Capitolo III

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Avevo un mal di testa che non avevo mai provato prima: sentivo la tempia destra pulsare violentemente, quasi a voler saltare via da un momento all'altro, così la pressai con la mano, come a volerla tenere lì, al suo posto.

Intorno a me c'era solo buio, un buio immenso, infinito e freddo. Il pavimento era umido e mi faceva un po' schifo stare lì a terra, così feci per alzarmi ma sentii una morsa congelata fulminarmi le caviglie e i polsi: ero legata.
Lunghe catene in freddo ferro si aggrovigliavano attorno a me tendendomi lì.

Che cosa stava succedendo, che cazzo di scherzo era questo? Vale l'avrebbe pagata cara.

«Vale! Vale porca puttana!» gridai premendo ancora più forte sulla tempia, seduta sul pavimento freddo «Quanto tempo ci hai messo ad organizzare questa stronzata, eh coglione!?».

Non sentivo alcun rumore, alcuna risposta, alcuna risata.

«Vale dai, ti prego!» stavo per mettermi a piangere.

Improvvisamente, una porta davanti a me si aprì lentamente, scricchiolando. La fioca luce gialla dietro la porta rivelò una piccola rampa di scale e mi resi conto che la stanza non era molto grande, come avevo creduto al buio. Al contrario, era uno stanzino molto piccolo, con le pareti alte, grigie e ammuffite. Ipotizzai si trattasse di uno sgabuzzino sotterraneo, una cantina, come suggerivano le scale.

«Vale! Dai, toglimi queste cose» nessuno si mosse, si vedeva soltanto un ombra allungata proiettata dalla luce gialla sulla parete ammuffita «Vale... Vale?».
«Vale non c'è. Vale non ci sarà mai più. Ormai sei mia» disse l'ombra. Rimasi perplessa. La voce non era quella di Vale.

«Cosa stai dicendo? Dov'è Vale? Chi sei tu? Dove sono? Cosa vuoi da me?» le domande mi lampeggiavano nella mente e si precipitarono fuori trascinandosi una dietro l'altra.
«Zitta!» gridò l'ombra che sbatté la porta alle sue spalle. Ora la stanza era di nuovo buia ed enorme, anche se la poca luce che mi era rimasta negli occhi mi faceva delineare un po' meglio i confini dello stanzino.
Improvvisamente si sentì un sordo clac e dal soffitto iniziò a lampeggiare velocemente accompagnato da veloci e nervosi tic fino a che la lampada nera da cui provenivano non si illuminò del tutto di una debole luce bianca.

L'uomo, che era ancora sulle scale, prese a scendere gradino dopo gradino, lentamente: tump, tump, tump, tump.
Ad un certo punto me lo trovai davanti, ritto in piedi, i pugni serrati, le vene pulsanti.
Indossava un pantalone di tuta nero, una maglietta grigia ed una felpa con cappuccio dello stesso colore del pantalone.
Aveva la testa completamente coperta: portava il cappuccio alzato e il volto era oscurato da una maschera bianca, su cui era disegnato un sorriso enorme e due sopracciglia nere marcate sugli occhi.

Nel silenzio dello stanzino, il suo respiro intrappolato nella maschera ed il mio cuore che batteva come non aveva mai fatto prima, facevano un baccano pazzesco.

Avevo paura. Come mai prima di quel momento nella mia vita avevo paura.
Era come se improvvisamente avessi realizzato di essere in pericolo: quello che avevo davanti non era Vale, quelle che avevo sui polsi e sulle caviglie erano catene vere, tutta questa situazione non era uno scherzo.
Il respiro si fece pesante ed affannoso, il cuore iniziò a pulsare e a gonfiarsi fino a riempire tutta la cassa toracica, mi iniziarono a fare male le orbite e la gola si seccò, la stanza sembrò rimpicciolirsi ed improvvisamente ebbi la sensazione di ritrovarmi chiusa in uno spazio tanto angusto da essere paragonabile ad un armadio, il mio petto su quello di un perfetto sconosciuto mascherato, le catene sugli arti sempre più strette e sempre più fredde.

Raccolsi tutto il coraggio che avevo in corpo, e con la bocca a corto di saliva esalai: «Chi sei?».

Nonostante fosse coperto, riuscì a sentire il suo sorriso beffardo allargarsi dietro la maschera bianca. Dei respiri più ritmati e rumorosi si fecero largo tra le fessure della maschera: stava ridendo.

Poi disse, lentamente, maliziosamente: «Io? Io sono il tuo padrone».

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Il volto del padroneWhere stories live. Discover now