17

7.5K 405 74
                                    

Le magnolie bianche splendevano come piccole lacrime fra le foglie verdi del giardino segreto

Oops! This image does not follow our content guidelines. To continue publishing, please remove it or upload a different image.

Le magnolie bianche splendevano come piccole lacrime fra le foglie verdi del giardino segreto. Era sera, pressoché notte, ma non era mia intenzione rientrare.

Rigirai l'orologio fra le mani, continuando a sfogare il nervosismo strusciando il pollice contro il cinturino in cuoio. Non stavo bene, questo era palese: mi ero spinta oltre, avevo commesso il mio danno.
Io avevo baciato Uriah.
Era così, l'avevo fatto.
Certo, non era durato molto né vi era stata chissà quale reazione, ma era vero. Non avevo mai baciato qualcuno volendolo veramente prima di allora.

Non era stato male.
Quel pensiero mi affliggeva, non lasciandomi pace. Credevo non fosse sta male ma, in realtà, forse lo vedevo diversamente perché non era stato qualcosa di forzato.
Con Adam era sempre stato così: mio fratello mi aveva strappato il mio primo bacio e tutto ciò che avevo mai sognato di quello.
Molto tempo prima, quando ancora tutto sembrava andare bene e non ero solo l'orfana di un padre amorevole, mi ero scoperta romantica.

Ero una bambina, ovviamente, e credevo che tutto fosse inscindibile e duraturo. Mio padre aveva scelto mia madre e si erano amati sino alla morte, quindi perché non poteva essere così anche per me? Cosa avevo di meno? Un giorno, avrei visto una persona bellissima e ci saremmo innamorati sin dal primo sguardo.
Sì, sarebbe stato così.

Era il sogno di una bambina.

«Oh, Elias,» piagnucolai, abbandonami sulla schiena dell'animale: «perché l'ho fatto?»
Perché ero rimasta la stessa sognatrice, forse, la stessa stupida svampita di un tempo. Adam non mi aveva insegnato niente, in fondo, e nemmeno i cacciatori di streghe: gli uomini amavano le donne solo finché le loro condizioni lo volevano.
Una parola sbagliata, uno sguardo malvagio ed era tutto finito. L'amore non esisteva.
Persino Uriah l'aveva ammesso, parlando di Emily: il loro era un sentimento sincero e, per l'appunto, era finito in tragedia.
Non esisteva futuro per gli amanti, ma, forse, ne esisteva uno per i promessi sposi.

«Fra sette giorni avrò diciotto anni,» confessai, con una nota di magone: «il contratto di mio padre dice che devo dovuto sposare Uriah una volta raggiunta la maggiore età. Ciò vuol dire che..»
Mancava poco al mio matrimonio. Provavo a non pensarci, ma la verità era sempre lì, ben evidente.
Io e Uriah saremmo diventati marito e moglie ma senza amore. E poi c'era Hamlet.

Non mi ero dimenticata di lui, né di ciò che provavo in sua presenza. Sicurezza, conforto, sostegno: lui era la spalla giusta su cui appoggiare, l'unica che non se ne sarebbe andata.
O, almeno, credevo.

«Credo di provare qualcosa per la persona sbagliata,» ammisi, rivolgendomi agli occhi rossi del cane: «so che non avrei dovuto, ma è così. Solo, temo di non riuscire a distinguere cosa sia.»

Hamlet era la scelta sbagliata. Un galeotto, un prigioniero e un ricercato. Come sarebbe stato il mio futuro, scegliendo lui? Probabilmente in fuga, mai sicuro e di stenti. Era questo ciò che volevo? Sicuramente, no: quello era il futuro che mai avrei sperato per me, soprattutto per una persona che non ero certa di amare.
Hamlet non valeva lo sforzo, non per ciò che provavo.

E poi c'era Uriah.
Lui, che rappresentava il mestiere che meno apprezzavo, mi offriva un futuro comodo e un matrimonio stabile. Non ci amavano - magari rispettavamo? - ma un punto di partenza sembrava essere stato colto. Non amavo neppure Uriah, questo era certo, e lui non amava me, ma ci teneva a quel matrimonio, ed era più di quanto sperassi.
Probabilmente, Uriah era la scelta migliore.
Ci saremmo sposati, avremmo avuto dei figli - magari lui non sarebbe stato fedele, ma ci sarebbe stato.
Era questo il massimo a cui potevo aspirare? Sembrava di sì.

«Devo dirgli addio,» sussurrai, piano. Elias rizzò le orecchie, vedendomi rialzarmi. «Devo dirgli la verità, Elias, devo dirgli che devo sposarmi.»

Il cane sbuffò, e, rapido, si mise fra me e l'uscita, ringhiando. Corrugai la fronte, colpita, e feci un passo indietro. «Elias?»
L'animale sembrava furioso ma, invece che ragionare, lasciai correre: scortese, riuscii a spingerlo a lato e sgusciare al suo fianco, chiudendo la porta un attimo prima che lui riuscisse a raggiungermi.
«Torno subito a liberarti,» promisi, facendo scattare la serratura. Mi sentivo una persona tremenda. «Questo me lo devi lasciar fare.»

Tornai velocemente nella villa e, sfuggita dalla servitù, trovai la via per le celle, che scesi con amara energia.

«Hamlet?» Chiamai, fioca. Ad ogni passo, mi sentivo peggio.
Ero lì per ammettere che, probabilmente, non ci saremmo più visti. Potevamo essere amici - magari - ma dovevamo smettere con gli incontri notturni e i non detti mal nascosti.
Dovevamo smetterla e basta, questa era la conclusione: il mio destino era sposare Uriah e, deciso questo, non potevo permettermi di farmi scoprire con un prigioniero.

Eppure, mi sentivo comunque pessima.
«Hamlet?»
Corrucciai la fronte, notando che la sua cella era vuota. Completamente deserta.
Come era possibile? Certo, non se n'era andato a fare un giro o a prendere una boccata d'aria.
Le catene erano ancora a terra fra le sterpaglie e il fieno - le spostai con il piede, avvicinandomi al muro ammuffito e scalfito della cella. Era di un insolito color vomito con delle foglie calanti dal soffitto, forse a causa di qualche infiltrazione. Diverse crepe lo spezzavano in più punti ma, la cosa che più mi colpii, fu un piccolo dettaglio di colore.

Sfiorai con cautela il fiocco rosso, passandomelo fra le dita - sul fondo, aveva cucito un fiore bianco e giallo. Lo riconobbi subito.
«Credevo di averlo perso in giardino,» ammisi e, senza pensarci troppo, lo tirai via, rimuovendo anche il chiodo da cui era fermato. Fu un attimo spietato e un frastuono terribile mi fece indietreggiare e trattenere il fiato.

La parete, quasi come neve, era crollata, laciando intravedere, là dove credevo esserci solo delle crepe, una vera e propria porta dal perimetro frastagliato.
Una porta, c'era una porta nel muro.
Sbattei più volte gli occhi, non sapendo nemmeno a cosa pensare, e, con la mente in tilt, lasciai scorrere la mia mano su quella, facendola scorrere contro la parete ruvida. Provai davvero a capire il meccanismo di quello strano ingegno, ma mi era impossibile: quella porta sembrava quasi sospesa nel nulla, come per magia. E dava su un'altra stanza.

«Hamlet?» Chiamai, facendo pochi passi in avanti. Sapevo di essere una sprovveduta, ma non potevo fare altrimenti: l'ignoto mi attraeva come non mai e, oltre l'oscurità, avevo intravisto il fuoco. Vi era una stanza, una stanza nascosta, e quasi rimasi delusa quando mi resi conto che era una piccola cucina: una poltrona, un giaciglio, un bel fuoco su cui cuoceva un brodo.
Le pareti erano ben tenute, per quanto spoglie, e l'ambiente accogliente: semi nascosta nell'ombra, sembrava esserci un'altra parte.
Poi, vidi lei.
Era al centro della stanza - in piedi - e mi guardava con i suoi begli occhi blu sgranati sotto la frangia bionda. Era giovane, e molto più bella di quanto sarei mai stata io. Fu un trauma.
«Ophelia,» ribatté lei, sconvolta. Sapeva il mio nome, come poteva sapere il mio nome?

«Come? Chi siete?» Sussurrai, senza fiato.
La ragazza sembrava sul punto di piangere. «Il mio nome è Emily.»

Angolo

Shock!
Emily is in town, cosa accadrà? Certo, niente di positivo 😂

Detto ciò, cosa ne pensate della scelta di Ophelia? Abbandonare Hamlet per sperare in Uriah? Ora le cose sembrano più complesse 🤨

Detto ciò, spero che il capitolo vi sia piaciuto!
A presto,
Giulia

Ophelia | il cacciatore di stregheWhere stories live. Discover now