Omicidio

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La vecchia insegna del locale lampeggiava nell'oscurità illuminando di giallo e rosso il cielo notturno di dicembre. La fissavo mentre mandavo giù ciò che restava dell'ultimo bicchiere di Jim Beam. Pensavo a Marianne e alla nostra storia giunta al capolinea. Non ero mai stato bravo ad accettare gli addii né a convivere con la solitudine.
Il pub si chiamava Cogan's ed era un locale triste e illuminato a malapena da luci basse, soffuse. Mi piaceva perché era uno dei posti meno frequentati di Virginia, la cittadina in cui mi ero trasferito nella speranza di riconquistare Marianne. Per farlo avevo mandato all'aria il lavoro di cronista di nera al Times di New York, il quotidiano più importante della città e uno dei primi degli Stati Uniti.

Fissavo l'oscurità attraverso i vetri appannati mentre l'alcool scivolava giù, incendiando i pensieri e riaccendendo frammenti di una vita che mi sembrava già troppo lontana.

<<Non è più amore, Ethan. Non è più l'amore che sognavamo, questo. Non siamo più noi due. Non siamo chi eravamo cinque anni fa. Ma guardaci, sembriamo due estranei. Ed è così triste. Così privo di senso. Non credevo che ci sarebbe successo. Non in questo modo.>>

Era stata sincera, almeno. Aveva lasciato tutto ciò che era suo nel nostro vecchio appartamento di New York, poi aveva chiamato un taxi.

<<Non deve essere così per forza>> le avevo risposto, aggrappandomi a un'ultima stupida speranza, mentre cercavo inutilmente di rimettere insieme i pezzi di qualcosa che in realtà si era rotto già da tempo.

Lei si era avvicinata alla porta e poi si era voltata verso di me. I suoi occhi scuri erano scivolati nei miei per l'ultima volta.

<<Invece è così che deve essere, Ethan. E deve essere così adesso. Non voglio svegliarmi tra dieci anni e rendermi conto di avere sbagliato tutto. Non voglio lasciare che diventi troppo tardi. Ci sono cose che non si possono aggiustare.>>

Aveva esitato per un istante, poi si era avvicinata a me. Aveva abbassato lo sguardo a terra.

<<Tu, il tuo lavoro e la tua dannata carriera. Hai rovinato tutto. Hai mandato in pezzi qualcosa che... era bellissimo.>>

Ancora una pausa, mentre la maniglia della porta, sotto la sua mano, si abbassava.

<<Eravamo grandi insieme, Ethan. Lo eravamo davvero.>>

Si era voltata, mentre una lacrima le era scivolata lungo il viso.

Aveva aperto la porta ed era uscita dalla mia vita.

<<Marianne>> avevo sussurrato, senza rendermi conto che ormai stavo parlando da solo.

Terminai ciò che restava del Jim Beam, mi alzai lasciando i soldi sul tavolo ed uscii dal locale.

Abitavo in Baker Street, a pochi isolati di distanza, in un piccolo appartamento che avevo preso in affitto. Era appena scoccata la mezzanotte. Mi incamminai ringraziando il whisky perché faceva sembrare il freddo meno insopportabile. Non c'era nessuno per strada, e ne fui sollevato perché non mi sentivo del tutto sobrio.

Poi l'urlo riecheggiò nella notte.

Era un grido di donna, disperato.

Proveniva dall'edifico sull'altro lato della strada, la Hudson's School.

La scuola di danza.

Attraversai la strada senza pensarci, diretto in quella direzione, ed ebbi il tempo di sentire un secondo grido, terrificante. Trascorse un minuto, forse due. Ero quasi arrivato davanti alla porta d'ingresso quando mi scontrai con un uomo, e sentii un rumore metallico, come di qualcosa che era caduto a terra. In quel momento non ci pensai e ripresi a correre verso la scuola.

Raggiunsi la porta d'ingresso. Era socchiusa.

La aprii.

Attraversai il corridoio principale, guardandomi intorno.

Era buio, non c'era nessun tipo di luce all'interno, così utilizzai il cellulare come torcia.

<<C'è nessuno?>> gridai.

Silenzio.

Superai alcune porte chiuse lungo i lati del corridoio e alla fine raggiunsi la sala principale, dove sul fondo riconobbi il palco che doveva essere utilizzato per le prove.

C'era qualcosa che non andava. C'era qualcuno, a terra.
Mi avvicinai di corsa e la vidi. Non avrei mai dimenticato quella scena.
La ragazza era distesa sul palcoscenico, a pancia in su. Era vestita come una ballerina.

Di bianco.

Il suo viso, truccato, sembrava sereno. I suoi occhi fissavano il soffitto, immobili, spalancati.

Sembrava viva, se non fosse che la sua gola era tagliata da una parte all'altra.
Il sangue le scivolava lungo il corpo e poi si allargava in una pozza rossa sotto di lei.

Sconvolto, con le mani che tremavano, facendo fatica a premere i tasti sul telefono, composi il 911.

Parlai con qualcuno e spiegai in breve ciò che era accaduto. Mi dissero che avrebbero subito inviato degli agenti sul posto.

Senza riuscire a muovermi, tornai ad osservare la ballerina morta.

I suoi occhi aperti, ormai immobili per sempre, avevano visto l'assassino.
E l'avevo visto anch'io.

La ballerinaWaar verhalen tot leven komen. Ontdek het nu