III

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Mancano cinque ore e trentasei minuti. La giornata è stata lunga ma piacevole; il cielo di Londra è sempre grigio, però i turisti al museo si divertono e Dani ha iniziato a godersi il suo caffè.

Oggi forse, giusto per fargli un dispetto, potrebbe lasciare solo un penny nella custodia di Shawe, ma quando passa da Tottenham Court Road non c'è più musica nel suo angolino. La gente corre e nessuna chitarra suona.

Quando arriva finalmente in ostello, al bancone del pub non c'è neanche Smith, ma uno dei suoi ragazzi che ripulisce i bicchieri con logorante calma. Perché sono spariti tutti?

Shawe non è scomparso, è solo nascosto dietro il tavolo da biliardo. È piegato sul tappeto verde, concentrato su una delle biglie – la gialla –, con la stecca tra le dita e il solito ciuffo rosso che gli cade sull'occhio destro. Gioca da solo. Lascia andare la stecca, la biglia bianca rimbalza da un angolo all'altro, colpisce la gialla ma non finisce a punto.

Adesso alzerà lo sguardo e la saluterà. Adesso. Tre. Due. Alza lo sguardo e poi ritorna al suo gioco. Non l'ha vista.

"Pronto a dare forfait?" gli invade lo spazio. Ora deve vederla per forza. "Stasera non hai nessuno da presentarmi?"

"Hai vinto," chiarisce lui. Ancora concentrato sul tavolo verde, quella pallina gialla non vuole proprio collaborare.

"Manca ancora qualche ora." Non la guarda. Non le parla. Cosa è successo al ragazzino ottimista e imbranato? "Cosa è successo?" Un altro colpo di stecca, deciso, il numero uno finalmente finisce in buca. "Parlami, Shawe." Per favore. Vorrebbe dirlo, ma non lo usa quasi mai. Sarebbe strano sulla sua bocca.

"Perché?" Alza finalmente lo sguardo verso di lei: i suoi occhi chiari sono appena arrossati. È davvero successo qualcosa. "Perché dovrei parlare con te? Tu," marca il pronome con lo sguardo fisso su di lei, "tu non parli mai. Non so niente di te e invece tu... non so neanche qual è il tuo cognome."

"Earle. Danielle Earle."

Shawe lascia andare la stecca e stringe le braccia intorno al petto. Voleva sapere il suo cognome, no?

"Il mio cognome è Earle." Ma Dani sa che non sono queste le regole del gioco, Shawe – il suo nuovo amico con il cuore fiducioso – sta soffrendo e lei non ha nulla da offrirgli perché per colmare un cuore così fiducioso non bastano mai sorrisi di cortesia e parole gentili da dimenticare in fretta, c'è bisogno di qualcosa di più, qualcosa di sé, e Dani che cos'ha da dare? Solo frammenti scheggiati sotto lo scalpello di quello scultore maldestro. "O perlomeno questo è quello che mi ha sempre detto mio fratello. Non ne sono sicura, perché non ho mai conosciuto mio padre. Mi chiamo Dani, da bambina volevo dipingere, e mi piace il profumo delle arance, perché un albero di arance è l'unica cosa che riesco ad associare al ricordo di mia madre e..."

Shawe scuote la testa, la sua fronte corrucciata lascia intravedere la sua frustrazione. "Mio padre è andato via. Stamattina ero qui a cercare quelle due persone che finalmente mi avrebbero fatto vincere la scommessa e forse darmi il coraggio di dirti ch-, e poi mi squilla il telefono: mia sorella in lacrime mi dice che mio padre è andato via e che non tornerà. I miei si lasciano, Dani. Dopo ventisette anni di matrimonio i miei genitori divorziano. Hanno perso anche loro. Quindi, hai vinto tu. Le rose, anche se sbocciano, poi muoiono." Glielo spiega così, con le braccia conserte, gli occhi arrossati e nessuno dei suoi dentini bianchi bianchi e un poco storti. Ha il cuore spezzato.

Ma Dani lo sa. Lo ha sempre saputo, no? Funziona così.

Siamo solo tanti frammenti scheggiati.

"Mi dispiace," bisbiglia e le dispiace, le dispiace davvero. Vorrebbe poterlo abbracciare e assorbire per sé tutta la sua sofferenza. Gli prende una mano, costringendolo a sciogliere la stretta contro il suo petto. "Vieni con me."

Hanno già parlato troppo nel caos del pub, con i ragazzi dell'ostello che potrebbero ascoltare e la tv con la musica a palla. Lo trascina giù, nella lavanderia, un buco sotterraneo fatto di scaffali, lavatrici, asciugatrici e cartelli scritti a mano di Smith. Non c'è nessuno.

Si lasciano scivolare a terra, spalla contro spalla. Magari gli spigoli e le schegge così riescono a incastrarsi.

"Avevi ragione tu. E i Troggs si sbagliavano."

"Mi dispiace." È un disco rotto. I sognatori sono ali di cera in questo mondo, si sciolgono all'approssimarsi del sole. Dani aveva rinunciato a credere all'amore, alle favole, alla musica, da troppo tempo per poterlo ricordare. Shawe, invece, poteva, doveva, crederci; era bello il suo sorriso quando ci credeva. "Volevo – speravo – vincessi tu," confessa.

Shawe sospira pesantemente, poi piega piano il capo verso di lei, con anulare e medio le accarezza il dorso della mano, prima di stringerla, a intrecciare le dita. "Così," bisbiglia, "un albero d'arance, eh?"

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