Ouverture (I)

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Beatrice Bianchi era in ritardo al matrimonio della sua migliore amica. Ben oltre la mezz'ora di tolleranza che sua madre riteneva accettabile. Come aveva fatto a perdere così tanto tempo? Era colpa della sua inettitudine con lo scovolino del mascara. E anche un po' della pioggia.

Pioveva a dirotto, l'acqua inondava le viuzze del centro storico: sgorgava a fiotti dalle grondaie e dai tombini, scorreva veloce tra i sanpietrini, nelle cunette sui cigli delle strade, sotto le scarpe, dentro le scarpe. E giù a correre per tutti i vicoli, evitando di sbagliare traversa o di fare un salto di dieci metri da quel tacco dodici a cui mai si sarebbe abituata del tutto.

Quando entrò in chiesa, umida e trafelata, tutti gli invitati erano già accomodati tra i banchi ad attendere l'inizio della funzione. Persino la sposa era già arrivata, se il ronzio agitato attorno alla sacrestia valeva da indizio: forse, in quel momento, Carlotta stava eseguendo una delle sue tecniche di respirazione rilassante, cercando di ignorare futuri suoceri e genitori agitati.

Gli occhi di Bea scovarono Nina, sorella dal sorriso fin troppo buono, su una panca al lato dell'altare. Le aveva conservato il posto e Bea non se lo meritava.

«Saresti dovuta venire con noi» le sussurrò in un orecchio.

«E permettere che mamma impazzisse per essere arrivata in ritardo al matrimonio del suo nipotino preferito?» bisbigliò di rimando Beatrice. Rivolse un'occhiata furtiva al cugino che aspettava all'altare con l'aria soddisfatta di chi sa che la vita non potrebbe riservare di meglio. Buon per lui!

«Sei tutta bagnata.» Nina, passandole un dito nel ciuffo che le cadeva sulla fronte, constatò il fallimento dei suoi precedenti tentativi di pettinarlo per l'occasione. «Ti sono crollati tutti i boccoli.»

L'inizio della marcia nuziale le costrinse al silenzio, e obbligò entrambe, volenti o nolenti, all'osservazione dell'ennesimo spettacolo di follia familiare. Bea aveva assistito ad abbastanza feste di nozze per cadere preda di un generale scetticismo riguardo all'argomento. L'idea del matrimonio come promessa di sostegno, conforto e amore era un ideale che la ragazza avrebbe potuto anche condividere, ma l'aria di parata orgogliosa la riduceva sempre ad alzare gli occhi al cielo: e le damigelle, e il pranzo, e i vestiti pomposi, e la giarrettiera, e Lauretta mia, e trecento persone che conosci appena ad augurarti la felicità in cui hanno smesso di credere molto tempo prima.

Sarà poi possibile per Carlotta e Giuseppe essere felici insieme? Si chiese ancora una volta, osservando suo cugino impettito all'altare. Era possibile come la liaison di uno scimpanzé con un gatto persiano. Eppure si erano scelti da soli – si chiama libero arbitrio, Bea. Con buona probabilità Giuseppe avrebbe giurato amore eterno e composto delicate elegie amorose per chiunque si fosse dimostrato leggermente disponibile ad ascoltarle, ma Carlotta? Bea non riusciva a levarsi dalla testa che, per qualche assurdo motivo, la sua amica si stesse accontentando, che sentisse solo il bisogno di sistemarsi, di avere un marito, uno qualsiasi, con cui guardare il varietà alla tivù il sabato sera e condividere la passeggiata in centro la domenica pomeriggio.

Trasalì all'immagine di Giuseppe in pantofole, pantaloni del pigiama troppo corti e canottiera sgualcita, mentre Carlotta, con i bigodini in testa, gli urlava di andare a prendere i bambini. Come una tale visione le fosse comparsa nella corteccia cerebrale proprio mentre la sua amica, sottobraccio al padre, si avviava verso un altare pieno di rose e di buone intenzioni, non sapeva spiegarselo neanche lei. Ma quasi mai a Beatrice Bianchi era concesso controllare il corso dei propri pensieri.

Probabilmente, Bea pensò, aveva sopravvalutato la sua amica o il mondo. Le favole non esistevano. Nina ne era la prova e Carlotta la conferma. Niente principi, né principesse, né castelli, né maghi venerandi a indicarti il cammino; non c'era neppure qualche simpatico drago. E non sarebbero mai vissuti felici e contenti.

La osservava, in quel preciso momento, la gente felice e contenta. Il parroco straparlava, fin troppo coinvolto nel suo infinito sermone; tra i fedeli, o presunti tali, nessuno si preoccupava di ascoltare davvero – neppure gli sposi, intenti in chissà quali altri pensieri. I genitori della sposa se ne stavano seduti e compiaciuti a contemplare qualche meravigliosa immagine di felicità domestica per la loro ragazza; le piccole damigelle d'onore rincorrevano il paggetto, mentre lo zio Giampiero, il padre dello sposo, cercava di richiamarli all'ordine facendo più chiasso di loro e chiedendosi, più e più volte, dove fossero quei disgraziati dei loro genitori.

Qualche panca più indietro c'era anche la bellissima famiglia di Beatrice: sua madre era forse combattuta tra la gioia per quel povero ragazzo che perlomeno non sarebbe morto da solo e l'agonia perché Carlotta aveva acchiappato qualcuno prima delle sue bimbe; suo padre, col sorriso sotto i baffi, era impegnato in qualcuna delle sue ricerche antropologiche sulle abitudini e curiosità del genere umano del tutto incurante di Lucia, la più piccola delle sorelline Bianchi, che tranquilla chiacchierava, tramite sussurri non proprio sussurrati, con uno degli invitati di cui Bea ignorava la provenienza.

Meraviglioso! Tutti perfettamente in ordine, eleganti, col vestito nuovo, i gioielli, le acconciature in testa, la cravatta, il completo stirato e i mocassini all'ultima moda. Ma come, non ti accorgi di quanto il mondo sia meraviglioso? Meravi-...

Benedict.

Fu costretta a interrompere la piacevole canzonetta nella sua testa quando intercettò nel suo campo visivo la figura slanciata di Benedict Arthur Devereux. Cosa cazzo ci faceva Benedict Arthur Devereux appoggiato a una colonna, nella navata laterale della chiesa principale di Torrelunga d'Abasci? E quante altre volte la sua zucca bacata aveva intenzione di ripetere il suo stupido nome altisonante?

Alto e attraente come la prima volta che era comparso tra i torrelunghesi, Benedict appariva fin troppo fuori portata e fuori luogo, merito della postura aristocratica e della sempre presente arroganza che indossava come fossero una divisa. Stava a braccia conserte contro il gilet scuro e la giacca abbottonata, dedicava occhiate annoiate ora all'altare ora al suo paio di scarpe lucide.

Bea sapeva benissimo che tanto lui quanto il suo bell'amico incostante avevano ricevuto la partecipazione, ma non avrebbe mai creduto che si sarebbero presentati. Non ci dovrebbe volere poi molto a inventare una scusa per declinare un invito quando vivi dall'altra parte d'Europa.

La ragazza cercò tra le panche e le colonne il ciuffo castano di Carletto Bernardini. Per fortuna, almeno lui aveva avuto la decenza di non mostrarsi. A Nina piaceva apparire impassibile e forte nel suo aspetto serafico, ma non avrebbe retto un incontro in una tale atmosfera con il suo ex-fidanzato.

«Ninì» Bea ne richiamò l'attenzione. «C'è Ben Devereux..» Segnalò la presenza dell'uomo con uno scatto repentino del capo.

Mentre percorreva con lo sguardo tutta l'assemblea, il bel viso di Nina sembrò oscurarsi, ma l'eclisse durò una frazione di secondo. Una volta accertatasi dell'assenza di Carlo, tornò alla sua imperscrutabilità.

Talvolta Bea avrebbe preferito vedere sua sorella piangere e urlare, piuttosto che sentirla così distante nella sua stoica sopportazione dei mali del mondo. Tutta quella pazienza era innaturale. Lo vedeva ogni giorno di più: i suoi occhioni nocciola, una volta brillanti, si stavano spegnendo. Ed era tutta colpa di Carletto Bernardini e di quello stronzo del suo amico.

Lo stronzo che stava proprio di fronte a loro a controllare in continuazione l'orologio. Presumibilmente non vedeva l'ora di scappare via. Cosa diamine era venuto a fare? A sbuffare, annoiarsi e a giudicare in silenzio la mancanza di contegno di zio Giampiero? A ricordare al resto del mondo quanto piccoli e miserevoli fossero rispetto al grande architetto della City londinese?

Beatrice lo vide alzare infine il capo e passarsi una mano tra i ciuffi scuri, con gli occhi vaganti dagli sposi a ciascun invitato. Fino a Bea stessa. Quegli occhi azzurri e gelidi, per quanto potessero risultare intensi e disturbanti, non l'avrebbero mai più costretta ad abbassare lo sguardo. Fu lui a scuotere la testa e rivolgersi altrove.

Perché poi un uomo tanto altezzoso dovesse essere così fastidiosamente attraente Bea non sapeva spiegarselo. Cercò di concentrarsi più che mai sulla cerimonia, Giuseppe e Carlotta stavano recitando le loro speranze per il futuro – preghiere, si chiamavano preghiere.

Perché il più arrogante, presuntuoso, insolente, viziato, insensibile essere umano sulla faccia della terra non meritava neanche uno dei suoi pensieri. E neppure tutti questi aggettivi.

Il gioco dell'ostricaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora