Ouverture (III)

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Aveva i piedi doloranti. Feste di nozze, balli scatenati e intolleranza ai tacchi alti erano una combinazione perfetta per le fitte ai piedi. Era scappata via dalle danze per rinfrescarsi le idee all'aperto, dopo la piccola débâcle con Benedict e l'ammonizione di sua sorella. Secondo Nina essere sgarbati non era mai corretto. Secondo Bea essere sgarbati, talvolta, era proprio quello che ci voleva, soprattutto per quelli come Benedict Devereux.

Il giardino del Roseto si rivelò un posto abbastanza piacevole a quell'ora della notte. Piccole lampade tonde illuminavano le aiuole di narcisi gialli, gli albicocchi in fiore e le poche panchine. A dispetto dei rumori che sarebbero dovuti provenire dall'interno dell'albergo, in quel piccolo angolo di universo regnava una calma surreale.

Bea tolse le scarpe, quegli strumenti di tortura, e lasciò che l'erba fresca le accarezzasse i piedi nudi. Sentirne il solletico tra le dita la rilassava. Amava le feste, la gente, le chiacchiere e le risate. Non amava, invece, i vestiti stretti e corti, anche se le mettevano in risalto la figura; non amava i ferrettini che le stringevano i capelli, anche se le sistemavano al meglio i boccoli intorno al viso; e non amava le scarpe alte, anche se facevano sembrare le sue gambe vertiginosamente lunghe. Vertiginosamente era un avverbio uscito dalla bocca di Lucia, perché i tacchi slanciano. Se fossi nanerottola come te non mi permetterei mai di snobbarli. E le sorelle minori servivano a ricordare queste cose.

Sorrise tra sé e sé, mentre passeggiava con calma verso il gazebo alla fine del viale. Il suono distinto di qualcuno che si schiariva la gola le fece notare la presenza celata tra gli alberi nella penombra del giardino. Ben. Perché le sembrava una cosa così ovvia, ora che lo aveva visto? L'anima in pena se ne stava in solitudine nell'oscurità. Quasi un Heathcliff di ultima generazione.

Bea si avvicinò. Forse, gli doveva delle scuse. O forse no. Una nuvola di fumo gli incorniciava il viso, tra le dita stringeva un tubetto che aveva tutta l'aria di essere una sigaretta elettronica, una di quelle con gli aromi impensabili.

«Marshmallow, vaniglia e...?»

«Cannella» concluse lui, piegando il capo verso di lei. Si allontanò dall'albero contro cui era poggiato e le andò incontro.

«Hai un pacchetto di Parliament One nella tasca interna della giacca.»

«No shit, Sherlock

«Hai sempre un pacchetto di Parliament One nascosto da qualche parte. E cerchi sempre di non prenderle, ma non ti riesce spesso.» Benedict sospirò e si lasciò andare a un sorriso quasi aperto. «Non sei l'unico che osserva senza farsi notare.»

«Posso offrirtene una?»

Bea arricciò il naso e scosse la testa inorridita. I suoi approcci col fumo? Fallimentari esperienze di gioventù. Meglio non rinvangare. Reminiscente di una conversazione simile, specificò: «Il fumo uccide.»

«Lo so» accordò lui, quasi rattristato dalla cosa. «Continua pure la tua passeggiata» disse, invitandola a proseguire. «A meno che... ti andrebbe di parlare?»

«Parlare, Ben?»

«Adesso sono di nuovo Ben?» ghignò appena, prima di rivolgere lo sguardo ai piedi nudi di Bea. Il sorriso accennato di prima si allargò con una naturalezza che gli aveva visto sul volto ben poche volte. Lei se ne andava in giro con le scarpe in mano, anziché al loro posto corretto, e lui? Sorrideva.

Beatrice odiava osservare quei cambiamenti repentini di umore sul suo volto: quei sorrisi erano rari e sinceri, gli rilassavano i muscoli del viso e gli illuminavano lo sguardo. Diventava più giovane e più umano. Sapeva fin troppo bene in quanti e quali guai avrebbe potuto condurla un numero più elevato di quei sorrisi, guai serissimi.

Il gioco dell'ostricaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora