Jacopo

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«Jaco, io oggi parto e starò via due settimane, ho un congresso a Parigi a cui non posso assolutamente mancare.» Suo padre gli si avvicinò e gli lasciò la copia delle chiavi di casa, scombinandogli leggermente i capelli. «Mi raccomando, è la pima volta che ti lascio a casa solo e non ti porto dalla nonna, non farmi pentire di questa decisione, chiaro?» Disse con il solito tono autoritario.

«Sì, papà.» Rispose una flebile vocina, ancora troppo acuta per ricevere una tale responsabilità.

Jacopo aveva a malapena undici anni. Era magrolino, cosa che lo caratterizzò a vita, con una massa incolta di capelli lisci, di colore castano chiaro e non troppo lunghi, che gli ricadevano sulla fronte. I suoi occhi erano verdi, ma non un bel verde acceso, né tendente al verde chiaro, bensì erano davvero scuri, come le foreste.

«Se ti senti solo guarda la tv o gioca alla console nuova, ma non invitare i tuoi amici, non voglio la casa a soqquadro.» L'uomo prese la sua ventiquattrore e il trolley da viaggio che aveva trascorso più tempo fuori casa che dentro il suo armadio, per poi dirigersi verso la porta di casa.

Il piccolo non poté far a meno di chiedersi come mai il padre gli facesse una tale raccomandazione. Non vedeva, per caso, i lividi sui polsi o i graffi sulle scapole? Quali amici avrebbe dovuto invitare se le persone che lo conoscevano meglio erano quelle che lo picchiavano?

Si chiedeva spesso cosa avrebbe dovuto farsene dei sentimenti.

Erano solo dei pesanti e ingombranti macigni che si trascinava dietro da quando sua madre lo aveva abbandonato alle cure di suo padre. Cure... si fa per dire. Effettivamente Jacopo non aveva mai avuto un gran rapporto con lui, ma di sicuro si aspettava di più che vederlo una volta alla settimana, ovvero quando andava bene e non era in viaggio per lavoro.

Fu in quegli anni che realizzò che nessuno mai sarebbe stato disposto ad ascoltarlo, gli stessi anni nei quali iniziò a subire bullismo dai suoi coetanei e venire allontanato dalle ragazze. Era stato marchiato come reietto, insultato giornalmente, tanto da convincersi che il disgusto che gli altri provavano nei suoi confronti avesse un qualche fondamento, ma abbastanza rispettoso di se stesso da non farglielo intendere.

«Ma che ti passa per la testa? Insulti la ragazza più carina della scuola e te ne vai via senza nemmeno pensarci due volte!»

Uno dei pochi amici che aveva, Alessandro, lo stava rincorrendo l'ennesima volta per il cortile, all'ingresso della scuola. Come tutte le altre occasioni in cui questa scena si ripeteva, il suo compagno ne aveva combinata un'altra delle sue. Aveva il fiatone ma non si fermò fin quando Jacopo non smise di camminare.

«Alex, dacci un taglio, non ho detto nulla che gli altri non condividessero. Non è colpa mia se è un'oca senza cervello e non sa niente di fisica, ma è colpa mia se dico che ha sbagliato a farsi il prof per avere il mio stesso voto? Sono entrambi dati di fatto.» Disse il castano dandogli ancora le spalle e mettendosi le mani in tasca per il freddo invernale.

«È comunque una persona, ha dei sentimenti e viene ferita se tutti le ridono in faccia, e non puoi trattare così le persone!» Alex ormai urlava, ma a lui non importava. Sapeva che avrebbe reagito così.

«Se non ti piace come tratto le persone... perché sei ancora qua?» Disse voltandosi appena.

Le parole gli uscirono dalla bocca senza accorgersene. Ci fu un momento davvero lungo di silenzio, nessuno dei due osò dire nulla. Forse era stato proprio quello il momento in cui Jacopo era diventato pienamente quello che era.

«Hai ragione, non ha un senso stare qua.»

Alex andò via, e non lo rincorse mai più.

Tutti coloro che gli erano stati vicino dopo, durante i primi tempi alle superiori, affermavano che vivere come un automa e non avere empatia erano caratteristiche proprie dei robot, e che con gli esseri umani non avevano nulla a che fare. La maggior parte sosteneva anche che era da vigliacchi non voler provare quelle emozioni che ti smuovono da dentro, positive o negative che siano.

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⏰ Last updated: Dec 09, 2017 ⏰

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