La Divina Provvidenza

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Di tutte le sfighe che avevo ricevuto nel corso degli anni, quella era decisamente la peggiore.

Non solo Ugo era venuto a farmi visita durante il mio primo giorno di lavoro, ma avevo appena scoperto che il nipote di Rosaberta sarebbe rimasto lì, per i secoli dei secoli, ed ora lo avevo proprio davanti a me, inginocchiato dietro il bancone così da scorgere il mio corpo appallottolato come una carta di Yu-Gi-Oh in posizione di difesa.

Dubitavo avrei potuto richiamare a me il potere del Drago Bianco Occhi Blu, visto e considerato che nessun faraone millenario giaceva nel mio corpo e che i miei capelli non avevano mai assunto una tonalità bicolore.

Non ero sicura che sarei sopravvissuta a tutto ciò.

C'era da dire che Simon L'Essere Lucente sembrava aver capito il mio sconforto nell'averlo lì di fronte a me, perché il modo in cui mi guardava, con quegli occhi verdi che mi ricordavano fin troppo la giungla di Tarzan, era il tipico sguardo di comprensione che si rivolge a un panda che ha appena perso i suoi genitori. O a una donna a cui vorresti caldamente consigliare il numero di un bravo psicologo.

«Ciao.»

In quella semplice parola io scorsi la fine della mia vita e mi ritrovai a pensare ai miei anni di liceo, quando la nostra professoressa di italiano, la signora Guerriglia, ci spiegava il significato intrinseco dentro una delle opere più importanti di Manzoni: i Promessi Sposi.

"La Divina Provvidenza" ci diceva sempre, "è sempre lì, in attesa di aiutare i protagonisti quando meno se lo aspettano e, soprattutto, a impartire loro lezioni di vita, per aiutarli a crescere e maturarli".

Io non ero mai stata credente, ma mi ritrovai a pensare che se quella trappola mortale dal metro e novanta e gli occhi verdi era davvero un prodotto della Divina Provvidenza, allora avrei dovuto iniziare a riflettere sui comportamenti dei miei ultimi anni. 

Era vero, la mia fobia per gli uomini non era certamente qualcosa di naturale - per quanto odiassi ammetterlo, ero più che consapevole che una simile paura aveva compromesso alla grande il mio stile di vita precedente e attuale. Era vero, il mio amore per Alberto Angela collimava in maniera quasi inquietante, nonostante pure lui fosse possessore del magico bastone del peccato sotto la cintura dei pantaloni. Era vero, l'ultima volta che avevo fatto qualcosa che rasentava l'intelligenza era stata a quattordici anni, quando avevo augurato al mio compagno di classe omofobo di non avere mai dei figli e quest'ultimo, tre settimane dopo, era stato operato d'urgenza per una torsione del testicolo sinistro. Era vero, a sei anni avevo per sbaglio trovato il vibratore di Megera nel suo cassetto delle mutande e lo avevo portato con me all'asilo per inseguire i bambini più piccoli che mi prendevano in giro, scagliando contro anatemi più feroci dell'avada kedavra grazie al potere del magico pippolo a batterie. Era vero, avevo giaciuto con un uomo peccandomi del crimine di rinunciare al mio imene - e la Divina Provvidenza sapeva molto bene quanto mi fossi pentita di ciò.

Ma vendicarsi su di me, in quel modo, sbattendomi in faccia un Essere Lucente col solo scopo di farmi crescere, mi sembrava una mossa esagerata persino da parte della Divina Provvidenza.

Ero in crisi mistica.

Avevo di fronte il mio nemico naturale e non avevo portato con me la mia collana di aglio e men che meno il mio Curses Note con cui augurargli di perdere tutti i capelli prima dei trent'anni.

Oltre a tutto ciò, non avevo la più pallida idea di come comportarmi, perché lui era davvero, troppo, troppo vicino.

Riuscivo a sentire persino il suo profumo di... Cos'era? Sembrava zucchero filato? Chi diavolo profumava di zucchero filato, oltre a Dario quando si era lanciato dalla finestra ed era atterrato per qualche assurda e astrale coincidenza sopra un gigantesco camion che trasportava zucchero?

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