Cinque settimane

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"All'attenzione di Sebastian Woycheck
  Laboratorio del Dipartimento Sicurezza
  Prot. n° 243289 del 12/11/2458

  Egregio dottor Woicheck,
  Le comunico il consenso a  
  procedere. Da questo momento siete    
  ufficialmente autorizzati. Potrete usare   
  la pece nera per la creazione. Si   
  raccomanda la massima cautela. Avete
  cinque settimane di tempo a partire da  
  domani.  
  Restiamo in attesa di comunicazioni.

  Maximilian Beümer
  Comandante del Terzo Nattallion ."

«Bene», pensai. Finalmente il mio spirito di ricercatore avrebbe avuto soddisfazione. Ero un militare, quello sì, ma pur sempre un ricercatore. Ci avevano spediti in quella missione sul pianeta Wryx da quando avevamo subito il primo avviso di un fantomatico attacco. Era da tempo che studiavamo la pece nera, una strana e sconosciuta sostanza ritrovata qui, su questo pianeta lontano, così diverso, ma nello stesso tempo così simile al nostro, di cui non immaginavamo neppure l’esistenza e l’impatto che avrebbe avuto su di noi. Quella specie di colla vischiosa reagiva alle emozioni e ai suoni, era plasmabile e incredibilmente resistente.
Non avevamo idea che avesse una specie di empatia o che in qualche modo fosse in grado di percepire i sentimenti. So solo che, quando arrivammo qui, i primi tempi ci tenevamo lontani da quel posto. Poi un giorno, ci recammo in esplorazione e, scivolando sulla roccia, caddi in quel lago oscuro e misterioso composto da quella strana sostanza densa. Non emanava nessun odore, nonostante sembrasse semplicemente una distesa di petrolio. Lo stavamo costeggiando per aggirarlo, quando ad un certo punto misi il piede in fallo e caddi. Quella “cosa” era troppo vischiosa per nuotare e nello stesso tempo io troppo pesante per riuscire a tenermi a galla. Così, iniziai a sprofondare. Lentamente e inesorabilmente. A nulla valsero gli sforzi dei miei sottoposti e colleghi di tirarmene fuori.
Così, appena la sostanza mi arrivò al collo, fredda e viscida come la morte, cominciai mentalmente a dire addio alla mia famiglia. L’immagine di mia figlia, che mi consegnava un regalo prima di partire, mi riempì il cuore di amore, ma anche di disperazione perché non l’avrei più rivista. La mia piccola bambina… lei che mi svegliava al mattino, che aveva fatto il diavolo a quattro per avere un gatto, che mi saltava sulle ginocchia e mi abbracciava, riempiendomi l’olfatto del suo profumo. Fu allora, quando una delle mie lacrime cadde su quella cosa che mi stava uccidendo, che la situazione prese una piega diversa. La sostanza si modificò, divenne meno densa, più simile all’acqua, pur rimanendo scura come la notte. Riuscii senza nessuno sforzo a tirarmene fuori, sotto gli sguardi increduli di chi stava osservando, inerme, la mia dipartita pochi istanti prima. Comunicai subito al comando quanto appena avvenuto. Così mi consentirono, anzi, mi ordinarono, di analizzare più possibile quella cosa. Iniziarono lì i miei esperimenti. Ne presi più di un campione e cominciai ad osservare le sue variazioni appena ne venivo a contatto. Quanto più le mie emozioni erano diverse, tanto diversamente reagiva.
Mi isolai nel laboratorio e, per testare le differenze, mi costrinsi a guardare ogni genere di film disponibili. La tristezza lo faceva diventare liquido come l’acqua. Quello lo avevo già immaginato, ma la conferma me la diedero i numerosi film strappalacrime che mi costrinsi a guardare, con una mano completamente immersa nel contenitore. L’aggressività invece lo faceva diventare resistente, come un vetro antiproiettile. A nulla valsero i tentativi di usare armi bianche e da fuoco. Ed era esattamente quello che poteva servirci. Lo scoprii quando, in preda alla frustrazione e alla rabbia, scagliai il contenitore contro il muro. E rimase la crepa sopra. Così avevo provato e riprovato, prima in completa solitudine e poi con i miei collaboratori. Con loro ero riuscito a modificarlo senza doverlo necessariamente toccare, perché le emozioni di un gruppo, evidentemente, raggiungevano delle vibrazioni che arrivavano senza fisicità.
E adesso… adesso avevo finalmente il via libera per sperimentare quello che avevo chiesto: rivestire i robot che avevamo, per renderli invincibili. E, finalmente, sarei tornato a casa dai miei affetti. Organizzai subito una base mobile, che avrebbe calato gli androidi nel lago. Da lì, avremmo provato e riprovato. Non sapevamo ancora esattamente come fare, ma l’importante era appunto fare.
Andai a cenare, entusiasta per la nuova situazione. Mi sembrò persino una cena da Grand Hotel e non la solita sbobba.
Quando ebbi finito, misi il mio vassoio nel carrello e, percorrendo il lungo e sterile corridoio illuminato solo dai neon, andai nel mio alloggio. Una camera spartana, con l’arredo essenziale: un letto, un comodino e un armadio piccolo di metallo. Ma quantomeno avevo il mio bagno personale, invece di dover dividere quello in corridoio. Feci una doccia rapida, perché terminare le scorte di acqua avrebbe significato non potersi lavare prima dei rifornimenti alla fine del mese. Mi asciugai rapidamente e infilai quello che a tutti gli effetti consideravo il mio pigiama: una morbida comoda tuta blu con lo stemma delle forze armate. Mi sedetti sul letto, dopo aver acceso il computer portatile e aver afferrato una barretta di cioccolata extra fondente, di quelle spesse due dita, col peso specifico del piombo.
Avviai una videochiamata verso casa e, dopo diversi trilli, il viso di mia moglie comparve sullo schermo. I suoi capelli rossi erano legati in un morbido chignon, con i soliti ciuffi ribelli che cercavano di fuggire per conto loro. Gli occhi castani e una spruzzata di efelidi sul naso. “Ciao dottore”, mi disse mentre addentava una mela verde. Come facesse a mangiarle, lo sapeva solo lei. Per i miei gusti erano decisamente troppo aspre. Le sorrisi, spostando la cioccolata dall’inquadratura.
“Ciao tesoro. Com’è?”
“Mmm, al solito. Troppe domande e troppe ansie. Comunque, ti ho visto che hai nascosto la cioccolata.”
Rise di gusto e io con lei. Alle sue spalle si materializzò la mia piccola peste: un caschetto di capelli rossi e gli occhi azzurri come i miei.
“Papà!”, gridò trascinando l’ultima vocale, mentre correndo col povero Rufus in braccio si avvicinava alla mamma. Rufus, il gatto più paziente dell’intero universo, aveva subìto le attenzioni della piccola principessa. Ho perso il conto delle volte in cui lo ha vestito, messo nel passeggino e portato in giro per casa. E lui non solo non si ribellava, ma anzi sembrava gradire tutte quelle attenzioni. Forse perché sapeva che in cambio avrebbe ricevuto una manciata di snack al salmone, per lui deliziosi.
“Ciao principessa. Che fai di bello?”
“Gioco con Rufus! Gli ho insegnato a dare la zampa, guarda!”. Con fare entusiasta mise il gatto a terra, a favore di inquadratura. Con grande teatralità lo guardò e allungandogli la sua mano gli disse la frase magica. E quello, con un’obbedienza che avrebbe fatto invidia a un pastore tedesco, allungò la sua zampa sulla piccola mano. Come aveva fatto, lo sapeva solo lei. Poteva convincere chiunque a fare qualsiasi cosa con i suoi modi travolgenti.
Si girò verso la telecamera, fissandomi negli occhi. “Hai visto? Siamo o non siamo un'ottima squadra?”
“Sì amore, siete fantastici. Quando torno prometto che andremo insieme a scegliere un premio! Ora però devo andare, mi raccomando non dare troppo il tormento a Rufus, intesi? E saluta i nonni per me, domani.”
Annuì con un cenno del capo, si avvicinò a baciare la mia immagine sullo schermo e quello che vidi io, fu la sua piccola bocca stamparsi sopra.
“Fila a lavarti i denti e mettiti a letto. Tra poco arrivo per la storia.” mia moglie ricomparve nell'inquadratura e la piccola sparì al piano di sopra. La vidi correre per le scale, seguita dal suo fedele amico. Sì, era decisamente più un cane che un gatto.
“Ci manchi Dave.”
“Mi mancate anche voi. Riguardatevi, torno presto.”
Mi mandò un bacio soffiandolo sulla mano e la vidi abbassare lo schermo del suo portatile. Ciò mise fine alla conversazione. Richiusi la cioccolata e sospirai. Misi via il PC, spensi la luce e cercai di dormire.
Con le prime luci del mattino, se così si poteva definire quel chiarore grigiastro di un altro pianeta, indossai la tuta per l'uscita dalla base. Avremmo portato cinque androidi e li avremmo immersi, accesi, all'interno del lago, per studiare l'esposizione alla sostanza e la resistenza della loro lega.
“Buongiorno Dave. Oggi è il gran giorno!” Charlie mi porse una tazza di caffè appena uscii dal mio alloggio.
“Grazie, mi hai letto nel pensiero. Ti vedo entusiasta. Dormito bene?”
“No, a dire la verità ho dormito di merda, ma se tutto va bene, potrò tornare presto a dormire nel mio letto insieme a mia moglie.”
Gli feci un cenno di intesa, perché era la stessa cosa che desideravamo tutti lì dentro. Tornare dai nostri affetti.
Uscimmo dalla base e ancora una volta ammirai compiaciuto i progressi della tecnologia. La cupola che avevamo installato su tutta la zona, ci permetteva di uscire senza portarci appresso quegli scomodi caschi per respirare. Prendemmo la Jeep e raggiungemmo il resto dell'equipaggio. La gabbia era pronta per essere calata all'interno del lago. Aprii il portatile ad essi collegato e controllai tutti i parametri mentre venivano sommersi, fino a sparire dalla vista. La lega in cui erano stati costruiti, così come ogni più piccola parte non sembrava risentire della pressione nonostante la componente densa. Continuammo così per tutti i giorni successivi, provando a muoverli dall'esterno e cercando di fare entrare in empatia con loro la pece nera.
Ma niente sembrava funzionare, tanto che ormai, vista l'imminente scadenza delle cinque settimane, ero rassegnato al fallimento.
Oggi è l'ultimo giorno che concedo a questa cosa, dopodiché, chiederò di essere rimandato a casa. Ho già perso anche troppo tempo della mia vita dietro questa assurdità. Vorrà dire che tornerò a stare dietro una scrivania.
Così mi sono messo nella mia solita postazione a lavorare in tranquillità finché non è arrivato Charlie con una strana faccia.
“Ehi, cos'è quella espressione. Ti è morto il gatto?”
“Dave, devi rientrare. C'è una navetta che ti aspetta.” gli tremava la voce e io non comprendevo il perché.

“Se questo è uno dei tuoi scherzi, non è divertente. Non tornerò a casa prima della settimana prossima. Ora torna al lavoro.”

“Dave sono serio. Devi tornare a casa.”
Abbassò lo sguardo e lì cominciai a innervosirmi.
“Devi dirmi qualcosa Charlie?!”
Il suo silenzio valse più di mille parole.
“Cazzo, Charlie! Cosa non mi stai dicendo?” Mi alzai, mandando a sbattere la sedia girevole contro il metallo del container per l'osservazione.
Tacque ancora e vidi una lacrima. Fu come vederla al rallentatore. Quella piccola goccia scivolò su una guancia, cadde nel vuoto e gli si infranse sullo scarpone da esplorazione.
È stato in quel momento, che ho capito cosa non mi stava dicendo.
Lo afferrai per la tuta sbattendolo contro il freddo metallo e vidi la sua faccia cambiare espressione. Lo stupore, misto al dolore e nonostante tutto continuava a tacere.
“Cosa è successo? Parla, per Dio!”
“Hanno avuto un incidente. Dave io… mi dispiace.”
E mentre, a Charlie moriva la voce in gola, io morivo dentro. Mi sembrò di sentire il mio cuore aprirsi in due, mi mancava l'aria, lo sguardo ormai accecato dalle lacrime.
Solo un urlo prima di accasciarmi a terra. Non avevo più niente. I pensieri nella mia testa, in un vortice di immagini, mi proiettarono frammenti di vita. Il primo appuntamento, il mio matrimonio, una ecografia poggiata a colazione sotto il tovagliolo… la mia principessa. Non è umano resistere a tanto dolore, sopravvivere invece di vivere. Non volevo più esistere, non senza di loro. Mi alzai di scatto, aprii la porta del container e iniziai a camminare come un automa verso il lago. Era così che avevo deciso di farla finita. Ero furioso, disperato, addolorato. Ero un vortice di emozioni. Volevo sparire in quella cosa e lei mi avrebbe aiutato a farlo. Sto arrivando principessa, aspettami.
L'ultima cosa che vide Charlie, nell'ultimo disperato tentativo di salvarmi, fu il formarsi di tante copie di mia figlia che svanirono nello stesso istante in cui io, perdevo la vita, mentre la mia principessa veniva a prendermi con sé prendendomi per mano.

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Storia scritta per partecipare alla Sfida di scrittura creativa 45 di MaidireTEAM

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Parimerito con la bellissima storia di Ameba_Unicellulare

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