre—mia madre teneva molto alle piante, e aveva tutti i suoi trucchi da biologa per tenerle in vita splendidamente turgide—ma stava iniziando a cadere qualche foglia.

Dovevo andare, non avevo tempo da perdere. Il giorno prima era piovuto. Le strade erano ancora piene di pozzanghere, che riflettevano il colore chiaro del cielo. Le foglie già cadute erano scivolose sotto le mie suole mentre le calpestavo nella mia camminata verso la scuola. Facevo lunghi passi e usavo l'ombrello chiuso come bastone per accompagnarmi ad ogni metro.

La mia aula era al secondo piano. Ignorai gli avvisi appesi sulla porta della classe, e—sospirando sollevato perché il professore non era ancora arrivato—salutai il mio amico Kim Jongin. Ci conoscevamo da sempre, e da sempre eravamo compagni di banco. «Ciao. Com'è?» chiesi in automatico sedendomi accanto a lui.

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