CONTEST #3ENTRY: Silania - Alla scoperta di nuovi mondi.

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Terza entry per il contest #writemycharacter.

Autore: @Cuore-di-Scrittrice

Titolo: Silania-Alla scoperta di nuovi mondi.

Il Sole stava ormai tramontando sul decimo compleanno di Beau mentre sguardo si perdeva fra le onde tinte di rosa. Le sue sorelle erano accanto a lui, in attesa. Stisha era seduta sul molo e i piccoli pesciolini rossi tipici di quelle acque le solleticavano i piedi. I capelli, biondi come la coda, le incorniciavano il viso abbronzato. Velitia, invece, era in piedi. Il vestito rosso dondolava nella brezza leggera e la treccia bionda le pendeva sulla spalla destra.

D'un tratto drizzò le lunghe orecchie e piegò gli angoli della bocca in un leggero sorriso. Alzando una mano in segno di saluto accolse l'arrivo di Makrid. Il ragazzo aveva gli stessi tatuaggi rossi della fidanzata, in segno del loro legame. Infatti agli innamorati silaniani comparivano delle sottili strisce colorate sulla pelle che si inspessivano dopo il matrimonio.
Il ragazzo scese dalla barca ondeggiante, abbracciando Velitia. Rivolse un rapido cenno agli altri due, poi entrambi si addentrarono a Silania. Era l'unica città sulla Terra a essere abitata sia da umani che da metavolpi.

Beau, intanto, ammirava il monumento illuminato dagli ultimi raggi di Sole. Rappresentava l'astronave che era caduta in quel punto ventun'anni prima. Mentre guardava i riflessi danzare fra le onde sentì una voce alle sue spalle.
-Ci racconti una storia?
Girandosi vide vari bambini, alcuni con le code volpine, altri umani. Annuendo il ragazzo si sedette, subito imitato da loro. Stisha rimase al suo posto, anche lei adorava quella storia.
Sotto lo sguardo attento dei suoi giovani ascoltatori Beau iniziò:
-Molto tempo fa, quando avevo cinque anni, un'epidemia si diffuse fra il popolo di Silania. In molti morirono, ma i sopravvissuti organizzarono una spedizione per cercare altri pianeti abitabili. Un anno dopo l'astronave partì.
Ricordo che salutai mio nonno con le lacrime agli occhi. Avevo paura che non lo avrei più rivisto. In quel periodo anche mia madre si ammalò e ben presto morì. Vissi per due anni insieme a mio padre, sperando ogni giorno che mio nonno ritornasse. Tuttavia le nostre speranze furono deluse e non ricevemmo più sue notizie.

Avevo ormai compiuto otto anni quando fu rivelata l'esistenza di una seconda spedizione che aveva lo scopo di salvare la nostra specie. Furono scelti i silaniani più sani e più forti. Mio padre fu scartato e, nonostante le medicine sperimentali, morì prima che partissimo.
Sull'astronave salirono decine di uomini, donne e bambini. Tutti avevamo perso qualcuno a cui tenevamo molto e, quando arrivò il momento di lasciare per sempre il nostro pianeta, salutammo Silania con un peso nel petto, consapevoli che anche coloro che erano rimasti sarebbero morti. Alcuni avevano un genitore, un fratello o un figlio a dargli speranza mentre altri, come me, dovettero adattarsi al nuovo ambiente come meglio potevano.
Fortunatamente fin dal primo giorno di viaggio legai con Jonathan, un ragazzo della mia età. Anche lui era rimasto orfano e decidemmo che saremmo stati una famiglia, solo noi due.
Secondo gli scienziati sei mesi erano più che sufficienti per raggiungere la Terra, il pianeta esplorato da mio nonno. Eravamo preoccupati e spaventati da quel luogo così misterioso, ma quella era la nostra unica speranza di sopravvivere.
Il viaggio procedette senza intoppi per settimane, fino a che alcuni di noi morirono. A causa delle scarse razioni di cibo molti bambini diventarono sempre più magri, fino a vagare per l'astronave come fantasmi. Anche fra le donne e fra gli uomini la malnutrizione lasciò il segno. Al vuoto nel nostro cuore si aggiunse quello nello stomaco, peggiorando l'umore di tutti.
Dopo le prime morti gli adulti diminuirono ulteriormente le proprie razioni, dandone una parte ai più piccoli. Eravamo partiti in duecento e, cinque mesi dopo, eravamo solamente in centocinquanta.
Non dimenticherò mai il macabro spettacolo dei corpi che venivano ammassati nelle capsule e poi abbandonati nello Spazio.
Avendo previsto delle perdite erano stati creati quattro cilindri metallici in grado di contenere due cadaveri. Tuttavia, vista la situazione, essi venivano riempiti il più possibile. L'odore di putrefazione aleggiava nell'astronave e, per quanto fosse disgustoso, ci aiutava a non pensare al cibo.

Durante il settimo mese di viaggio iniziammo a preoccuparci: la Terra era ancora lontana e il cibo iniziava a scarseggiare. Gli adulti rinunciarono del tutto alle loro razioni ma non permisero ai piloti di farlo. Dicevano che se non fosse rimasto nessuno in grado di guidare il loro sforzo sarebbe stato inutile.
Assistetti con orrore alla morte degli altri passeggeri. Le capsule, ormai, erano disperse nello Spazio e gli ultimi corpi dovettero essere abbandonati fuori dall'astronave. Passarono altri mesi e anche io, ormai, sentivo le forze abbandonarmi. Ogni volta che andavo a dormire speravo che non fosse l'ultima. Persino i battibecchi che, inizialmente, scoppiavano spesso, erano cessati.
Eravamo rimasti in sei.
L'ultima speranza della nostra specie erano un uomo, una donna, e quattro bambini. Per fortuna con me c'era Jonathan, altrimenti non sarei riuscito a sopravvivere così a lungo. La tentazione di abbandonarmi al sonno eterno era forte, ma non potevo lasciare il mio amico.

Compii nove anni senza nemmeno accorgermene. Fui svegliato dal pilota che, con la voce stanca ma carica di speranza, annunciò che la Terra era vicina. Eravamo alla fine dell'undicesimo mese di viaggio e, ben presto, saremmo arrivati.
Purtroppo non tutti sopravvissero a quell'ultimo periodo. Richard, il piú grande fra di noi, morì per permettere a sua sorella di sopravvivere. La piccola aveva sei anni, all'epoca. Si chiamava Joanna e fu una dei quattro ad arrivare a destinazione.
Ricordo perfettamente quando, dopo tante speranze e paure, arrivammo sulla Terra.
Attraversammo l'atmosfera a tutta velocità, tentando invano di rallentare. Sotto di noi c'era una distesa verde che ci permise di atterrare senza ulteriori danni.
L'astronave era ormai distrutta: durante la caduta uno dei motori aveva preso fuoco e il fumo ci impediva di vedere ciò che c'era fuori. Quando ci fermammo la nuvola acre iniziò a diradarsi. Ci chiamammo a vicenda e solo uno di noi non rispose all'appello.
Jonathan era il più vicino al motore dal quale provenivano alcune lingue di fuoco. Il fumo lo aveva raggiunto in fretta e il mio amico era morto senza che potessimo impedirlo.
Scendendo dall'astronave fui quasi schiacciato dalla gravità terrestre. Gli strani odori dei fiori, dell'erba e del mare mi assalirono da ogni parte e, nonostante il Sole splendesse, fui attraversato da brividi di freddo.
Mi inginocchiai al fianco di Jonathan con la testa che mi girava per le troppe emozioni contrastanti. Ero felice di essere arrivato sulla Terra ma ero sicuro che quella gioia non valesse la morte del mio migliore amico. Ero rimasto solo su quel pianeta sconosciuto. Prima di svenire sentii le voci degli altri sopravvissuti. Non riuscii a distinguere le parole e, pochi secondi dopo, mi ritrovai a galleggiare nella silenziosa oscurità della mia mente.

Aprii gli occhi in una stanza completamente bianca. Alle mie braccia erano collegati strani macchinari con dei tubicini. Non avevo mai visto niente del genere e il mio primo impulso fu quello di strapparmi quegli aghi dal braccio. Il pigolio che proveniva dell'apparecchio alla mia destra diventò un suono continuo che aumentò la mia voglia di scappare. Mi alzai e le mie gambe tremanti mi ressero a malapena. Sentii dei passi frettolosi oltre la porta e cercai di uscire prima che arrivasse qualcuno. Tuttavia ero ancora troppo debole e riuscii ad avanzare di un solo metro prima che la porta si aprisse. Una donna vestita di bianco piombò nella stanza con l'aria preoccupata. Non aveva la coda e le sue orecchie erano stranamente piccole. Cercò di farmi tornare a letto ma mi opposi con tutte le mie forze. Dovevo parlare con gli altri sopravvissuti a tutti i costi.
Passò quasi un'ora durante la quale mi fu accordato il permesso di uscire in corridoio, con la solenne promessa di non provare a scappare. Guardando fuori dalla finestra vidi una città diversa da come l'avevo immaginata. Le case erano colorate e molto alte e, in lontananza, riuscivo a scorgere il mare. Vidi varie persone che passeggiavano per il corridoio. Erano quasi tutti come la donna che avevo visto prima ma fra di loro c'erano anche alcuni come me.
Prima che potessi trovare il coraggio di avvicinarmi a qualcuno i miei compagni di viaggio mi raggiunsero e, finalmente, potei avere le tanto attese spiegazioni. Mi dissero che anche mio nonno era arrivato sulla Terra, vent'anni prima, spiegandomi che un anno a Silania corrispondeva a ben dieci anni sul nuovo pianeta. Coloro che facevano parte della spedizione precedente avevano generato una nuova stirpe di silaniani, integrando la nostra cultura con quella umana. Avevano fondato una nuova città chiamandola Silania in onore del nostro pianeta. La prima astronave era andata distrutta e, quando mi mostrarono quello che avevo scambiato per uno scoglio, rimasi a bocca aperta. Da lontano non si vedeva bene ma, guardando attentamente, riuscivo a distinguere il profilo della navicella.
Quando volli parlare con mio nonno i miei compagni cercarono di impedirmelo, nascondendomi la verità. Ma ben presto furono costretti a rivelarmi che anche lui era morto, tentando invano di comunicare con Silania. In quel momento mi accorsi che, nel profondo, avevo sempre provato una flebile speranza di rivederlo. Mi sentii sprofondare e neanche la notizia che mi avrebbero trovato una nuova famiglia riuscì a rincuorarmi.
I mesi passarono e, con difficoltà, accettai il fatto che la mia famiglia era morta e che avevo dei nuovi genitori e due fantastiche sorelle. Stisha e Velitia fecero di tutto per farmi sentire parte di quella società e mi aiutarono ad integrarmi sul nuovo pianeta. Riuscii a trovare degli amici e il dolore per le recenti perdite diminuì senza mai sparire del tutto.

Ci fu un attimo di silenzio e i bambini sentirono le voci dei loro genitori che li chiamavano per tornare a casa.
-Grazie, Beau.
I giovani si alzarono, allontanandosi dal molo mentre la Luna faceva capolino all'orizzonte. Una piccola silaniana si avvicinò a Beau, in lacrime.
-Ti voglio bene.
-Anche io, Joanna.

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